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 2014  dicembre 15 Lunedì calendario

PERCHE’ DICIAMO “DIKTAT”

La maggior parte dei giornali di oggi, in prima pagina, racconta l’assemblea del Partito Democratico che si è svolta ieri a Roma riportando una frase del presidente del Consiglio e segretario del PD Matteo Renzi rivolta alla minoranza: «Non accetto diktat».
La parola “diktat” è da tempo molto usata nel lessico politico italiano. Deriva dal tedesco, che a sua volta si rifà al participio passato latino dictatum. Corrisponde all’italiano “dettato” e, come spiega il dizionario Treccani, indica un «trattato di pace imposto dai vincitori, senza possibilità di negoziare». Storicamente la parola venne riferita per allusione da un articolo del giornale francese Temps in cui si parlava di “paix de justice dictée” in riferimento al trattato imposto ai tedeschi alla fine della Prima guerra mondiale, la cosiddetta pace di Versailles, con il quale vennero stabilite per la Germania una serie di condizioni non negoziabili, appunto.
Per la stessa ragione fu chiamato “diktat” anche il trattato imposto all’Italia dai vincitori dopo la Seconda guerra mondiale. L’uso della parola si diffuse ancora durante gli anni della cosiddetta Guerra Fredda per descrivere le imposizioni da parte dell’Unione Sovietica nei confronti dei suoi paesi satelliti. Un suo uso nel linguaggio comune viene comunque attribuito alla stampa italiana. Negli anni più recenti, infatti, la parola è stata usata più volte per estensione a indicare una specie di alternativa non discutibile: una sorta di aut aut sempre con connotazioni negative. La parola è stata applicata in vari campi, compreso quello economico.
Nelle vicende politiche italiane più recenti, c’è un episodio in particolare che viene ricordato. La parola “diktat” è stata usata a proposito di una cosa detta il 18 aprile 2002 dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi durante una conferenza stampa in occasione di una visita ufficiale a Sofia. Berlusconi parlò dell’uso secondo lui «criminoso» della televisione pubblica da parte dei giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro e di Daniele Luttazzi, affermando anche che sarebbe stato «un preciso dovere della nuova dirigenza» RAI non permettere più il ripetersi di simili situazioni. Dopo poco i tre furono estromessi dal palinsesto della RAI. Un giornalista dell’Unità, Stefano Collini, definì quella dichiarazione un “diktat bulgaro” e quella frase passò alla storia così o come “editto bulgaro”: l’aggettivo bulgaro faceva riferimento alle azioni di controllo e censura della stampa compiute dalla dittatura bulgara durante il socialismo reale.