Rocco Cotroneo, IoDonna 13/12/2014, 13 dicembre 2014
NEL PAESE DIVISO DA EQUATORE. E PETROLIO
A una ventina di chilometri da Quito, la capitale dell’Ecuador, passa la linea immaginaria che divide il Nord dal Sud della nostra Terra. Si chiama Mitad del Mundo il luogo che la celebra: ci sono un monumento, un museo ed è impossibile per chi passa resistere alla tentazione di farsi fotografare mentre attraversa la striscia gialla che marca l’Equatore, un piede di qui l’altro di là. La tracciarono prima dell’avvento del Gps: è sbagliata di circa 200 metri, ma fa niente. Il piccolo Paese sudamericano che prende il nome dalla sua posizione geografica non potrebbe essere meglio rappresentato. Il giochino del turista che sta in equilibrio tra i due emisferi è metafora dell’Ecuador di questi ultimi anni. Bello, dolce e straordinario Paese con una ricchezza di paesaggi e climi raccolti in un fazzoletto di terra: in poche ore si attraversa il deserto della costa pacifica, si sale tra le vertigini sull’altopiano e le cime innevate delle Ande per poi ridiscendere verso la foresta amazzonica. La secolare miseria provocata dalla Conquista spagnola contrasta con lo splendore dell’architettura coloniale delle sue città d’arte; un sistema sociale e politico carico di prepotenze del passato non rende giustizia alla laboriosità dei suoi abitanti.
Eppure c’è qualcosa che si muove, e in modo significativo, negli ultimi anni. All’inizio di questo secolo, l’Ecuador era il Paese più instabile del continente, quello dal quale fuggiva più gente all’estero per necessità, e dove poche grandi multinazionali sfruttavano senza controlli le sue ricchezze naturali. Oggi viene addirittura consigliato dalle riviste per pensionati americani come il luogo ideale per andare a vivere in tarda età: ha un clima eccellente, costa poco, si mangia bene, è sicuro. E poi è friendly, difficile non trovarsi bene con gli ecuadoreños (e molti di noi lo sanno grazie alla dedizione e dolcezza della badanti che ci aiutano con genitori e nonni). La riduzione della povertà, la stabilità politica e gli investimenti sono gli argomenti di chi vede nell’Ecuador un Paese proiettato verso un futuro migliore. Ma gli antichi mali del continente restano in agguato, come il campo magnetico che tira verso Sud sulla striscia gialla di Quito: un presidente che non vuole saperne di passare la mano, il potere politico che invade quello giudiziario e vuole stampa e tv compiacenti.
È alla guida del Paese dal 2006 il presidente Rafael Correa: è giovane, bello, imponente quando sfida e batte Alvaro Noboa, l’uomo delle vecchie oligarchie, chiamato “il re delle banane”. L’Ecuador sta uscendo da un periodo drammatico, un quinto della sua popolazione se n’è appena andato verso Stati Uniti, Spagna e Italia; il debito estero è alle stelle, l’inflazione a due cifre; ogni anno cade un presidente. Correa si allinea alla sinistra radicale del continente che vede nel venezuelano Hugo Chávez il leader, sfida Stati Uniti e multinazionali, promette di restituire le risorse naturali al popolo. È un caudillo tecnocrate e astuto, ha studiato economia, Non è un militare o un politico di professione. Correa lascia in pace la proprietà privata, non fa scappare gli investitori stranieri e mette a posto i bilanci del Paese. Crede nello sviluppo, scontenta gli ambientalisti con i suoi progetti di estrazione di petrolio nel cuore della foresta, e mantiene sempre buoni indici di approvazione. Viene rieletto due volte, ed è di questi giorni la discussione in Congresso di una legge che gli permetterà di correre per la presidenza ancora nel 2017. L’opposizione lo accusa di controllare giudici e tribunali, e lui va pesante contro i media che lo criticano. Fa fallire giornali ottenendo risarcimenti per diffamazione e riesce a far passare una legge bavaglio, secondo la quale l’informazione da diritto diviene bene pubblico, con un garante scelto dal governo. Correa sostiene che si tratta di un intervento necessario contro la concentrazione dei media in poche mani di estrema destra. Al mondo si presenta come un paladino della libertà di opinione con l’asilo concesso a Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, che si trova da due anni nell’ambasciata ecuadoriana di Stoccolma.
Correa è stato anche fortunato, perché il boom dei prezzi del petrolio ha portato molto denaro alle casse dello Stato. Anche il futuro resta legato alle ricchezze del sottosuolo, ma è un percorso con molti ostacoli. Qualche anno fa indios e ambientalisti dell’Ecuador ottennero una vittoria storica con la condanna della compagnia petrolifera Chevron, che tra il 1964 e il 1992 aveva versato tonnellate di scarti nella foresta, contaminando fiumi e uccidendo persone.
In teoria gli abitanti della regione dovrebbero ricevere una cifra record di indennizzo, 19 miliardi di dollari, ma la vicenda è ancora aperta. Correa si è trovato davanti ad un dilemma simile, quando ha deciso di autorizzare il progetto Yasuni: concessioni petrolifere in un’altra area vergine della foresta, riserva mondiale Onu della biosfera. Prima ebbe un’idea, chiedere denaro alla comunità internazionale come compensazione: se fossero arrivati per solidarietà circa 3 miliardi di euro l’Ecuador avrebbe lasciato le proprie ricchezze nel sottosuolo. Ma nel fondo sono stati versati appena 10 milioni e Correa ha deciso di andare avanti, nonostante l’impopolarità della decisione. «Useremo le migliori tecnologie ambientali, e comunque appena l’1 per cento del parco nazionale Yasuni verrà coinvolto» promette. La corsa dell’Ecuador deve continuare.