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 2014  dicembre 13 Sabato calendario

PD, RENZI VA ALLA RESA DEI CONTI ECCO LE SPESE PAZZE DELLA DITTA

In Parlamento la minoranza Pd incrocia le braccia, in solidarietà con la Cgil. L’esame della riforma del Senato ieri si è bloccato, seduta sospesa e rinviata per l’impossibilità di trovare una mediazione con la sinistra del partito che, unita alle altre opposizioni, sostiene emendamenti che puntano a ribaltare l’impianto del ddl. Intanto dal Senato la fronda bersanian-dalemiana annuncia con un comunicato congiunto di continuare la battaglia contro l’Italicum: «Non intendiamo rinunciare a svolgere fino in fondo una funzione coerente con le prerogative del Parlamento».
Lo stallo sulle riforme, provocato da un pezzo del partito del premier, è un rischio ormai palpabile. E nel Pd renziano c’è la convinzione che la manovra a tenaglia della minoranza sia certo mirata a ricattare il segretario per «sedersi anche loro al tavolo della trattativa per il Quirinale», ma che ci sia anche qualcosa di più. La crescente esasperazione dei toni contro Renzi, la saldatura anche di piazza con la Cgil di Camusso e Landini marcia contro il governo («Lì c’è il popolo che vuole la rinascita del Paese», declama la parlamentare dalemiana Barbara Pollastrini, che naturalmente era in piazza, come si conviene alla moglie di un banchiere), l’accusa al premier di «non rispettare il Parlamento»: sono tutti tasselli di una strategia che, secondo alcuni dalle parti del premier, mira alla rottura. Con l’obiettivo di far saltare il «patto del Nazareno», di affossare le riforme, e di diventare determinanti nell’elezione di un presidente della Repubblica che non possa essere votato da Berlusconi. Nel Pd circola anche il forte sospetto che si stia tentando di provocare una reazione dura del premier, che offra alla minoranza l’occasione per rompere, vestendo i panni della vittima. Lo dice abbastanza chiaramente Gianni Cuperlo: «Renzi vuole una resa dei conti sulle poltrone? Se mi chiede di lasciare il mio posto da deputato, io in un minuto mi dimetto e gli restituisco quello che evidentemente ritiene di sua proprietà. Penso solo che in quel caso dovrebbe cambiare anche nome al Pd», cioè rinunciare all’aggettivo «democratico». Parole da cui trapela un wishful thinking: costringere Renzi a forzare la mano contro la fronda, estromettendola dagli incarichi, e creare il casus belli per un’eventuale scissione che permetta di ricostituire la «Ditta» post-Pci. «D’Alema sta organizzando le truppe, in Parlamento e sul territorio», dicono dal fronte renziano.
Per questo, in vista dell’Assemblea nazionale di domani, in molti si stanno adoperando per convincere il premier a tenere una linea più soft verso la minoranza, e ad evitare prove di forza. Renzi, esasperato dallo stillicidio di imboscate sulle riforme, ha minacciato un redde rationem: ci sarà la conta su un documento, e sono state ventilate iniziative anche sulla segreteria (dove la minoranza ha i suoi strapuntini) e sulle candidature alle Regionali. «Meglio però non offrire pretesti alla fronda», dicono i frenatori. Si parlerà anche di fundraising e dei bilanci del partito: la gestione renziana ha drasticamente tagliato le spese, e il raffronto con le precedenti sarà impietoso. Secondo il neo-tesoriere Bonifazi, «tutti i componenti della segreteria Bersani godevano di 3.500 euro di indennità-rimborso, due avevano anche appartamenti e solo per le auto blu sono stati spesi nel 2012 450mila euro», scesi a 124mila nel 2013. Il disavanzo del 2013, prima dell’elezione di Renzi, era di più di 10 milioni. Qualche polemica su questo fronte è assicurata.