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 2014  dicembre 13 Sabato calendario

«SPAGNA FUORI DALLA CRISI» UNA LEZIONE PER L’ITALIA

«Seduto ho avuto tante idee, ma è alzando il culo che le ho realizzate». Incorniciata in un quadretto, c’era anche questa frase dentro alle scatole di cartone in cui i trader di Lehman Brothers, licenziati in quel gelido settembre del 2008, avevano stipato i loro sogni infranti. La Spagna sembra aver appreso perfettamente la lezione del crac più scioccante nella storia della finanza. E fatto suo quell’invito a muoversi, a non restare inerti. Agire, non solo pensare. Vincendo le resistenze al cambiamento. Al punto da poter far dire al premier, Mariano Rajoy, che «la crisi è storia passata»: la nazione è «di nuovo un magnifico Paese di opportunità di investimento», pronto a crescere nel 2015 di oltre il 2%. Un tasso di sviluppo che l’Italia può solo sognare.
Eppure, appena tre anni fa, Madrid era praticamente a un passo dal capolinea: i legami pericolosi tra le banche e il settore immobiliare avevano finito per scoperchiare un autentico vaso di Pandora che vomitava le vulnerabilità di un milagro economico dai piedi d’argilla. Tra Pil in picchiata, disoccupazione montante come uno Tsunami, spread impazziti e Bonos (i Btp iberici) trattati dalle agenzie di rating come junk, spazzatura, per salvare il Paese dal default fu giocoforza passare sotto le forche caudine degli aiuti europei. Oltre 40 i miliardi di euro attinti dal fondo salva-Stati Esm, con una bella fetta dell’assegno staccata anche dall’Italia. Così se oggi, dall’Andalusia fino all’Asturia, si sente profumo di ripresa vera, è insomma anche un po’ merito nostro.
Certo i soldi non sarebbero bastati a uscire da un autentico cul de sac e a portare, già nel settembre 2013, il Paese fuori dalle secche della recessione e a uscire dal programma di assistenza comunitario, se gli spagnoli non si fossero dati una mossa. Con l’uscita di scena di Josè Luis Zapatero, ritenuto responsabile di aver fatto leva sull’edilizia per contrastare la crisi, l’arrivo al Palazzo della Moncloa di Rajoy è coinciso con l’adozione di una serie di misure che hanno profondamente riformato il Paese. Una cura antibiotica a largo spettro, e tutt’altro che indolore, somministrata nella prima fase dell’emergenza soprattutto ai lavoratori statali, con tagli alle ferie e la soppressione delle tredicesime; poi, ai disoccupati e ai pensionati, attraverso la decurtazione di sussidi e vitalizi. E con un provvedimento a 360 gradi basato su un aumento dell’Iva dal 18 al 21%. Le proteste, di fronte a quella stretta soffocante alla qualità della vita, furono immediate. E prolungate.
Ma Rajoy è andato avanti. Tappata la voragine che si era aperta nel settore finanziario, la seconda mossa ha riguardato il mercato del lavoro. Con un obiettivo preciso: indebolire i contratti nazionali, a favore della contrattazione aziendale, e rendere più facili i licenziamenti. Per quelli collettivi è stato abolito l’obbligo per le aziende di ottenere la preventiva autorizzazione amministrativa. Non solo. Un’impresa può lasciare a casa un dipendente se il fatturato è in calo, oppure se gli utili scendono per tre trimestri consecutivi. Una riduzione di tutele che si riflette anche nella decurtazione degli indennizzi per i licenziati, portati da 45 a 33 giorni di stipendio. Un quadro normativo nuovo, teso a incentivare le assunzioni senza spaventare le imprese, mandato in porto anche perchè Rajoy non aveva l’esigenza di trovare una mediazione - come invece deve fare Matteo Renzi - all’interno della propria maggioranza.
Sta funzionando, questa cura? A guardare il grafico sui disoccupati, scesi dai 6,2 milioni di inizio 2012 agli attuali 5,4 milioni, si direbbe di sì. Ma il tasso dei senza lavoro resta elevato: 23,7%, 45% tra i giovani. Rajoy punta a scendere al 22% l’anno prossimo, ma non manca chi lo accusa di ingrossare le file degli occupati grazie all’elevata percentuale di lavoratori temporanei o part-time.
In ogni caso, la necessità di dare un’ulteriore spinta all’economia (o, dicono i maligni, in vista delle elezioni del prossimo anno) ha portato il premier spagnolo a sfidare apertamente Bruxelles, che ancora premeva per una politica di austerity, con la terza fase del suo progetto di rilancio. Quella che si concentra su una riduzione decisa della fiscalità su imprese e famiglie, da approvare entro fine anno. Tra le altre misure, è previsto il taglio dell’aliquota Irpef più bassa dal 24,75% al 20% nel 2015 ed al 19% nel 2016 e un abbattimento di quella sulle aziende dall’attuale 30 al 28% nel 2015 e al 25% nel 2016.
Insomma: tutto si potrà rimproverare a Rajoy, tranne di non aver alzato il culo dalla sedia.