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 2014  dicembre 14 Domenica calendario

«LA LETTERATURA NON È AFFATTO MORTA, SI STA SOLO RIPOSANDO UN PO’»

[Intervista a Pietro Citati] –
In questo salotto giallo affacciato sui Parioli non ci sono libri. Neanche uno: del resto le cose importanti stanno quasi sempre altrove. Non molto più in là ci sono le stanze dell’amore che si spalancano una sull’altra. E sono tutte biblioteche. Pietro Citati aspetta di raccontare la sua vita «cominciata per caso, perché per caso sono nato a Firenze, dove mio padre lavorava per la Navigazione Italia».
Intanto è subito chiaro che non bisogna dir male del giornalismo, è subito chiaro che qui non si possono dire, con Balzac nelle Illusioni perdute, cose come «quei luoghi malfamati del pensiero detti giornali». Perché, avverte il padrone di casa, «a me il giornalismo ha dato tantissimo». E poi naturalmente i libri: in totale la sua biblioteca, sparsa per due case, conta trentamila volumi. I libri al centro della vita, ecco un’altra cosa da non dire. «I libri sono la vita, io non ho mai saputo distinguere tra vita e letteratura. Il primo che ho letto è un libretto francese per bambine, di Madame de Ségur, la storia di una pestilenziale ragazzina di nome Sophie. L’ho trovato in casa: in casa mia si parlava francese, come spesso nel Nord capitava alle famiglie borghesi, e come si legge nei romanzi russi».
Lei non è cresciuto a Firenze però.
«A due anni, nel 1932, mio padre viene trasferito a Torino, che infatti è la città della mia infanzia e della mia giovinezza. Se devo pensare a qualcosa che mi appartiene, devo tornare lì con il pensiero. Un luogo bellissimo, elegante, non abbastanza conosciuto dagli italiani. Mi piace l’allure barocca, il centro seicentesco, settecentesco. Ha angoli stupefacenti e insperati, come la Consolata del Guarini che sembra una chiesa orientale. Gli studi li ho fatti a Torino, dalle elementari al liceo».
Ginnasio D’Azeglio.
«Sì, ma nel ‘42 sono cominciati i bombardamenti, molto violenti, su Torino e siamo andati in Liguria, a Cervo, vicino a Imperia dove avevamo una casa. Dal ’42 al ’45 non sono andato a scuola, il che era meraviglioso, perché studiavo un po’ il greco e il latino con un professore, ma poi ero libero. C’era un appartamento sotto il nostro, dove erano raccolti tutti i libri di famiglia, quelli della famiglia di mia madre e quelli della famiglia di mio padre. Erano tantissimi. Stavo lì tutto il giorno, in una beatitudine assoluta. E anche in una libertà assoluta: nessuno sceglieva per me quello che dovevo leggere. Il palazzo era una vecchia casa seicentesca, molto grande. L’appartamento-biblioteca era nel seminterrato: io andavo lì e leggevo, senza nessun criterio, senza nessun ordine. Leggevo anche cose insensate: ho letto tutti i numeri di una rivista letteraria del periodo Liberty, che si chiamava Emporio. Oggi è sconosciuta, ma ai tempi era una famosa rivista d’arte e di letteratura che teneva informati gli italiani su quello che accadeva soprattutto in Francia. Così incontrai Mallarmé, Verlaine, Valery. Ho imparato tutto lì, e questa circostanza ha molto influenzato il mio gusto. L’occhio era quello di cinquant’anni prima: ancora oggi penso alle cose dell’Ottocento e del primo Novecento con l’occhio del Liberty. In quella casa ho incontrato Shakespeare, nella traduzione del Mattei, una non buona traduzione ottocentesca. E così anche per Byron».
Fuori, la guerra.
«In quella zona della costa ligure c’erano spesso scontri a fuoco tra partigiani, tedeschi e repubblichini. I miei due più cari amici sono morti: uno fucilato dai nazisti e l’altro in combattimento con i partigiani, sulle colline dietro casa mia. Io vivevo invece in una condizione di beatitudine. Qualche volta accadevano anche cose divertenti. Un giorno mi affacciai da una finestra di casa, che era alta sul mare, e c’era un sommergibile inglese che emergeva. Sono venuti tutti quanti fuori, fumavano la pipa. Tirarono fuori un cannoncino e spararono su alcune navi in costruzione, dopo aver bevuto il tè. Oppure la notte arrivavano le navi di fronte a Imperia e cannoneggiavano la città. Per me la guerra, a parte la tragica scomparsa dei miei amici, è stata un grande divertimento».
Poi il regime è caduto.
«Quando la guerra è finita avevo 15 anni e qualche mese, siamo tornati a Torino. Mi sono iscritto alla I liceo, il mio compagno di banco era Gianni Merlini, che sarebbe diventato direttore e poi presidente della Utet. Contro il parere di mia madre e di mio padre, sono andato alla Normale di Pisa, e mi sono iscritto a Lettere moderne. Ho fatto male, perché il professore più bravo era Giorgio Pasquali, un grandissimo filologo classico, grecista: avrei dovuto fare Lettere classiche. Mi piaceva la letteratura, anche se non ne sapevo nulla. I miei genitori non volevano, mi dicevano di fare Legge, volevano che diventassi avvocato. Ho fatto quello che desideravo, anche se ero molto dubbioso. Al liceo tra l’altro io ero bravo in matematica, più che nelle materie umanistiche. Be’, poi all’Università ho conosciuto quella che sarebbe poi diventata mia moglie. E trascorrevo con lei ore molto piacevoli, a spasso per i giardini di Pisa».
Com’era la vita alla Normale?
«Il bello era che non era importante fare gli esami. Facevamo gli esami come in una qualunque facoltà di Lettere, ma più importante era ciò che studiavamo per conto nostro. Ogni anno c’era un colloquio, con una tesi di un centinaio di cartelle su un argomento a nostra scelta. Il primo anno scrissi una tesi a proposito delle idee di Leopardi sulla poesia, il secondo anno – senza tradire Leopardi – mi occupai delle varianti dei Canti. Per il resto non era una gran vita. Lei non può immaginare a che punto si faceva la fame in Italia, nel ’47. Non si mangiava, di fatto. La grande cosa per noi studenti era la pasta asciutta una volta alla settimana. Carne praticamente mai. Gli altri giorni c’era una broda, più che un brodo. Minestre, zuppe allungate e pane, solo pane che era ancora tesserato. E poi c’erano degli stranissimi animali che avrebbero dovuto essere polli, ma non sembravano affatto polli. Li chiamavano “vipistrelli” quegli esseri magri e macilenti: erano polli del Dopoguerra. A casa mia erano ricchi nel periodo tra le due guerre, ma mia madre aveva perso i suoi capitali e anche in casa si faceva la fame».
Cos’era il Fascismo per un adolescente?
«Ricordo precisamente, con assoluta nitidezza, cosa è stato. Conservo ancora l’odore, il profumo del Fascismo. Un olezzo terrificante: puzza di miseria, di conformismo, di meschinità. In casa mia non erano tanto fascisti, ma nemmeno antifascisti. Il sabato mio padre doveva andare alle adunate e allora doveva mettersi la divisa da fascista. E la cosa gli ripugnava moltissimo. Ricordo che io lo spiavo mentre si vestiva davanti allo specchio e si guardava con un disgusto e un disprezzo di se stesso come non ho mai visto. Ma la mia famiglia, alla fine, non era antifascista: durante la guerra di Spagna erano dichiaratamente schierati con i franchisti, per l’intervento dell’Italia in Spagna».
Dura ancora il dibattito su quegli anni.
«In Italia abbiamo fatto poco e male i conti col Fascismo. In Germania, anche se non subito, c’è stata una grande presa di coscienza di cos’era stato il Nazismo. Mi pare che qui, nei confronti del Ventennio, ci sia stato un profondo lavoro di rimozione, di distacco, un sentimento coltivato d’indifferenza e in troppi casi, di benevolenza. C’è ancora simpatia nei confronti del Fascismo».
Dopo l’Università che succede?
«Mi sono laureato con una tesi sull’Illuminismo italiano, un terreno che dopo ho completamente abbandonato. Nel ’51 ho vinto una borsa di studio a Zurigo, dove ho vissuto una dimensione accademica molto più progredita, avanzata. L’atmosfera era diversa da quella che si respirava in Italia: la Normale era da un lato profondamente crociana e dall’altro profondamente comunista. Erano tutti comunisti, non io. Per la prima volta a Zurigo ho respirato un’aria europea. E tanto più dopo, quando sono stato in Germania. Conoscevo Gianfranco Contini e per lui avevo una grande ammirazione, forse più del dovuto: quel che sognavo nella vita era diventare un continiano. Non lo sono diventato e oggi dico per fortuna. Lui mi mandò a fare il lettore all’Università di Monaco, ci sono stato tra il ‘52 e il ‘54. Anni in cui per le strade non si vedevano uomini, solo donne, vecchi e bambini: gli uomini erano tutti morti. In Italia sono tornato nel ‘54. E ho cominciato a scrivere sui giornali. Una cosa che ha cambiato la mia vita».
Il primo approdo giornalistico?
«C’era un settimanale che si chiamava il Punto: era una specie di Mondo meno presuntuoso e anche meno buono, un Mondo per i poveri. Scrivevo tre articoli al mese di letteratura contemporanea. E lì ho cominciato a legarmi al giornalismo, cui sono molto riconoscente perché ho imparato a scrivere e a scrivere per un pubblico vasto, che è tutt’altra cosa che scrivere su riviste specialistiche. Per me diventò subito molto importante. Intanto mi ero trasferito a Roma, dove viveva mia moglie. Non ho più lasciato il giornalismo: sono andato al Corriere nel ‘73, poi a Repubblica, poi di nuovo al Corriere. A trent’anni, insieme ad Alberto Arbasino, fui preso al Giorno di Italo Pietra. Il responsabile della pagina culturale era Paolo Murialdi. Un mercoledì scrivevo io e un mercoledì scriveva Arbasino. Lui scriveva soprattutto di viaggi, ma anche di letteratura: e spesso cose migliori delle mie. Il giornalismo mi ha dato abbastanza denaro e soprattutto una grande libertà: per questo sono molto grato».
E Roma com’era?
«Molto più bella di adesso. Diventai subito amico di Giorgio Bassani, di Attilio Bertolucci, di Federico Fellini e di Pier Paolo Pasolini. Mi vedevo continuamente con loro: in Piazza del Popolo, in Via Veneto. Allora si usava molto andare a cena insieme. E poi Gadda, il più grande italiano del Novecento: mi faceva delle telefonate lunghissime, all’ora di pranzo. In quel momento cominciai a collaborare con Livio Garzanti, come consulente. Un uomo intelligente, un editore appassionato, con un carattere insopportabile. Andai a trovare Fenoglio per convincerlo a cambiare editore. E ci riuscii, perché lasciò Einaudi e pubblicò Primavera di bellezza per Garzanti. Fenoglio era alto, magro, goffo, timidissimo. E aveva il naso, il complesso del naso, un naso tutto rosso. C’era in lui un lato di eccentricità, di follia, di incantevole comicità. Lavorava ad Alba, produceva vino e teneva la corrispondenza con gli acquirenti inglesi e americani».
Ci racconta il giovane Pasolini?
«Eravamo davvero molto amici. Lui era arrivato a Roma un anno o due prima di me. Non aveva ancora scritto Ragazzi di vita. Stava scrivendo le poesie – bellissime – de L’usignolo della chiesa cattolica, che sarebbero state pubblicate qualche anno più tardi. Ci siamo frequentati assiduamente finché lui si è occupato di letteratura. A me parevano bruttissimi i suoi film e glielo dicevo anche. Gli ripetevo che doveva tornare a scrivere libri, ma non lo fece. Il giovane Pasolini era elegante, mitissimo, molto dolce. Fu Moravia ad avvertirmi della sua morte. Quando c’incontravamo a cena, lui alle dieci s’infilava gli occhiali neri e andava alla stazione dove trovava ragazzi, li portava in campagna e lì succedevano cose indicibili. Si faceva legare e fustigare. Ed è stato così che l’hanno ucciso, alla fine. Il movente non lo so: i soldi, i giochi sessuali. Forse volevano rubargli la macchina. L’hanno sventrato, passandogli sopra con l’auto: una morte orribile, povero Pier Paolo. Quando era giovane, portava la sua omosessualità con estrema grazia, negli ultimi anni no. L’omosessualità era davvero un’ossessione, non pensava ad altro».
Un altro suo grande amico era Italo Calvino.
«L’ho conosciuto a Torino. Si teneva una discussione pubblica: io rappresentavo la gioventù social democratica, cioè nessuno, lui quella comunista, cioè tutti. Diventammo subito molto amici. Era simpatico, girava per la città gelida d’inverno con i sandali, vestito come se fosse stato a Cuba. Lui aveva casa a Sanremo, io a Cervo. D’estate ci vedevamo sempre lì: veniva a trovare la madre, una bravissima floricoltrice. Passavamo la stagione insieme, andavamo al mare, facevamo lunghi bagni. Intanto, assistevo ai suoi amori. Quello con Elsa De Giorgi: lei era innamoratissima, lui credeva di esserlo e non lo era per niente. Lei prendeva una casa vicino alla sua, lo costringeva a invitarci a cena in ristoranti costosissimi. Lui soffriva moltissimo: era povero e avaro. Ma ci siamo frequentati sempre: a Torino, a Parigi, a Roma».
L’ultima volta quando lo ha visto?
«Due sere prima dell’ictus, venne a cena da noi in Toscana: era di ottimo umore. Fu divertentissimo. Lo vidi al mare il giorno dopo. Poi ebbe il colpo e cadde a terra, fu portato a Siena dove lo operarono solo perché era Italo Calvino. Avrebbero dovuto lasciarlo morire: non c’era speranza che sopravvivesse».
Amavate entrambi Roccamare.
«Fui io che gli feci conoscere quel luogo e quel pezzo di terra dove fece la casa: gli piaceva molto starci: lì lavorava. Italo scriveva nel totale chiasso. Nella stanza accanto c’era la moglie che chiacchierava ad altissima voce con le amiche, nel suo accento argentino, e lui stava appollaiato accanto a loro senza esserne per nulla disturbato. Io non avrei mai potuto. Facevamo tra noi petite conversation, parlavamo davvero di tutto. Politica, libri, cose quotidiane, la vita della spiaggia. Ho amato tantissimo i suoi libri, me li faceva sempre leggere prima di pubblicarli. Delle Città invisibili, il mio preferito tra i suoi, mi fece leggere prima il ritratto delle città. Si ricorda che Le città invisibili sono fatte di brevi racconti delle città e un dialogo intorno a ognuna di esse? Mi fece vedere una cinquantina di pagine, bellissime, poi fece la cornice e la cornice io la vidi solo pubblicata. Tra i libri giovanili, amo soprattutto il Barone rampante».
A Roccamare c’è una specie di comunità: a un certo punto arriva anche Carlo Fruttero, che lì oggi è sepolto.
«Io avevo comprato la prima casa, che stava a 20 chilometri nell’entroterra, nel ‘64. E circa vent’anni dopo mi trasferii sulla costa, a Roccamare. Gianni Merlini e Fruttero decisero di fare, per risparmiare, una casa vicino all’altra. E le costruirono lì. Carlo ci passava moltissimo tempo, negli ultimi anni anche l’inverno. Con Fruttero, come con Calvino, la piccola conversazione era incantevole».
E Lucentini?
«Non si vedeva quasi mai a Roccamare perché passava l’estate a Fontainebleau. Loro due erano veramente una coppia e la cosa più singolare era come scrivevano. Carlo me lo spiegò: prima decidevano insieme l’argomento del romanzo, lo discutevano. E nella prima fase quello attivo era soprattutto Lucentini, che portava le idee. Poi arrivava il momento dell’esecuzione, che comunque era nello stile di Fruttero. Lucentini avrebbe voluto scrivere in una specie di sottolingua, mentre Carlo impose la sua lingua semi-inglese, una lingua molto bella. Ognuno si prendeva una parte e la scriveva. Poi le confrontavano e le mettevano insieme, dopo averle corrette. Da raccontare sembra semplice, in realtà dev’essere stato complicatissimo. Non a caso ci sono pochissime coppie letterarie; mi vengono in mente i fratelli Goncourt, che poi quasi mai scrissero insieme. Una delle cose più strane era la questione dello stile, evidente quando scrivevano articoli sulla Stampa, perché erano firmati da entrambi. Ma si vedeva benissimo quali erano scritti da Fruttero e quali da Lucentini. Che, tra l’altro, non veniva mai al mare per timore di prendersi il raffreddore e anche in piena estate si metteva la sciarpa!».
La letteratura italiana ha smesso di produrre cose potabili?
«Be’, fino a un certo punto ci sono state cose eccelse: Bertolucci e Caproni, due grandi poeti; Luzi un po’ meno, secondo me. Nella prosa c’erano Gadda, Calvino. Pasolini narratore non è un granché. Né Ragazzi di vita né Una vita violenta sono grandi libri. La sua migliore produzione è quella poetica. Ho smesso di leggere i contemporanei tanti anni fa: librerie e classifiche sono intasate per lo più di robaccia».
Dicono che la forma romanzo non esista più.
«Il romanzo è sempre esistito e non è mai esistito. Il romanzo è una forma letteraria che nega se stessa e cerca se stessa. Ci sono molte spiegazioni sociologiche, che tirano in ballo il consumismo, per esempio. O la tecnologia. Ma secondo me sono cose secondarie. Io penso, l’ho detto spesso, che sia una questione di cicli, la letteratura s’addormenta».
Non è che la società attuale è meno interessante?
«La società è quella che inventano gli scrittori».
Quando Balzac nella Comédie...
«...ma la Comédie è completamente inventata da Balzac. Crede che la società del ‘34, del ‘35 fosse così interessante?».
Splendori e miserie delle cortigiane racconta una storia universale: forse non siamo più capaci di raccontare.
«Vede che ho ragione io? Non è che la realtà è meno romanzesca. La realtà è sempre romanzesca, quando uno scrittore la vuol fare apparire. La verità è che ci sono scrittori che non sanno inventare la realtà. Il perché non lo so: me l’avranno chiesto centinaia di volte ma non so rispondere, se non dicendo che la letteratura ora ha dimenticato se stessa. La degradazione della società non è una spiegazione, è un’idea che utilizziamo perché non sappiamo dare risposte. Certo, la letteratura vale meno».
Quando ha smesso di leggere i contemporanei?
«Negli anni Ottanta. Forse anche un po’ prima».
Li legge i libri dello Strega?
«Per carità, no. Da anni: li mando direttamente al mio libraio. I premi letterari oggi non sono niente. Pensi quando allo Strega concorrevano Tomasi di Lampedusa e Calvino contemporaneamente... adesso, non so neanche chi l’ha vinto quest’anno».
L’ultimo è stato Il nome della rosa?
«Non l’ho letto. Arrivai a pagina quaranta, alla descrizione di una chiesa medievale: talmente incompetente che non potevo andare avanti. Di Eco ho letto solo il Pendolo di Foucault, un brutto libro, ne ho scritto malissimo. Secondo me, Umberto Eco non esiste come scrittore».
I libri più riletti?
«Il Faust. La Recherche. Guerra e pace: in quest’ordine. Poi tantissimo Flaubert e Balzac».
E Dumas?
«Un incanto. Uno scrittore molto più grande di quanto non si pensi».
Come spiega la cattiva fama dei Promessi sposi?
«L’unico romanzo divertente della letteratura italiana, un grandissimo romanzo d’avventura! Lo leggevo in classe, quando insegnavo negli avviamenti a Roma, dove c’erano bambini che a malapena sapevano l’italiano. E a loro piaceva moltissimo. Il guaio è che la scuola lo presenta come una cosa ideale. Non è tanto che te lo fanno leggere, è che te lo fanno leggere come esempio virtuoso. Ma non lo è affatto, basta vedere come finisce. La notte dei guai – quando Renzo e Lucia cercano di farsi sposare da Don Abbondio e non ci riescono, intanto i Bravi vanno a casa di Lucia e non la trovano, e suonano le campane – è di un romanzesco meraviglioso... Nell’Ottocento lo leggevano bene, lo leggevano così, a parte qualcuno che lo leggeva per via della religione».
Non è l’Età del ferro della letteratura?
«Non credo. Non sono così pessimista. Pensi a cosa è stata la letteratura mondiale da Goethe fino al 1950: secoli meravigliosi. Oppure la letteratura italiana: tra la fine del Trecento e la fine del Quattrocento tace per un’ottantina di anni. Come dicevo prima, la letteratura ha dei periodi di profondo sonno, di letargo. Si dimentica di se stessa e scompare cadendo nell’oblio di se stessa. La letteratura obbedisce non a ragioni storiche, ma biologiche: è stanca e si riposa».
Silvia Truzzi