Bill Emmott, La Stampa 14/12/2014, 14 dicembre 2014
VOLARE ALTO O FARSI IMPALLINARE IL GIAPPONE DA FALCO A FAGIANO
Se mai sappiamo qualcosa dei Paesi stranieri, tendiamo a conoscerli per le loro capitali, la loro politica e, naturalmente, per i loro astri sportivi. Così in questa settimana in Giappone è stato stimolante stare in una piccola città di provincia nella parte occidentale, Okayama, che ha una squadra di calcio mediocre, anche se con un nome italiano: Fagiano.
Intanto, nella capitale e in tutto il Paese, il Giappone sta vivendo la campagna elettorale nazionale per il voto previsto per oggi.
Un’elezione inattesa dovrebbe essere un’esperienza emozionante. Eppure la maggior parte dei giapponesi non riesce a capire perché si vada a votare.
L’ economia è in recessione, e il Paese sta attraversando una sorta di crisi di identità, discutendo la propria storia, interrogandosi sul modo migliore per relazionarsi con la Cina. Nonostante entrambi questi punti, tutte le previsioni dicono però che il governo del signor Abe vincerà le elezioni facilmente, forse anche accrescendo la sua maggioranza parlamentare. Perché esattamente accada tutto questo, tuttavia, è un po’ misterioso.
È un piccolo mistero anche perché la squadra di calcio di Okayama si chiami Fagiano. Il nome si riferisce a quanto pare a un fagiano che appare in un famoso racconto popolare locale, che narra di un eroe sovrannaturale bambino chiamato Momotaro, o «ragazzo della pesca». Il fagiano era uno dei compagni di Momotaro. Fin qui la cosa sembra sensata. Ma perché una squadra giapponese dovrebbe utilizzare il nome italiano dell’uccello? Sembra che nessuno lo sappia. Semplicemente un nome straniero esotico suona bene. O forse è perché nel calcio i giapponesi associano gli italiani alla vittoria.
Ansia da globalizzazione
Per me, questo è abbastanza simbolico del modo in cui il Giappone si relaziona con la globalizzazione e l’identità. In Europa, che ci piaccia o no, riteniamo che la globalizzazione sia parte della nostra vita quotidiana. Questo non è vero in Giappone, almeno non volontariamente. Noi europei pensiamo che il Giappone sia stato al centro della globalizzazione, soprattutto quando negli Anni 70 e 80 le auto, le moto e l’elettronica giapponesi battevano le nostre nella competizione globale. Ma dai giapponesi, la globalizzazione è percepita come qualcosa di innaturale, irreale persino, qualcosa al di fuori della vita quotidiana. Una cosa da racconti popolari.
Così le parole straniere possono essere utilizzate come semplici decorazioni, senza un significato. Questo è il motivo per cui Fagiano è il nome della squadra di calcio. Ma è anche il motivo per cui gli studenti a cui ho tenuto una serie di conferenze, in una piccola università appaiono così perplessi e preoccupati non solo per la globalizzazione, ma anche per il loro futuro.
Se hanno invitato un inglese come professore ospite, devono desiderare un collegamento con il mondo. La piccola università privata dove ho tenuto le conferenze sta cercando di far imparare ai suoi studenti l’inglese, e a riflettere sul mondo esterno. Ma gli studenti chiaramente lo trovano un po’ ostico. Principalmente perché anche se ogni giapponese, e certamente ogni politico giapponese, sa che essere collegato al mondo è fondamentale, ha anche preoccupazioni più immediate, tutte locali. Per i giovani studenti, la grande preoccupazione è che tipo di lavoro saranno in grado di assicurarsi. Non pensano che la globalizzazione possa aiutarli.
Giovani precari a vita
Gli studenti sono sempre preoccupati per la loro futura carriera. E in Giappone oggi, il tasso ufficiale di disoccupazione è molto basso, al 3,5%, ben al di sotto del 13% italiano. Allora perché dovrebbero preoccuparsi di più adesso? La ragione è che in base alle leggi giapponesi sull’occupazione, la maggior parte di questi studenti si aspetta il precariato, ovvero di ottenere posti di lavoro solo con contratti a breve termine.
La percentuale di forza lavoro del Giappone con contratti temporanei e a tempo parziale è raddoppiata negli ultimi 20 anni arrivando a quasi il 40%. Tale livello è di per sé molto elevato anche rispetto alla maggior parte delle economie in difficoltà della zona euro. La conseguenza è che i salari medi in Giappone sono in costante diminuzione, il che significa che si sono anche abbassati i consumi delle famiglie.
Questo ha anche fatto sì che il capitale umano rappresentato dai giovani giapponesi grazie all’eccellente sistema educativo sia poi dissipato quando trovano lavori precari. Le aziende non investono più nella formazione. I dipendenti non pensano valga la pena aumentare i propri livelli di competenza.
Il primo ministro Abe, grazie alla fortuna di avere un nome breve, facile da pronunciare, ha battezzato la sua politica economica Abenomics. Come i migliori allenatori di calcio, ha parlato di un buon gioco. La sua teoria è che, utilizzando una politica monetaria espansiva molto aggressiva e forzando le grandi imprese, si possa dare il via a un circolo virtuoso di aumento dei prezzi, aumento della fiducia, aumento dei salari e aumento degli investimenti delle imprese. Promette anche riforme strutturali, liberalizzazione dei mercati e delle professioni per aumentare la concorrenza e favorire la crescita.
Il problema è che finora ciò non è successo. Ha attuato un piano trasversale ereditato dal precedente governo per aumentare l’imposta di consumo, così da iniziare a ridurre l’enorme debito pubblico del Giappone. Ma questo ha causato un’immediata recessione. E finora non fatto alcuna reale liberalizzazione.
Bisogno di imprenditori
Questo non dovrebbe sorprendere chiunque abbia familiarità con le prospettive di lavoro dei miei giovani studenti, e gli stipendi in caduta libera dei lavoratori precari. Tentare di mettere sotto pressione le grandi imprese non funziona più. Competono in un mercato globale, e vogliono che il costo del lavoro sia il più basso possibile. Così non sono riuscite a aumentare i salari. E potenti gruppi di interesse, tra gli agricoltori, i sindacati, i professionisti, i medici e altri, tutti resistono alla liberalizzazione. Forse questo spiega perché Abe è ricorso alle urne. Si rende conto che ogni mese che passa diventa meno popolare. Così sarebbe meglio per lui vincere adesso un nuovo mandato.
A Okayama, gli uomini d’affari con cui ho parlato sembrano realisti sulla competizione globale. Invece di cercare di rassicurare gli studenti sulla loro meravigliosa carriera se entreranno in una grande azienda, come avrebbero fatto 20 anni fa, cercano di convincere gli studenti a diventare imprenditori, a fondare le proprie aziende o a pensare in modo più creativo alle loro carriere.
È un buon consiglio. Il Giappone, come l’Italia, ha bisogno di una nuova generazione di imprenditori. Come l’Italia, ha il potenziale per creare tale nuova generazione. Probabilmente, se i miei studenti devono essere quella nuova generazione hanno bisogno di andare all’estero per trarre ispirazione dall’Asia, dall’Europa o dall’America, e riportare in Giappone queste idee. Ma lo faranno? Sembrano riluttanti, più riluttanti dei loro omologhi italiani. La loro riluttanza deriva sia dalla situazione economica, sia dalla crisi di identità nazionale del Giappone.
Voglia di Anni Trenta
Insieme all’Abenomics, il primo ministro Abe sta anche incoraggiando la paura e la rinascita del nazionalismo. I suoi sostenitori di destra stanno cercando di promuovere una nuova interpretazione della storia bellica del Giappone tra gli Anni 30 e 40, come modo, dicono, per ricostruire il patriottismo e la fiducia in se stessi. Ci stanno riuscendo, e possono anche far fallire uno dei grandi giornali della sinistra liberale, l’«Asahi», grazie alle prove della pubblicazione di racconti falsi sul tempo di guerra. Il particolare destino di un giornale non dovrebbe preoccuparci. Ma la lotta del Giappone con la globalizzazione e con la sua storia sì. Rischiamo di fare qualcosa di simile.
La nostra ansia per le prospettive economiche, la preoccupazione per i vicini potenti - nel nostro caso la Germania, nel caso del Giappone, la Cina - sta portando molti Paesi europei a votare per i partiti politici in qualche modo nostalgici o passatisti. Il Uk Independence Party promuove una visione Anni 50 della Gran Bretagna. Il Fronte nazionale promuove senza dubbio una visione Anni 30 della Francia.
I miei studenti a Okayama sanno poco dell’ Ukip o di Marine Le Pen. Ma sono incuriositi e sorpresi quando dico che condividiamo molti dei nostri problemi e delle nostre preoccupazioni. Alle elezioni, molti voteranno per il Partito liberal-democratico del signor Abe perché non vedono alcuna reale alternativa.
Ma la loro migliore speranza è davvero cercare ispirazione all’esterno, guardare al resto del mondo. Rivolgendo lo sguardo a se stessi, in cerca di vecchie fonti di patriottismo, è improbabile che trovino una soluzione. Il loro Fagiano ha bisogno di volare e di guardare il mondo dal cielo. E di non essere impallinato.
(Traduzione di Carla Reschia)
Bill Emmott, La Stampa 14/12/2014