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 2014  dicembre 14 Domenica calendario

IL PETROLIO CROLLA, VINCONO SOLO GLI USA

Tanti anni fa, Francesco De Gregori cantava di una tragica nave che navigava un «mare nero come il petrolio». Oggi tocca all’economia mondiale restare a galla su un oceano di greggio pieno di onde senza fare la fine del Titanic.
L’incredibile crollo del prezzo del petrolio sta spaventando investitori, governi e banche centrali e riscrivendo le regole geopolitiche in tre continenti.
Il liquido nero e viscoso che dà energia al pianeta è il deus ex machina dell’economia mondiale. Nessuno è immune ai suoi movimenti: dall’America in ripresa all’Europa in cerca di crescita, dalle velleità egemoniche di Putin e del Presidente cinese Xi alla pentola a pressione del Medio Oriente.
Non è facile spiegare perché, in pochi mesi, il greggio sia precipitato di quasi il 40%, sorprendendo i cosiddetti esperti, gli investitori che sono pagati profumatamente per predire questi trend e società come la Exxon e la Shell.
Col senno di poi, gli economisti dicono che questa crisi è stata causata da uno squilibrio tra domanda e offerta. Gli aumenti inconsulti della produzione dei Paesi Opec e il boom della fratturazione idraulica negli Usa, hanno inondato il mondo di petrolio senza tanto preavviso. Con un’economia globale che non tira, né le società né i consumatori sono stati presi dalla febbre dell’oro nero. Basta guardarsi intorno: l’Europa è a crescita zero, la Cina sta rallentando di brutto e la crescita degli Stati Uniti è senza infamia e senza lode.
Tutto vero, ma ciò non spiega né il momento, né la velocità del collasso del prezzo del petrolio.
Giovedì scorso, quando il prezzo è sceso sotto i 60 dollari al barile per la prima volta dai tempi della recessione del 2009, ho parlato con un investitore di Wall Street che era completamente incredulo. «E’ straordinario. Non l’aveva predetto nessuno. Nessuno», continuava a ripetere, quasi come se si fosse appena svegliato da un brutto sogno.
Per il momento, però, il resto dell’economia mondiale è ancora nell’incubo.
Giovedì, la banca centrale della Norvegia - uno dei più grandi produttori di petrolio al mondo - ha dovuto tagliare i tassi di interesse per stimolare l’economia. In Russia, le autorità monetarie stanno tentando in tutti i modi di supportare un rublo ormai moribondo, mentre in Messico, un altro produttore importante, la banca centrale è scesa in campo per difendere il peso. In Medio Oriente, ovviamente, la crisi si sente ancora di più. I mercati azionari di Dubai, Abu Dhabi, Qatar and Oman stanno malissimo e gli investitori si stanno tutti accalcando verso l’uscita.
Persino in America, che di petrolio ne consuma tanto e ne esporta pochissimo, le Borse sono in stato confusionale, preoccupate dallo stato di salute dell’economia mondiale. Il mercato di New York ha appena concluso la settimana più brutta dal 2011.
Le previsioni cupe dell’Agenzia Internazionale dell’Energia non aiutano. L’organismo che fu creato dopo il famoso «oil-shock» degli Anni 70 per coordinare le politiche energetiche dei governi di mezzo mondo venerdì ha spiegato chiaramente quale sia il problema: l’economia mondiale è debole.
E’ vero, ha detto l’Aie, che l’offerta è in salita e che c’è più produzione a causa del boom petrolifero degli Usa, ma la vera ragione per il surplus di petrolio è che il mondo non ha bisogno di così tanta energia in questo momento.
Non tutti piangono miseria. Un cambiamento così repentino nel prezzo dell’energia ha dei benefici per settori importanti della popolazione e dell’industria. I grandi consumatori - le linee aeree, le società industriali, i produttori di materie plastiche e così via - stanno già godendo di riduzioni notevoli nei loro costi. Intere aree economiche che sono costrette a importare petrolio, come l’Unione Europea, saranno in grado di pagare molto meno per l’energia fondamentale allo sviluppo.
E chi guida, in teoria, dovrebbe risparmiare alla pompa - anche se in Europa il prezzo è distorto da una marea di tasse. In America, dove il costo del carburante è meno legato a dazi governativi, la famiglia media risparmierà più o meno 400 dollari l’anno sulla benzina. Non male, soprattutto se John and Jane Blog vanno a spendere quei dollari in più su beni e servizi che aiutano l’economia Usa.
Come ha spiegato Drew Matus, un’economista di Ubs al «Wall Street Journal»: «La gente comune vedrà degli effetti positivi nei propri portafogli. Wall Street, invece, rimane fissata sulle nubi all’ orizzonte».
Per il momento, Wall Street ha ragione. Come in tutti i mercati, quando il prezzo cala, qualcuno vince e qualcuno perde, ma nel caso del petrolio il gruppo dei perdenti è molto più grande di quello dei vincitori.
Se tutto va come previsto e il prezzo del greggio continua a calare o rimane a questi livelli - una possibilità non proprio remota in questo frangente - l’unico grande vincitore sarebbe l’America. Anche se qualche produttore di petrolio a fratturazione idraulica del Texas va in bancarotta perché quel sistema di estrazione costa di più dei metodi tradizionali, il risultato netto è che i risparmi dei consumatori serviranno a spingere l’economia Usa.
Il problema è che quei 400 dollari nei portafogli dei consumatori americani non faranno la differenza per l’economia mondiale. Anche se l’America (e magari l’Europa) cresce un po’ più del previsto nel 2015, non sarà abbastanza per compensare il rallentamento della Cina, i problemi del Medio Oriente e il caos economico-politico della Russia. Basti pensare che il piano economico di Putin prevede un prezzo del petrolio di circa 90 dollari al barile, molto più alto del livello attuale.
Con il greggio al ribasso, lo spettro della deflazione - un calo dei prezzi che deprime le attività produttive - è tornato ad aleggiare su gran parte del globo. La nave dell’economia mondiale sta cercando di accelerare ma è circondata da iceberg.
Francesco Guerrera, La Stampa 14/12/2014

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72.