Paolo Di Stefano, Corriere della Sera - La Lettura 14/12/2014, 14 dicembre 2014
PAOLO CONTE , MUSICA E PROVINCIA «SONO MODERNO, CIOÈ FUORI MODA»
PAOLO CONTE , MUSICA E PROVINCIA «SONO MODERNO, CIOÈ FUORI MODA» –
Non resta quasi più niente da dire di Paolo Conte. Basterebbe sentirlo cantare lasciando venir fuori tutta la sua poesia, la sua grana, il suo timbro che ritorna intatto in Snob , il nuovo disco fitto di sambe, di blues e di mazurke, di esotico e di provincia italiana. Fedele a se stesso, alle sue arie e alle sue parole. Sono passati più di vent’anni dal suo omaggio sentimentale al Novecento, ma Conte è sempre lì. Sono diminuite le sigarette, non più di una decina al giorno, qualcuna fumata anche durante le prove degli spettacoli, con le dita sul pianoforte, ma il macaco è sempre lì, con tutt’e due i mocassini nel secolo scorso.
«Credo di non aver mai attinto la misteriosa ispirazione dagli anni che passano. Mi sono sempre divertito a scrivere fantasticando e lavorando con lo stesso metodo. Sento che è cambiato il mondo, però io resisto. Mi tengo lontano dalla tecnologia, non uso il telefonino né il computer. Semmai, qualcuno lo fa per me, ma io sono negatissimo. La nostalgia? Non mi appartiene. Mi sono guardato sempre indietro per trovare cose che mi piacevano molto di più di quelle che stavo vivendo».
Nessun interesse per il presente?
«Da artista, io appartengo al moderno. Negli anni Settanta poi è venuto quello che hanno chiamato il postmoderno, arte cosiddetta attuale. Ma trovo difficile rinunciare a tutto il lavoro molto fitto che io ho fatto da modernista, in contrasto con le cose estremamente semplificate che si fanno adesso. Soprattutto in musica, è stata mandata fuori dai piedi l’armonia, le forme sono ridotte a pochi elementi. E quindi non mi posso sentire attuale. L’attualità è sempre segnata dalle mode che vanno e vengono, che chissà quanto durano e quanto cambiano. Non è una scelta mia; è che guardandomi allo specchio, mi sono sempre trovato fuori moda, completamente. E i miei modelli non sono mai cambiati. Da appassionato di jazz, ho seguito tutto il suo percorso storico, ma criticamente sono tornato indietro agli anni dei primitivi, che sono i più importanti perché sono i più audaci, gli anni Dieci, Venti… E questo vale un po’ per tutta la musica, sono gli anni di Ravel, di Stravinskij…».
Un guardare il mondo da provinciale?
«Non è una posa. Anzi, mi è stata fatta spesso una sorridente accusa al fatto di essere provinciale. Ma ho sempre spiegato: guardate che tutto sommato la provincia è una passerella di personaggi ben stagliati, per cui diventa abbastanza facile poterne scrivere, poter individuare certe sagome… In questo disco racconto la storia di due provinciali visitati da uno snob che viene dalla città e solo lì, per la prima volta, pronuncio la parola “provincia”…».
Provinciale un po’ dandy?
«Ci sono tre categorie di persone non ordinarie che un pochino si somigliano: l’intellettuale, lo snob e il dandy, a cui mi illudo di appartenere. Il dandy è uno che cerca la bellezza in profondità senza assolutamente tirarsela, come si dice oggi: cosa che fa piuttosto lo snob, che è un parvenu, mentre il dandy è proprio sostanza, è vero».
In questo album si nota una sottolineatura sudamericana. A cosa si deve?
«Ci sono ragioni anche tecniche dietro queste scelte. Io mi sono sempre lamentato della difficoltà della lingua italiana dal punto di vista musicale in senso ritmico, preferendo quindi l’inglese, poi anche discretamente il francese e lo spagnolo. Ma coi ritmi sudamericani la parola italiana riesce a muoversi meglio. Poi ho una certa simpatia per quel poco di spagnolo qua e là che ti dà un po’ di frizzo, ecco. Noi italiani in genere amiamo l’esotismo, e lo spagnolo ci è abbastanza amico. Ma io vado molto indietro, ho sempre cercato l’essenza indigena primitiva: se mi trovo in una città musicale importante, come Vienna o l’Avana o Chicago, cerco di annusare la linfa originaria».
Il Sud America è un luogo dell’ispirazione conosciuto anche fisicamente?
«Sono stato una volta in Brasile, all’inizio degli anni Ottanta. La prima sera, sono stato invitato da amici, abbiamo sentito dei dischi di quegli anni ma non trovavo quel che cercavo, e una ragazza brasiliana mi ha dato una risposta che per un attimo mi ha messo con le spalle al muro. Mi ha detto: noi siamo un popolo giovane, voi siete dei vecchi europei che vogliono sempre il classico… Si sentiva molto moderna».
L’uso di parole tronche («Tropicàl... gerovitàl... virtuàl...») e sdrucciole rende più facile il rapporto con la lingua italiana in musica?
«Dipende dalle frasi musicali, che scrivo prima delle parole. In “Tropical” mi sono detto: le vocali finali le faccio svanire in aria così come si faceva una volta... Le sdrucciole, quando si possono usare mi piacciono. Hanno un loro peso e una loro camminata, ecco».
Il personaggio maschile e solitario di tante canzoni, quello che guarda il mondo dai margini, è anche Paolo Conte?
«Alla fin fine è il mio specchio, anche se non per questo voglio somigliare a me stesso quando scrivo. Io sì, sono solitario, non mi piace la vita sociale, non mi piace la massa, coltivo poche amicizie, vivo fuori dai centri nevralgici metropolitani… La tentazione di vivere in città l’ho avuta, ci sono tante città che mi piacciono, New York, Parigi, ma anche Milano o Torino…, però, che fatica… Forse mi proteggo».
Il poeta-Conte che poeti ama?
«Sempre gli stessi: Gozzano, Caproni, Sbarbaro... Son sempre quelli, anche perché non mi sono aggiornato. Io sono un lettore standard. Thriller scandinavi, che ti entrano da una parte e ti escono dall’altra, però sono confezionati molto bene e scorrono. Naturalmente non mi lascio scappare Camilleri, Vitali o Carofiglio. Con Camilleri ho fatto poca fatica a imparare la sua musicalità, e dopo essermi impadronito di una ventina di parole, mi ritrovo. Tutto sommato mi piace perché ci sono dentro delle parole vecchie, cariche di profumo, che appartengono al siciliano, ma potrebbero appartenere anche al piemontese o al lombardo antico e che fa piacere ritrovare».
Il giornale, la politica?
«Leggo la pagina dello sport, quelle due o tre curiosità. La politica non ci capisco niente, per cui è inutile... Qualcosa leggo, ma proprio non ci arrivo a capire... Trovo che ci sia troppa gente che crede di essere padrona del linguaggio della politica, ma poi chissà se davvero capisce. È tutto da vedere».
Se avesse dei figli, la preoccupazione di guardare come va il mondo sarebbe diversa?
«Può darsi che sì, per proteggere i figli mi terrei più informato, mi servirebbe sul piano organizzativo, della quotidianità. Ma gli insegnamenti che potrei dar loro sarebbero comunque antichissimi: la libertà, la lealtà, cose che travalicano il momento».
Figli a parte, Conte si sente un maestro, uno di quelli che entrano nell’anima?
«Sì, confermo, credo di sì. O meglio lo sarei, perché in realtà non esercito questo mestiere. I miei orchestrali sono tutti più giovani di me e molto preparati, hanno fatto il conservatorio, ma ho l’impressione di averli allevati, di aver insegnato loro certe cose abbastanza segrete lavorando anche di psicologia per colmare il divario dell’età».
Cosa direbbe a un giovane che si avvia alla musica?
«Qualche anno fa ho fatto una lezione ai ragazzi della scuola di composizione del Conservatorio di Torino e mi ero preparato diciamo un decalogo di cose che mi sembravano importanti per qualunque musica. Credo anche di essermi spiegato anche abbastanza bene. Poi alla fine qualcuno si è alzato e mi ha dato un provino di un disco di canzonette di nessun valore, chiedendomi in sostanza come si fa ad aver successo. C’è ancora in parte un rapporto di ammirazione per i maestri, ma bisogna vedere che cos’è davvero l’oggetto di questa ammirazione. Non ho mai ben capito quello che è finto e quello che è vero».