Jean Jacques Sempé, Domenicale – Il Sole 24 Ore 14/12/2014, 14 dicembre 2014
«ORRIBILE, MA CHI È QUESTO?» «PICASSO»...
La mattina che arrivai per la prima volta a Parigi, era il 1959, andai dritto dalla stazione alla casa dell’illustratore Chaval, con i miei disegni sotto il braccio. Aveva vissuto anche lui a Bordeaux, mia città natale, e qualcuno mi aveva dato il suo indirizzo. Suonai il suo campanello alle 7,45. Chaval era in pigiama. «Sai, non ci svegliamo tanto presto qui» mi disse, «e soprattutto... io lavoro di notte. Torna un po’ più tardi». Andai a fare un giro. Ritornai alle 8 e un quarto; Chaval era ancora in pigiama. Mi scusai e andai a fare un altro giretto, dicendomi che Chaval non era proprio uno di quelli che viveva in modo veloce... Insomma tornai a suonare a casa sua che erano le nove. Era ancora in pigiama, ma stavolta mi fece entrare. L’appartamento era piuttosto piccolo, e molto scuro, ma aveva un telefono, e questo, per me, era un segno di grande status sociale. Molto gentilmente guardò i miei disegni e mi fece qualche domanda. (...) Ero molto intimidito da Chaval. Penso che all’epoca lui avesse 37 anni e poi avevo visto una sua fotografia in un settimanale che aveva dedicato un servizio – un’intera pagina! – a lui e ai suoi disegni. Mi mise in guardia, dicendomi che era molto difficile vivere facendo solo disegni, e specialmente per chi voleva fare il cartoonist o l’illustratore. Sapevo bene che i miei disegni erano goffi rispetto ai suoi, e, come se non bastasse, mi sentivo molto confuso e insicuro, dal momento che non ero riuscito a trovare un lavoro vero in nessuna delle cose che avevo provato a fare negli anni precendenti.
Celai l’imbarazzo comportandomi un bel po’ sopra le righe, non preoccupandomi per nulla di nascondere questo stato d’animo. Anzi: ero così preoccupato che spesso diventavo maleducato. Mentre Chaval guardava i miei disegni un’altra volta, apparentemente rassicurato dal fatto che il servizio militare (mi ero appena arruolato ed era quello il motivo del mio viaggio a Parigi quella mattina) si sarebbe «preso cura di me» per i prossimi due anni, vidi alla parete una riproduzione. Chiesi: «Che cos’è quello?» «È Igor Stravinsky, ritratto da Picasso» anticipò la risposta la moglie di Chaval, anche lei pittrice. «È bello, non è vero?» proseguì. «Mi sembra disegnato molto male» replicai io. Chaval e sua moglie mi fissarono, attoniti, le loro tazzine di caffè sospese di colpo a pochi centimetri dalla bocca. Un po’ impazientemente, a questo punto, Chaval mi disse: «Bene. Quando penserai che quello è ben disegnato, allora... avrai fatto un vero progresso».
Scesi le scale, mi sentivo devastato. Ero così malconcio che dovevo far qualcosa per redimermi, almeno ai miei occhi. Chaval mi aveva dato alcuni indirizzi di riviste, e aveva persino avuto la gentilezza di segnare sulla cartina le stazioni della metropolitana più vicina a ciascuna di esse. Mi persi parecchie volte, ma alla fine riuscii a portare i miei disegni alla reception di almeno due riviste. Scrissi il mio nuovo indirizzo sui due portfolio: «Caserma Vincennes». Arrivai finalmente alla caserma verso le quattro del pomeriggio. Mi era stato detto di presentarmi alle 8 del mattino, e così, ecco che mi ritrovai in cella! Succede tutto così in fretta, a Parigi.
***
Quando mostrai a Chaval i disegni per la prima volta, mi chiese se conoscessi l’inglese. Non sapevo una parola. Che peccato, mi disse, ma in ogni caso mi suggerì di guardare la rivista «New Yorker», che conteneva delle eccellenti illustrazioni. Un giorno, così, guardai il «New Yorker»: i disegni che conteneva erano davvero eccezionali.
I disegnatori che lavoravano al «New Yorker» ebbero su di me una grande influenza e la sola idea di pubblicare un giorno dei miei disegni per quella rivista era una specie di sogno hollywoodiano. Ma, nei tardi anni ’70, l’art director della rivista, Lee Lorenz, venne a Parigi, si prese alcuni dei miei lavori e... li pubblicò. Un anno dopo, andai io stesso a New York, portando con me molti altri disegni.
Il «New Yorker» ha un grande vantaggio, per un illustratore come me: i disegni delle copertine non sono strettamente legati alle notizie. D’altra parte, i disegni per le parti interne del giornale, mi danno degli enormi problemi: i miei disegni sono, semplicemente, troppo grandi per quelle pagine.
Lee Lorenz era un uomo delizioso. Quel tipo di persona capace di dirti che il tuo disegno non va per niente bene, o che ha bisogno di modifiche, ma lo fa in un modo talmente piacevole che tu ti senti nello stesso modo che se lui ti avesse detto «Ok, mi piace proprio!». Lorenz, anche lui è un illustratore, e suona la cornetta in un club di New York. Parla il francese tanto quanto io l’inglese; per fortuna abbiamo un amico in comune, un altro illustratore del «New Yorker», Edward Koren, che invece il francese lo parla assai bene.
A tutti e tre, ci piace il jazz e ci vantiamo di averne una discreta conoscenza. Una sera così, andiamo insieme in una remota periferia di New York per sentire un pianista, Red Garland, del quale ciascuno di noi aveva qualche disco. Mentre ascoltavamo Garland ci scambiavamo dei commenti, naturalmente. Concordammo che aveva proprio uno stile tutto suo, che il suo tocco e la sua fluidità musicale non potevano essere eguagliate da nessun altro, che il suo suono, insomma, era il famoso e unico «Red Garland sound». Alla fine del concerto andammo a congratularci con lui per la bellissima serata e stringergli la mano. Alzandosi dal piano, si presentò: «Piacere, John Seffert».
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Jean Jacques Sempé, Domenicale – Il Sole 24 Ore 14/12/2014