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 2014  dicembre 14 Domenica calendario

GRAPPOLI DI PAROLE E STORIE

Non solo storia di parole, ma storia della letteratura, della cultura, del costume è quella che ci racconta questo libro: cento parole disposte in un ordine cronologico che dal primo documento notarile in cui è attestato l’uso dell’italiano nell’anno 960, sao ko kelle terre, giunge fino a oggi, con i suoi andare in tilt e vu cumprà. Grazie a una scelta oculata, che privilegia idee e sentimenti piuttosto che oggetti e cose materiali e si concentra su vicende e momenti particolarmente significativi, quelle cento parole si rivelano capaci di esprimere il loro tempo, di condensarlo, di racchiuderne la cifra più autentica. La lunga durata, i filoni di continuità (la lingua alta della tradizione letteraria, per esempio) si intersecano costantemente con l’innovazione linguistica, sulla quale anzi l’autore pone l’accento. Cento parole (in realtà grappoli di parole, che vi si accumulano con inesauribile ricchezza) che compendiano un millennio di storia: dal Medioevo del laudare, della rettorica, del sì gentile, dei pellegrini e mercanti, a un Rinascimento sul quale molto ci dicono parole come Accademia, sprezzatura, umanista, stampa, prospettiva e tutto il linguaggio della storia dell’arte e della musica. Un vero e proprio gioiello è il lemma aureo crine, con le pagine dedicate al canone dell’imitazione petrarchesca che ha dominato per secoli la storia letteraria d’Italia, fino al Leopardi dell’ermo colle e d’in sui veroni del paterno ostello, al Manzoni delle spose orbate dal brando, al Monti per cui le rane sono le rauche di stagno abitatrici. Un canone petrarchista che Beccaria rivaluta come il sistema comunicativo che ha delineato per secoli un potente "tratto di famiglia" della nostra lirica, come il segno di una continuità storica lunga e coerente, di un discorso comune, di un substrato di identità e civiltà letteraria, fondata sul principio dell’imitazione, che ovviamente nasce dall’Umanesimo e dal culto dei classici, ma è anche la cifra di un’Italia eterna, arcadica, accademica, compiaciuta di sé, incapace di rinnovamento.
L’autunno del Rinascimento approda alle esoteriche ingeniosità del manierismo, con il suo gusto per l’emblema, il motto, l’impresa, i cataloghi della natura, la magia, l’astrologia, l’occulto. È la strada che porta al Barocco, percorso dai fremiti dell’artificio, dell’inganno, della metafora, dell’invenzione, dell’ingegnoso, della finzione, quale unico antidoto alla svogliatura, al tedio, fino all’apoteosi del capriccio che invade anche la musica e la pittura, come risposta a un’esigenza di straniamento da un difficile presente. Ma il Seicento dell’assolutismo regio, dei privilegi nobiliari e dei riti spagnoleschi dell’etichetta, è attraversato anche dai molteplici sentieri della rivoluzione scientifica, come ci viene spiegato nella voce cannocchiale. Il Settecento illuministico trova le sue parole d’ordine, cariche di nuovi valori e significati nel buon gusto, nelle gazzette, nel caffè, nella tolleranza, nel progresso, nella felicità, nei sentimenti. Si giunge così all’Ottocento, al romanticismo e, in Italia, al Risorgimento, con tutto il suo slancio patriottico nel fare l’Italia e gli italiani, il che significava anche dotarsi di una lingua usata e compresa da un capo all’altro della penisola, che in Marzo 1821 Manzoni vagheggiava «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor», ma che poco o nulla di tutto questo aveva salvo l’altare. Un’Italia che si scopre analfabeta ancor più che mancante di una lingua nazionale, che troverà non tanto nei Promessi sposi, ma nel Pinocchio di Collodi, nel Cuore di De Amicis e nell’intramontabile Artusi, vero e proprio collante gastronomico di un’Italia borghese, desiderosa alla fin fine di gustarsi in santa pace le sue bistecche o cotolette o costolette che dir si voglia.
Intanto, la modernità si fa sempre più rapida e incalzante e la rivoluzione industriale e tecnologica continua a riproporre ogni giorno le sue invenzioni, dal treno e dal tram, fino alla navetta spaziale e al drone, passando per i nuovi linguaggi dell’elettricità o della fisica atomica, volt e watt, protoni e neutrini, ma anche per il francobollo, il velocipede che diventa bicicletta, e poi l’automobile (con tutto il suo lessico specifico, cofano, cerchione, rollbar, airbag) e dell’aereoplano: automobile e aereoplano che diventano veri e propri feticci per i futuristi e le avanguardie (si pensi all’aereopittura), mentre gli orrori della guerra (con la sua yprite e il suo fosgene) non tardano a rovesciare i miti della modernità nei fantasmi di Metropolis o degli espressionisti tedeschi, e l’unica igiene del mondo si rivela essere in realtà la sua sanguinosa devastazione.
Nascono allora e non tardano ad affermarsi anche il linguaggio della psicanalisi freudiana, nevrosi e isteria, rimozione e inconscio, io ed es, o quello terrificante del burocratese del riscontro, dell’in oggetto, dell’espletare, obliterare, porre in essere, attergare. Un italiano assurdo, ostile, vagamente sadico o almeno persecutorio, così come spesso il linguaggio della politica, delle memorabili convergenze parallele e dell’uscire dal tunnel, della stangata e della manovra, dell’allineamento delle monete e degli esodati, fino a quello specifico della seconda repubblica, dallo scendere in campo alla politica del fare, cui Beccaria dedica pagine assai gustose. O ancora quello talora aberrante del political correct, dell’operatore ecologico, del portatore di handicap o diversamente abile; o quello del tempo libero e del gioco, del bar, del juke box e dello sport: si pensi solo al calcio, la passione nazionale, con i suoi corner e replay, bomber e mister, goal e cross. Miriadi di parole sgorgano dalla pubblicità, con i suoi stucchevoli ma talvolta geniali calembours, dalla televisione, con l’audience e lo share, e soprattutto dal computer con i suoi bit e byte, la sua ram e i suoi link, il mouse e lo scanner, il formattare e settare, interfacciarsi e linkarsi, e chi più ne ha più ne metta, con le inevitabili deformazioni nel linguaggio giovanile: spettacolare il vaffanbit segnalato da Beccaria.
La lingua viene invasa da una inarrestabile fiumana di parole nuove, con un crescente dilagare dell’angloamericano: quello tecnocratico del budget e dell’hedge fund, e dello spread; quello specializzato dei viaggi in aereo, con i suoi jet lag e stand by, low cost e last minute; quello insopportabile del businessman impiegatizio del target, del trendy, della location e del top. Con i connessi deliri analfabetici dell’abside che diventa absaid, della Nike che diventa naik e del sine die che, diventa sain dai. E infine il linguaggio giovanile, fonte perenne di neologismi, che continuamente nascono e si disperdono, di cui Beccaria ci offre uno strepitoso catalogo.
Sono pagine dense ma al tempo stesso leggibilissime, che distillano una cultura vastissima, ma ancor più e ancor prima distillano amore e gusto per una cultura che non è solo sapere, ma è modo di pensare, di sentire e di vivere, ed è un modo di ricordare, di recuperare il proprio passato anche nell’immagine della campagna dell’infanzia impressa nell’anima, che con le sue luci e i suoi colori, i suoi sapori e i suoi paesaggi evoca anche libri letti, meditati, gustati, amati, trasformati in succhi vitali.
Non si vive di solo pane, e ancor meno di solo internet, di impresa e di inglese, ci ricorda Beccaria in questa limpida apologia della cultura, della letteratura, dei classici, della storia, del riflettere e capire nei tempi lunghi, del vivere non solo di ciò che è utile e serve nell’immediato: un’apologia ricca di consapevolezza e anche di orgoglio per ciò che la cultura rappresenta, ma anche talora venata di amarezza per i continui colpi che deve subire da parte di chi dovrebbe proteggerla e aiutarla.
Massimo Firpo, Domenicale – Il Sole 24 Ore 14/12/2014