Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 14 Domenica calendario

L’UTOPIA DEL PRESEPE

Ho letto d’un fiato l’ultimo romanzo di Starnone, Lacci (Einaudi). Mi ha preso, non riuscivo a smettere. Arrivata ai due terzi del libro, provavo la stessa rabbia impotente che mi nasce sempre davanti a Enea che abbandona Didone e manco glielo dice che partirà, prepara di nascosto le navi e, quando lei lo affronta e gli ricorda il loro amore, le dice che lui in ogni caso deve andare, non è un uomo libero, deve fondare Roma, e non si discute.
Le parole di Enea mi sembrano ogni volta così scarse, insufficienti, squallide. Così simili alle parole di tanti uomini che, nella vita e nella letteratura, lasciano le loro mogli e fidanzate e figli perché hanno altro da fare, vogliono riprendersi la libertà o semplicemente si sono innamorati di un’altra. Possibile, mi dico, che gli uomini in tali situazioni non sappiano mai cosa dire, non trovino le parole, balbettino frasi mozze, o perlopiù tacciano? Mettono su una faccia scura e cupa, come fossero gravati da un misterioso Fato che li domina e li conduce a compiere le loro importantissime imprese, e finisce lì. Devono andare. Punto e basta. Hanno, sopra di loro, una specie di dovere oscuro e cosmico. Una missione. Anche se è soltanto un altro amore, per loro è una missione voluta dall’alto. E finiscono col dire, semplicemente, che è successo, e ora devono andarsene. Come fossero sospinti da un vento più forte di tutto. E le mogli e i figli trovino pace, devono capire.
Così mi sembrava il romanzo di Starnone fino ai due terzi, dove c’è un marito e padre che se ne va, abbandona, e non trova le parole. Ma la terza parte del libro ci spiazza completamente! Ben venga la letteratura che ancora sa stupirci! Nella vicenda narrata da Starnone per fortuna è previsto un terzo tempo. Sorprendente, inaspettato. E la storia vira, diventa un’altra. E mi viene da pensare non più all’Eneide ma semmai all’Orestiade, alle sorti di Elettra, di Oreste. E anche di Amleto... Mi viene da pensare a tutti i figli traditi, abbandonati, offesi. A quanto gravano le colpe (o le missioni) dei padri sui figli; a quanto vengono deviate, complicate, stravolte le loro giovani vite, e quasi sempre impunemente, da padri che si sono semplicemente volti altrove.
Non posso dire di più, per non svelare la sorpresa finale.
Comunque, a margine: chissà cosa sarebbe stato, se Enea si fosse fermato a Cartagine, ad aiutare la regina Didone a costruire la sua città; o se vi fosse tornato dopo anni, da vecchio, dopo aver fondato la sua Roma e aver amato Lavinia. Chissà se Didone lo avrebbe accolto, e come sarebbero stati vecchi insieme...
Chissà se le fratture si ricompongono, se le ferite si rimarginano. O ci si può ricongiungere soltanto quando la vita è alla fine, quando non ci resta che la paura di morire.
***
Va bene, io sono d’accordo con Tullio De Mauro: mettiamo da parte l’italiano e parliamo pure tutti inglese in Europa. È spaventoso veder sparire la propria lingua millenaria, ma è così, non si può far diverso: il mondo va avanti, ci vuole una lingua comune, un porto franco, una camera stagna. Che Europa potrà mai essere se continuiamo a parlare ognuno la propria circoscritta lingua? La prima unione non può che essere linguistica: è solo parlando tra di loro, che i popoli troveranno unità, e affinità. «È difficile costruire una grande comunità politica democratica se i suoi cittadini non dispongono di una lingua comune», dice De Mauro.
La storia della torre di Babele è sempre stata, ai miei occhi, una delle più atroci. Terribile Dio, che punisce nel modo più drammatico immaginabile uomini che, in fondo, desideravano soltanto arrivare fino a Lui: li condanna a parlare lingue diverse, a non capirsi mai più. E così facendo, interrompe l’operato umano: il cantiere langue, diventa il luogo disperante dove trionfa la più totale incomprensione. È da allora che siamo costretti a studiare le lingue. Non si può cooperare, lavorare insieme, costruire alcunché, se non ci si capisce: gli ordini cadono nel nulla, travisati, ignorati. Il mondo si ferma.
A margine mi chiedo perché Dio punisca i costruttori della torre di Babele. Era così terribile il desiderio umano di voler raggiungere Dio? Non era invece teneramente infantile questa idea di costruire una torre per arrivare fino a Lui?
Ma noi oggi dobbiamo far ripartire il mondo che, evidentemente, qualcuno pensa si sia fermato. Che l’Europa dunque sia il ribaltamento di Babele, lo scioglimento di quella trama di atrocità. Che tutti tornino a parlare la stessa lingua, a capirsi, e quindi a costruire qualcosa insieme. Di elevato come una torre, possibilmente, perché no? E che sia l’inglese lo strumento pazienza, ce ne faremo una ragione.
Naturalmente io non ci sarò più, quando ciò accadrà. Ci vuole tempo perché decine di nazioni abbandonino le loro lingue e adottino l’inglese. Quindi, per fortuna, l’obbrobrio di veder sparire la mia lingua mi verrà risparmiato.
Ma se ciò non fosse, se per miracolo o per punizione io dovessi vivere ancora un secolo, farei così: mi metterei da un lato, in un canto, a leggermi di nascosto Dante, Petrarca, Leopardi, Montale... Solo questo è il mio timore: non vorrei dovermeli leggere in inglese. Lo so che sono già perfettamente tradotti e non ci sarebbe problema. Ma io resisto. Io non voglio perdermi la loro irripetibile, intraducibile musica. So anche che nessuno mi negherebbe la versione originale italiana, ci mancherebbe. Ma non mi piace che l’italiano rimanga la torre d’avorio di una sparuta setta di eremitici studiosi, magari rinchiusi a vita in un convento alpestre, che ne facciano l’oggetto di un sapere criptico ed elitario, relegato a pochi inguaribili nostalgici, spiriti malati, reietti delle società avanzate.
Meglio morire prima, in italiano.
***
M’incanto sempre a guardare i presepi, soprattutto i grandi presepi ben disposti nelle chiese. Dieci metri quadri di carta-roccia, muschio, casette e stelle comete in transito su fondo di cieli blu cobalto.
Da sempre la mia attenzione va agli infiniti artigiani, contadini, pastori, allevatori, che costellano i prati e le valli di ogni presepe. Non ne ho mai avuto così chiara coscienza, né, tantomeno mai ho capito le ragioni di tanta mia simpatia, fino a che non ho letto pochi giorni fa, nel recente libro di Giuseppe Lupo Atlante immaginario (Marsilio), che cos’è per lui un presepe. In questo suo libro, che è una celebrazione dei mondi immaginari, dei luoghi invisibili e, meglio ancora, inesistenti, insomma di tutte le peregrinazioni mentali (perlopiù libresche) che ci è dato fare nella vita, Lupo ci dice semplicemente questo: che un presepe è un mondo perfetto in miniatura. Bellissimo! È la miniaturizzazione di un’utopia, dunque. E di un’utopia particolarissima, di cui sono protagonisti d’elezione proprio quegli artigiani che piacciono tanto a me: l’omino che fa il pane, il pescatore che lancia a ripetizione la sua lenza, il contadinello che zappetta, la donna che lava i panni, che gira la polenta, il ragazzo che sega la legna, impasta la calce, batte il ferro sull’incudine. La gente che lavora, che fa (bene) quel che sa fare. L’emblema di una vita giusta, in cui ognuno fa la sua parte.
Grazie a Giuseppe Lupo, grazie ai libri che, a volte anche parlando di tutt’altro, illuminano qualche zona segreta di noi, che nessuna torcia ancora aveva esplorato.
Paola Mastrocola, Domenicale – Il Sole 24 Ore 14/12/2014