Sergio Romano, Corriere della Sera - La Lettura 14/12/2014, 14 dicembre 2014
DIO, PATRIA, FAMIGLIA: IL LEADER FORTE PIACE
Quando ha parlato di fronte alle Camere riunite nella sala di San Giorgio al Cremlino, il 4 dicembre, Vladimir Putin ha pronunciato un discorso che si compone di due parti alquanto diverse. La seconda, molto più lunga e dettagliata, è il discorso di un uomo di Stato riformatore e modernizzatore, che conosce le tare storiche del suo Paese e cerca di risvegliarne gli «spiriti animali» senza trascurare l’importanza del mercato e delle sue regole. Ma la prima, con cui ha esordito, è un discorso ottocentesco composto di temi e topos che sembrano appartenere alla formazione culturale dei grandi nazionalisti romantici.
Vi sono i consueti riferimenti alla lingua, alla fede, alle radici, alle tradizioni, alla storia. Vi è persino un passaggio in cui l’ex colonnello del Kgb si commuove ricordando che la Crimea, tornata alla madrepatria nel marzo di quest’anno, è il luogo dove fu battezzato il principe Vladimiro, evangelizzatore della Rus’ di Kiev. Il passato comunista non gli impedisce di riconoscere che la cristianità fu una formidabile forza unificatrice, capace di coinvolgere diverse tribù e alleanze tribali nella creazione di una nazione e di uno Stato russo. La Crimea diventa così il luogo che ha per la Russia una importanza non diversa da quella del «monte del Tempio a Gerusalemme per i seguaci dell’islam e del giudaismo».
A molti osservatori il discorso di Putin è parso un avvenimento fondamentalmente russo, la prova di quanto la grande Russia resti ancora lontana dalle tradizioni democratiche e illuministe dell’Europa centro-occidentale. Ma questa interpretazione è probabilmente troppo riduttiva. Vi è certamente molto di russo nello stile di Putin, ma il suo governo sta diventando una sorta di modello internazionale e ricorda quello di altri leader che hanno percorso nei loro Paesi, in questi ultimi anni, parabole parallele. Un commentatore del «Financial Times», Philip Stephens, elenca, con Putin, il presidente cinese Xi Jinping, il maresciallo egiziano Abdel Fattah Al Sisi, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il premier ungherese Viktor Orban, il primo ministro giapponese Shinzo Abe, il primo ministro indiano Narendra Modi e, secondo qualcuno, persino il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Ma la lista potrebbe comprendere anche il defunto Hugo Chávez e i presidenti di alcune repubbliche ex sovietiche, dal bielorusso Aleksandr Lukashenko al kazako Nursultan Nazarbaev, meno presenti nei radar delle opinioni pubbliche occidentali ma addirittura precursori.
Questi «uomini forti» hanno alcuni tratti comuni. Quasi tutti fondano la loro autorità su un concetto radicale ed esclusivo dell’identità nazionale, si atteggiano a interpreti dei valori spirituali della loro comunità storica e ne promuovono la rinascita, considerano le elezioni alla stregua di una certificazione notarile del consenso già conquistato con le tecniche della democrazia plebiscitaria.
Uno dei testi che meglio riassumono questa filosofia è quello della nuova Costituzione ungherese, approvata il 25 aprile 2011. In una sorta di professione di fede, premessa al testo della Legge fondamentale, i costituenti si dichiarano fieri del passato ungherese, invocano il nome di Santo Stefano, creatore dell’Ungheria cristiana, rendono omaggio ai grandi uomini della storia patria, riconoscono il ruolo del cristianesimo nella «preservazione della nazione», rivendicano all’Ungheria il merito di avere difeso l’Europa nel corso dei secoli. Il testo della Costituzione contiene anche clausole rassicuranti sul rispetto delle minoranze e degli altri culti, ma il governo Orban tollera, senza troppo preoccuparsene, l’esistenza di un partito antisemita (Jobbik) che raccoglie forti consensi anche in ambienti giovanili.
Viktor Orban ha esplicitamente elogiato i sistemi politici che «non sono liberali, forse nemmeno democratici», ma hanno successo e sarebbero meglio attrezzati per governare le economie nazionali negli anni delle grandi crisi finanziarie e dell’economia globalizzata. Spiace dirlo, ma non ha interamente torto. Uno sguardo agli altri uomini forti può servire a un quadro d’insieme. La Cina di Xi Jinping è ancora «repubblica popolare», ma è sempre meno comunista, sembra avere superato gli Stati Uniti nella graduatoria delle grandi economie, è sempre più contraddistinta da un aggressivo «nazionalismo han» che rivendica le antiche frontiere dell’Impero di mezzo, non tollera l’autonomia delle sue minoranze etnico-religiose, dai tibetani agli uiguri, popolazione musulmana dell’Asia centrale.
Narendra Modi è un nazionalista indù, leader di un partito (Bharatya Janata Party, Partito del popolo indiano) secondo il quale Sonia Gandhi è la quinta colonna del colonialismo occidentale. Ma è anche accusato dai suoi critici di essere stato spettatore indifferente del pogrom del Gujarat (di cui era primo ministro) contro la minoranza musulmana nel 2002. Il maresciallo Al Sisi si considera coscienza della nazione, rivendica alle forze armate egiziane il diritto e il dovere di rappresentare l’anima del suo Paese e di garantirne la sicurezza.
Shinzo Abe reclama le isole Senkaku contro le rivendicazioni cinesi, non intende fare ammenda per i crimini di guerra del Giappone durante la Seconda guerra mondiale, rende devoto omaggi0 ogni anno al santuario di Yasukuni dove vengono onorati coloro che sono morti per l’imperatore dal 1868 (quasi due milioni e mezzo), fra cui gli uomini politici e militari condannati alla pena capitale per crimini di guerra dal tribunale internazionale di Tokyo fra il 1946 e il 1948. Erdogan ha imperiosamente cambiato il volto politico della Turchia, oggi molto più musulmana, nazionalista e ottomana di quanto fosse agli inizi della sua scalata al potere. Benjamin Netanyahu farà probabilmente le prossime elezioni alla guida di una coalizione in cui saranno presenti i partiti religiosi, rappresentanti di quella parte della società israeliana che non ha le sue radici nella tradizione laica e democratica del Movimento sionista.
Non tutti questi uomini politici sono egualmente autoritari. Ma tutti si dichiarano garanti dell’unità nazionale, si propongono di riscattare il popolo dalle offese di cui è stato vittima nel corso della sua storia, si appellano a un passato eroico e spiritualmente edificante, coltivano l’orgoglio popolare. Questo stile di governo è tanto più efficace quanto più è in grado di contare su un nemico contro il quale sia relativamente facile mobilitare la società nazionale. Per Putin è quella parte del mondo occidentale che ha sempre considerato la Russia alla stregua di un potenziale nemico e non ha mai smesso di ostacolare le sue legittime ambizioni. Per Xi, sono nemici tutti coloro che non vogliono riconoscere i diritti storici della Cina nel suo continente. Per Orban, sono gli eredi del regime comunista e dei governi che hanno mutilato l’Ungheria, dopo la Grande guerra, con il trattato del Trianon. Per Modi è il «non indù» nelle sue varie incarnazioni e rappresentazioni, dal colonialista occidentale al musulmano. Per Abe è il regime di sorveglianza speciale a cui il Giappone è stato soggetto dopo la sconfitta. Per Al Sisi è la Fratellanza musulmana. Per Netanyahu è l’antisemitismo che si nasconderebbe dietro chiunque voglia porre limiti al disegno nazionale del popolo ebraico.
Ridurre i nuovi regimi autoritari a malaugurati errori di rotta, dovuti principalmente alle ambizioni di qualche aspirante tiranno, mi sembra insufficiente. Dovremmo piuttosto chiederci se le cause non vadano ricercate nella crisi dell’ideologia occidentale.
Alla fine della guerra fredda la dottrina prevalente, al di qua del vecchio sipario di ferro, era fondata sulla convinzione che il futuro del mondo dipendesse dalla combinazione di due fattori: il diritto dei popoli di scegliere liberamente i loro governi e la libertà dei mercati. La dottrina è parsa avere un largo seguito anche in Paesi nell’Europa centro-orientale e in altri continenti. Ma 25 anni dopo constatiamo che le urne non bastano a fare una democrazia, che il potere democratico può essere comperato e venduto, che il tasso di corruzione nei ceti dirigenti di molti Paesi è vertiginosamente aumentato, che l’economia di mercato è finita in un tunnel, che la libera finanza ha creato una casta di nababbi, che il divario fra ricchi e poveri è diventato moralmente intollerabile e infine che i popoli, con qualche variante da un Paese all’altro, si stancano presto delle persone che hanno appena eletto.
Non credo che gli uomini forti abbiano idee migliori e sono personalmente convinto che i loro seguaci finiranno per accorgersene. Ma hanno successo perché promettono meno chiacchiere, più governo, ordine, sicurezza, Dio, patria e famiglia. Sono antichi slogan che speravamo irrevocabilmente invecchiati. Ma sembrano ancora funzionare. Forse il miglior modo per rispondere alla sfida dei nuovi dittatori è chiedere a noi stessi che cosa non abbia funzionato a casa nostra.