Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 14 Domenica calendario

ALL’ORIGINE DELL’ANTIPOLITICA

Si levano anche nelle sedi più autorevoli del Paese le condanne dell’antipolitica: termine con cui bisogna intendere la critica aprioristica — e proprio per questo distruttiva, eversiva — oltre che del sistema politico in quanto tale, anche dell’intera vita pubblica, vista come interamente e irrimediabilmente inquinata.
Ho scritto aprioristica in corsivo perché evidentemente sta tutto lì il problema. Infatti, se la critica di cui sopra non appare affatto aprioristica ma ha una qualche giustificazione nei fatti, se essa è condivisa da più o meno larghe parti dell’opinione pubblica, allora è difficile in un regime democratico negarle il diritto di cittadinanza. Si potrà beninteso fare questione di toni, di stile, di capacità minore o maggiore da parte dei critici di proporre alternative credibili o accettabili, ma la sua natura eversiva, cioè antidemocratica, non sembra facilmente sostenibile. In una democrazia, infatti, non basta che i nostri avversari si comportino in modo volutamente oltraggioso e usino un linguaggio sommario e violento per farne dei candidati alla messa fuori legge. E d’altra parte non ci si può nascondere che è comunque difficile rispondere alla domanda chiave: in base a quale criterio, al di là di una soglia ovvia, si decide quando una critica è aprioristica e quando non lo è? Non si tratta in sostanza di un giudizio sempre politico, e dunque dipendente alla fine solo dalle nostre personali opinioni?
In realtà, se da vent’anni l’assetto politico italiano non trova pace, sentendosi periodicamente insidiato dall’antipolitica, dal populismo, dal giustizialismo — con i vari schieramenti politici che di volta in volta incarnano uno dei tre — una ragione di fondo c’è. Ed è che tutte e tre quelle patologie sono nel Dna stesso della Seconda Repubblica: costituiscono una sorta di suo peccato originale. Tra il 1992 e il 1994 — non bisogna mai dimenticarlo — la Seconda Repubblica è nata infatti fuori e contro la politica. Violando in molti modi l’insieme di regole e di prassi che fino allora la democrazia italiana aveva più o meno sempre rispettato, e al tempo stesso, però, non essendo capace di darsi regole davvero nuove. Proprio per questo essa è restata in certo senso prigioniera delle modalità della sua nascita: condannata a ripercorrerle periodicamente. Dunque a doversela vedere periodicamente con l’antipolitica, con il populismo, con il giustizialismo.
Ci sono fatti di quella lontana origine degli anni 90 di cui ci siamo dimenticati con troppa facilità. Ma che invece pesano come macigni, e ci ricordano da dove veniamo.
Era il 2 settembre 1992, per esempio, quando il deputato socialista Sergio Moroni, destinatario di due avvisi di garanzia nel quadro delle inchieste di Mani Pulite, si uccise nella sua casa di Brescia lasciando una lettera che oggi è difficile rileggere senza sentirne lo straordinario valore di premonizione. In essa Moroni, dopo aver rivendicato di non «aver mai personalmente approfittato di una lira», invocava «la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale», dolendosi di essere «accomunato nella definizione di ladro oggi così diffusa». Terminava denunciando «un clima da pogrom nei confronti della classe politica», clima caratterizzato da «un processo sommario e violento». Ma le sue parole caddero nel vuoto. Benché dirette alla Presidenza della Camera, allora tenuta da Giorgio Napolitano, non furono ritenute degne della benché minima discussione parlamentare.
Ancora un altro ricordo. Era il 5 marzo 1993, nel pieno di Tangentopoli, quando in risposta all’annuncio di un decreto del Guardasigilli del governo Amato, Giovanni Conso, in cui si stabiliva la depenalizzazione (con valore anche retroattivo) del finanziamento illecito ai partiti, accadde un fatto probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime costituzionale fondato sulla divisione dei poteri. I magistrati del pool di Mani Pulite si presentarono al gran completo davanti alle telecamere del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini alla protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli effetti era il governo legale del Paese. Decreto legge che a quel punto — caso anche questo fino ad allora unico nella storia della Repubblica — il capo dello Stato Scalfaro, impressionato dalla rivolta, si rifiutò di firmare. E naturalmente nessuno ebbe qualcosa da ridire.
Mi chiedo: è possibile non riconoscere in questi episodi e in tanti altri che accaddero allora alcuni elementi caratterizzanti di quella che è stata poi la vicenda italiana? Non appare forse della medesima natura di quella che oggi siamo portati ad attribuire all’antipolitica — se non addirittura identica — la tendenza all’esasperazione verbale, alla generalizzazione indiscriminata nei confronti dell’avversario, alla sollecitazione spregiudicata delle reazioni più elementari dell’opinione pubblica? Non appare più o meno la medesima pure la timidezza imbarazzata, talvolta impaurita, del potere? E non suona forse sempre eguale anche il richiamo alla volontà della «gente» o del «popolo» che sia — che allora era quello «dei fax», poi è stato quello degli «indignati», e oggi è quello della «Rete»? Da queste parti, come si vede, anche il populismo ha una storia lunga e molto varia: allo stesso modo, peraltro, dei suoi fratelli gemelli, il giustizialismo e l’antipolitica.
La classe dirigente che si ritrova ad essere oggi alla testa della Seconda Repubblica non dovrebbe scordarselo. È proprio in quei terreni che oggi essa disdegna che affondano, infatti, le radici profonde della sua stessa legittimazione.