Gaia Piccardi, Corriere della Sera 13/12/2014, 13 dicembre 2014
L’ATLETICA IN PEZZI LO SCANDALO DOPING È UN CASO POLITICO
Un presidente uscente, il senegalese Lamine Diack, 81 anni, da 39 alla Iaaf (federatletica internazionale), chiamato nel lontano ‘99 a gestire la difficilissima eredità di Primo Nebiolo e colto in flagrante — a 9 mesi dalla fine del mandato — da un clamoroso scandalo doping. Due pezzi da novanta che aspirano al trono della federazione più ricca dello sport mondiale: Sir Sebastian Coe («Tempi durissimi per l’atletica: è ora di dotarsi di un’organizzazione indipendente, che testi gli atleti e sanzioni i positivi») e Sergei Bubka («Sono sconvolto: serve una risposta veloce per proteggere l’integrità dell’atletica»). Il caso doping dell’anno, come s’intuirà, è un caso politico.
L’ondata di fango che ha travolto la Iaaf — scatenata da un documentario della tv tedesca Ard e rincarata da un’inchiesta del Telegraph : 225 atleti di 39 paesi (7 italiani, 5 francesi, 3 inglesi, 25 keniani, 58 russi, ma soprattutto tre campioni olimpici di Londra 2012) con valori del sangue alterati tra il 2006 e il 2008 — non si è fermata né davanti alle smentite di prassi dell’ufficio stampa (che ha sottolineato che il passaporto biologico degli atleti è stato introdotto solo nel 2009) né all’alzata di scudi di Diack (chi lo capisce, quando parla, è bravo): «Non ho paura di niente». Dopo le dimissioni del presidente della federatletica russa, Valentin Balakhnichev, e del figlio del presidentissimo (uno dei 15 figli, per la precisione), Papa Massata Diack, avidissimo consulente di marketing della Iaaf presieduta dal papi, la terza testa tagliata dallo scandalo è quella che, rotolando, ieri, ha fatto più rumore: Gabriel Dollé, francese, responsabile del dipartimento antidoping della federazione. Interrogato dal comitato etico della Iaaf (organismo indipendente), Dollé è l’ufficiale antidoping più anziano ed esperto dell’atletica mondiale.
Mentre Diack, abile tessitore di trame, lavora per uscire dal pantano alla meno peggio e fa rotta verso la poltrona di presidente del Senegal, dietro si scatena la bagarre. David Rudisha, keniano, padrone degli 800 metri (a Londra vinse l’oro realizzando il record del mondo: 1’40’’91), è l’unico dei fuoriclasse chiamati in causa tra le righe a essere uscito allo scoperto: «Tutto ciò è molto triste: non sta solo rovinando la reputazione del Kenia ma anche la credibilità del nostro sport. Dobbiamo fare qualcosa per educare i nostri giovani alla cultura dell’antidoping. C’è troppa inconsapevolezza in giro...». Di certo non è sembrato casuale l’atteggiamento di Coe all’ultimo congresso straordinario del Cio a Montecarlo, la storica sessione che ha modificato la carta olimpica abbassando l’asticella per le candidature, a partire dai Giochi 2024 (cui Roma ambisce). Coe si è mosso, e ha parlato, come se fosse già presidente della Iaaf. Non c’è scenario più propizio di un mare di fango, d’altronde, per accreditarsi come un giglio sulla spazzatura. La presunta copertura della Iaaf del doping russo e internazionale diventerà tema di campagna elettorale. Il tesoretto lasciato da Nebiolo a Diack si è assottigliato ma fa ancora gola. Un anno fa teneva banco lo scandalo dell’(inesistente) antidoping in Giamaica. E se cade Bolt, non c’è più trippa per i gatti.