Antonio Gnoli, la Repubblica 14/12/2014, 14 dicembre 2014
FRANCO LOI
[Intervista] –
Quella mattina ci fu la strage. Sul piazzale Loreto giacevano una quindicina di partigiani. Per la prima volta Franco Loi, quasi un adolescente, percepì gli effetti brutali della morte. Il cartello umiliante, appeso al collo di uno di loro, con su scritto “Banditi”, spalancava una tragedia inaudita. Il colpo di coda di una guerra feroce. Non c’era poesia. Non c’erano Salgari e Verne che, con le loro avventure, lo avevano fatto sognare. Solo la brutale efferatezza di un episodio. E una data: il dieci agosto 1944.
Cosa ricorda di quel giorno?
«C’era un sole bellissimo. Ero uscito di casa per andare a scuola di ripetizioni. Mi avevano rimandato in tutte le materie. Il fascismo era anche questo. Giunsi sul luogo, inaspettatamente, e vidi quei corpi ammonticchiati. Un’immagine tremenda. Scoprii che c’era anche il padre di un mio amico. Ero frastornato. Tutto lì intorno mi pareva finto. Finti i fascisti della legione Muti. Finta la gente che guardava inorridita. Finte le case che circondavano il piazzale. Anche il cielo sembrava di cartapesta. La sola cosa vera, in quella Milano allo stremo delle forze, era la morte».
Perché quel senso di estraneazione?
«Era la sproporzione di quelle povere vittime a rendere artificiale tutto il resto. Come un sentimento di buio che equivalse per me al passaggio a un’altra età».
Lei non è nato a Milano?
«No, infatti. Sono nato a Genova. La mia infanzia fu lì: tra un padre sardo e taciturno e una madre emiliana, spesso grintosa e irriverente. Avevo sette anni quando ci trasferimmo a Milano al seguito di mio padre che era stato chiamato a dirigere lo scalo merci».
Un padre taciturno, diceva.
«Non abbiamo mai avuto un dialogo. Sentivo che mi rispettava e mi amava. Quando crebbi, presi a lavorare anch’io allo scalo merci. Cominciai come manovale. Mi alzavo alle quattro, la sera studiavo. Un inferno. Di fatica e di sonno. Facevo un po’ di attività sindacale. Un giorno il capo ufficio convocò me e mio padre. Improvvisamente Mainardi, ricordo ancora il suo nome, prese a insultarlo: “Non sei stato neppure capace di educarlo”, disse indicandomi. “Che razza di uomo sei?”, aggiunse con disprezzo. Non ci vidi più. Gli saltai addosso. Ci rotolammo. Lo presi a pugni. Fummo separati. E naturalmente venni licenziato in tronco».
E suo padre?
«Restò fino al 1958. Poi gli diedero una medaglietta per i 25 anni di fedeltà alla ditta. E lo buttarono fuori. Credo ne soffrì particolarmente. Un ictus e una cura sbagliata fecero il resto. Fu inchiodato nel letto per 11 anni prima di morire».
E lei?
«Iniziai a fare politica nel Pci. Ma non durò a lungo. C’era un fanatismo ideologico che non riuscivo ad accettare. Cossutta era segretario del partito a Milano. Già allora sembrava un fossile. “Che ci faccio io qui?” mi dissi e nel 1954, molto prima dei fatti di Ungheria, restituii la tessera. Devo dire che ebbi anche la fortuna di incrociare un personaggio per me fondamentale: Giulio Trasanna».
Chi era?
«Sembrava uscito da un libro di Osvaldo Soriano. Era stato pugile. Campione del Friuli. Un giorno si imbatté in un testo di Nietzsche, era Al di là del bene e del male. Si immerse nella lettura al punto che dimenticò l’incontro di boxe. Abbandonò il pugilato per la letteratura e la poesia. Da lui ho appreso tutto: l’amore per le stelle. L’onestà. La passione per i libri. Morì di cancro nel 1962. Avevo da poco iniziato il mio lavoro alla Mondadori».
E la poesia?
«Sarebbe venuta dopo, anche se era già tutta dentro di me».
Cosa faceva alla Mondadori?
«Mi occupavo dell’ufficio stampa. Allora a capo della casa editrice c’era Vittorio Sereni. Un giorno mi chiamò: ho saputo da un amico che lei scrive poesie. È vero, risposi. Ma come, sono dieci anni che lei lavora qui e non me ne ha mai parlato? Le scrivo per me, replicai. Alla fine volle leggerle. Lo trovai qualche giorno dopo, davanti alla porta del mio ufficio. Mi guardò in silenzio e poi mi abbracciò. Da allora ebbe inizio la nostra amicizia, grazie a lui pubblicai le prime poesie».
Predilige il dialetto perché?
«Non lo so. È venuto fuori spontaneamente. Sentivo la parlata milanese degli operai, della gente comune. Sentivo che i discorsi cambiavano grazie ai suoni più che al significato delle parole. Mi affascinava. E poi lessi il Belli. Capii che il dialetto è la lingua dell’esperienza e quindi della vita. Quell’anno, il 1967, scrissi per la prima volta delle poesie».
Cosa la indusse a farlo?
«Era una forza sconosciuta. Uno stato di ebbrezza che durò tutto il mese di settembre. Scrissi in tutto 119 poesie. Poi, per anni più niente».
Perché la lunga interruzione?
«È difficile da spiegare. Davvero. È come conoscere la parte insopportabile del dolore e averne timore. Una volta Zanzotto paragonò la poesia al terremoto. Mi disse: sai, a volte scrivo il primo verso e mi ritraggo. Ne ho paura. È come se tutto stia per crollare».
E lei ha avuto paura della sua poesia?
«Devi vincerla la paura. Devi trovare l’equilibrio tra l’inconscio e la conoscenza. Non è facile. Lo so. Perché la poesia è anche un modo di sfidare il sacro».
È religioso?
«Non vado in chiesa dall’età di 14 anni. Il prete di allora, anzi un frate, mi chiese nel confessionale se mi toccavo. Avvertii qualcosa di squallido. Ad ogni modo ho frequentato dei religiosi particolarmente interessanti».
Chi?
«Don Giussani. Mi colpì il suo carisma. Non ho mai sentito nessuno far vibrare le emozioni come seppe fare lui con le parole. Fui anche attratto da Padre Turoldo. Ma la persona che, se ci penso, ancora mi turba è don Lorenzo Milani. Andai a trovarlo a Barbiana. Era incredibile».
Incredibile perché?
«Brusco come un orso. Ma anche tagliente. Con quegli occhi ironici. Quando mi vide, la prima volta, disse: te sei comunista ed è già meglio di niente, in questo momento pensi che io sia dalla tua parte. Ma quando andrete al potere, io sarò un vostro avversario, ricordatelo. Più volte mi recai a Barbiana. In quegli incontri, davanti ai suoi adorati allievi, capitava che don Lorenzo infilasse un braccio in una pentola d’acqua bollente. E indifferente al calore, che gli ravvivava la circolazione sanguigna, poteva spiegare il verso di una poesia di Leopardi, di Dante o commentare un passo della Bibbia».
Che impressione ne ricavò?
«Sapeva essere durissimo. Ma non ho mai visto una classe di allievi discutere così liberamente e profondamente come quella che don Lorenzo aveva creato. L’ultima volta che lo vidi fu in un’alba dell’ottobre del 1964. Stavo lasciando Barbiana.
Avevo dormito male. Mi alzai verso le quattro del mattino. Preparai lo zaino. Mi mossi senza far rumore. Ma lui era già al suo scrittoio. Mi guardò, con tenerezza. Disse: “Questo è il solo tempo che mi appartiene e che non rubo ai miei allievi”. Stava scrivendo una lettera alla madre. Mi chiese di restare. Gli dissi: “È tardi, don Lorenzo”. Non l’ho più rivisto. Gli scrissi un paio di anni dopo. Mi rispose che era in ospedale e che riusciva a vedere solo gli amici più stretti. Morì nel 1967, in casa dell’adorata madre e alla vigilia dei grandi eventi studenteschi che in qualche modo anticipò».
Ai quali ha partecipato.
«Sì, poi le cose si complicarono. Si imputtanarono. Fui perfino arrestato come fiancheggiatore delle Br. E pensare che detestavo la loro violenza».
Com’era finito in quella situazione?
«Fui convocato una mattina dalla procura di Venezia. Pensavo a una testimonianza. Mai avrei immaginato di cadere in un inferno. Mi accorsi improvvisamente di essere accusato dei peggiori misfatti. Il giudice si accanì nell’interrogatorio. Minacciando di coinvolgere anche mia moglie».
Di cosa l’accusava?
«Di essere un terrorista. Forse, perfino, uno dei capi delle Br».
Con quali prove?
«Qualcuno mi aveva denunciato. Si parlò di un “teste probante”. Le domande, brutali, mi gettarono nella disperazione. Ero inerme. Incredulo. Alla fine fui trascinato fuori della stanza e, in catene, su di un motoscafo, trasferito nel carcere a Santa Maria Maggiore. In isolamento. La notte, la prima notte, sentii le voci lontane di altri detenuti. Una in particolare: “Voglio morire”, gridava. “Fatemi morire”. Mi sembrava di essere precipitato in un baratro. Cominciai a piangere».
Mi scusi, ma non è che prendono uno, così, lo mettono dentro e buttano la chiave. Perché proprio lei?
«Durante l’interrogatorio mi chiesero se conoscevo Corrado Simioni. Dissi sì. Dissi che era mio amico. Che lo era stato».
Simioni fu considerato uno dei teorici della lotta armata. Qualcuno si è spinto fino a dire che fosse lui il “grande vecchio” delle Br. Un’amicizia così non poteva passare inosservata.
«Se è per questo Corrado Simioni era anche un grande studioso di Pirandello. Iscritto al partito socialista. Facemmo assieme il Sessantotto. Poi lui prese la sua strada con Renato Curcio e Mara Cagol. Ma io non c’entravo più niente. Non condividevo più nulla di quella storia politica».
Ha conosciuto Curcio e la Cagol?
«Sì, c’eravamo frequentati negli anni Sessanta. Una mattina del febbraio del 1970 Curcio venne a trovarmi per propormi la direzione di una rivista che stava fondando, Sinistra proletaria . Rifiutai».
Con quali argomenti?
«Gli ripetei quello che già c’eravamo detti mesi prima durante un incontro nel quale cominciarono a immaginare di entrare in clandestinità. Mi sembravano fuori dal mondo. Lo ribadii con forza. Gli dissi che non c’era futuro per la lotta armata. Per la violenza».
E lui?
«Se ne andò con Mara che in qualche modo sembrò darmi ragione. Scesero le scale. Lei alzò il braccio per salutarmi. Per me quella storia finì lì. Definitivamente».
E dopo il suo arresto?
«Ebbi una condanna a un anno e messo in libertà provvisoria. In appello fui completamente prosciolto».
Che anno era?
«Il 1983. Avevo la sensazione che la vita dovesse ricominciare. Tre figli, una moglie e neppure uno straccio di lavoro. Fu, ancora una volta, Sereni ad aiutarmi».
È stato molto amico anche di Franco Fortini.
«Scrisse una prefazione a un mio libro di poesie. Era un uomo strano. Dottissimo. Litigioso come pochi. Una volta per una serie di fraintendimenti si prese a pugni con Stefano Agosti. Si azzuffarono per un verso di Leopardi. Finirono agli insulti e poi alle mani. Dovemmo separarli a forza. Come vede nella mia vita non sono mancate le sensazioni forti».
E oggi?
«Continuo a pensare che l’ingiustizia prosperi e che la gente alla fine non faccia nulla per contrastarla. Regnano indifferenza e ipocrisia. Quando ho compiuto ottant’anni c’è stata, in un teatro milanese, una grande festa in mio onore. Ero felice per tutti i riconoscimenti. Poi ho sentito crescere il dubbio. Improvvisamente mi sembrava che tutte le parole spese per dire quanto fossero belle le mie poesie, suonassero false. Provavo lo stesso sentimento di estraneazione che ebbi in piazzale Loreto. La mia giovinezza, ormai perduta, i miei drammi, le ragioni stesse dello scrivere stritolate in un inutile anniversario. Proprio in quei giorni scoprii che stavo diventando cieco».
Lo ha scoperto come?
«Un esame oculistico approfondito e il responso: affetto da maculopatia. In sostanza è la perdita della centralità visiva. E dei colori. Avendo perso i dettagli della visione le immagini sfocano. Prevalgono le ombre. Non riesco più a leggere e faccio un’enorme fatica a scrivere. Ho provato a buttare giù dei versi su un taccuino. Guardi la scrittura: incerta, sbilenca, incomprensibile. Mi avvilisco e provo a resistere».
In che modo?
«C’è una forza che nasce dai sogni. Jung dice che c’è un punto dentro di noi che non è riconducibile alla logica. Lì si realizzano i sogni più importanti. Ma bisogna trovarlo quel punto. Bisogna arrivarci. Bisogna conoscere se stessi. È il fondamento di ogni civiltà, il sogno. Ancora oggi continuo a sognare. Non mi sono del tutto arreso».
Antonio Gnoli, la Repubblica 14/12/2014