Emilio Marrese, la Repubblica 14/12/2014, 14 dicembre 2014
PINO DANIELE
Era ancora all’istituto tecnico quando compose piccoli capolavori come Terra mia e Napule è. “Poesie scambiate tra i banchi di scuola, neppure mi resi conto. Solo dopo il successo di Je so’ pazzo capii che la chitarra poteva essere un mestiere. E iniziai a studiarla sul serio. Ancora non ho finito”. Ora che Masaniello è tornato in tour con la sua vecchia band, si guarda indietro. “Ogni stagione ha il suo clima, non puoi avere sempre piazza del Plebiscito, l’Arena di Verona o l’Olympia. Bisogna anche saper tornare alla normalità, all’intimità. Io sono sempre lo stesso. Non faccio lo showman. Suono”
ROMA
Sull’orlo dei sessant’anni garantisce che ancora tiene la cazzimma sufficiente. «Qualche volta devo tirarla fuori perché questa società ti costringe a difenderti, specie nel mio ambiente in cui le persone a modo sono una minoranza. Ma poi neanche esiste più un ambiente musicale: ogni dieci anni cambia tutto radicalmente e tu devi attaccarti alle cose che non ti fanno deragliare. Rinunciare è più facile che stare in gioco. Se sono ancora qua forse è perché non mi sono mai considerato un cantautore ma un musicista che suona, e i musicisti che suonano non hanno età. La musica ti tiene in vita fino all’ultimo giorno».
Lo cantava fin dal principio, “la musica è tutto quel che ho”, in Nero a metà, l’album che portò duecentomila napoletani in piazza del Plebiscito, il 19 settembre del 1981, e che ancora oggi dà il titolo alla nuova versione del disco e al tour di Pino Daniele e della sua band, la stessa di allora. Riempita l’Arena di Verona a settembre, ha fissato altre sei tappe invernali: ieri era a Roma, martedì e mercoledì la rimpatriata blues sarà di scena a Napoli e poi a Milano il 22 dicembre. Imponente in uno dei tanti giubbotti mimetici in stile militare della sua collezione, ci accoglie nel suo ufficio romano, un piano seminterrato che odora di nuovo nel quartiere Prati. La tazzulella ‘e cafè è nel bicchierino di plastica, gli onori di casa li fa Alessandro, il maggiore dei cinque figli avuti da due mogli. Nero a metà, Pino, lo è ancora. Artista in chiaroscuro.
Gentile e ombroso, cordiale e riservato, loquace finché si parla di musica ma geloso del privato e del passato.
Semplicemente, non gli importa e non si dà importanza. Si è sempre definito «napoletano atipico» in quanto sedicente «antipatico» («Ho sempre combattuto lo stereotipo del napoletano fanfarone simpatico a tutti i costi» ha spesso dichiarato). Rimase famosa, perché ripresa dalla Rai, la sua risposta live a quello che dal pubblico lo aveva stuzzicato con affetto: «Non sai parlare». «L’importante è che saccio sunà». E cosissìa. Non ama i bilanci, non ama troppo raccontarsi, celebrarsi, storicizzarsi, enfatizzarsi, analizzarsi.
Lui è qui e ora. Vai mo’. «Io faccio e dimentico. Il verso più bello forse lo devo ancora scrivere». Non può ragionare diversamente uno che alle superiori buttò giù un album struggente e altissimo come Terra mia e una poesia in musica come Napule è, destinata all’immortalità al pari di tanti altri capolavori della tradizione partenopea. Poteva pure fermarsi subito lì, dove tanto nessuno lo avrebbe raggiunto. «Non lo so se è un capolavoro, di sicuro non me n’ero accorto quando l’abbiamo composta a casa di Rino Zurzolo, lui aveva quattordici anni e suonava il contrabbasso, io sedici e mi arrangiavo da autodidatta con la chitarra. Eravamo tutti e due innamorati di Luigi Tenco, ci scambiavamo poesie per divertimento, scritte in italiano, tra i banchi di scuola, all’Istituto tecnico commerciale Diaz. Diàz, come si dice a Napoli. Se ci sta il genio e fai qualcosa che rimane, te ne rendi conto solo dopo, quando vedi che una canzone come quella entra nella vita delle persone, nel quotidiano, e non ne esce più. Io allora non pensavo che avrei fatto il cantante e tanto meno che avrei inciso un disco. La certezza che questa passione sarebbe potuta diventare un mestiere l’ho avuta solo dopo il secondo elleppì, dopo il successo di Je so’ pazzo. Lì ho capito che potevo guadagnarmici da vivere. Solo a quel punto ho anche iniziato a studiare seriamente la chitarra. E non ho ancora finito». La prima elettrica, una Eco X27, la portava a spasso nel cuore storico popolare di Napoli, dov’è cresciuto, tra il Pallonetto, il Monastero di Santa Chiara e piazza del Gesù; dopo il diploma, Giuseppe Daniele suona in un gruppo chiamato Batracomiomachìa, come il poemetto greco del VI secolo avanti Cristo (battaglia tra topi e rane, la traduzione), accompagna Jenny Sorrenti, la sorella di Alan, Gianni Nazzaro, va in tour con Bobby Solo. «Esperienza breve e divertentissima con un grande professionista, un vero innamorato, nonché profondo conoscitore, del rock. Andammo a fare serate in Belgio e Francia. A quei tempi c’erano molte più opportunità, più occasioni per imparare sul campo. Quattro strumenti e si andava, oggi ci sono ragazzi che incidono il secondo disco senza essere mai saliti su un palco». Ma Pino Daniele, per come poi lo conosceremo, nasce dall’incontro con James Senese. «La sua band, Napoli Centrale, nella quale entrai come bassista, fu la scintilla per iniziare a pensare cose diverse. Erano tempi di disagio e di denuncia. La musica aveva una funzione sociale che oggi non ha più, sfruttava la sua forza per veicolare un messaggio, stimolare il pensiero e gli stati d’animo, sfogare una rabbia».
Masaniello è cresciuto, Masaniello è tornato. Coi capelli corti e il toscano tra le labbra. Ma Pino Daniele non è stato solo Masaniello. È stato, nell’arco di quarant’anni e ventritré album, un po’ di tutto: lazzaro felice, musicante, uomo in blues, scarrafone, boogie man. Dopo aver inventato un sound e un linguaggio ha poi esplorato, ricercato, rimaneggiato tra Africa, Mississippi, Brasile, Medioriente e Mediterraneo. Qualche volta scoprendo sentieri, altre disorientando perfino i seguaci più fedeli: può essere la stessa persona quella che ha concepito versi come “’a vita è nu muorzo ca nisciuno te fa da’ ‘ncopp’a chello ca tene” (e cento altri inarrivabili) e quella che canta “che Dio ti benedica, che fica” o “punta dritto verso il cuore se vuoi vincere in amore/ come un lampo a ciel sereno sei arrivata come un treno”. Ecco. Con tutto il rispetto. «Rifarei tutto il percorso. Di solito non mi riascolto, ma sì, qualcosa ho fatto che, dopo, mi dico “Oh Signore, ma che è?”. L’esperienza serve a poco se non a capire la cosa più importante, e cioè che il come conta più del quando e del quanto. Si deve acquisire un metodo e non inseguire il mercato, non fare cose che non ti appartengono. Ci sono stati periodi in cui mi sono fatto condizionare. Il successo ti cambia, ti stranisce. Si emoziona un bambino alla prima comunione, figuriamoci un ragazzo che si ritrova duecentomila persone davanti ad ascoltarlo». E forse non è facile nemmeno ritrovarsene un giorno appena tremila, sotto il palco, dopo aver riempito gli stadi o i templi come l’Apollo a New York e l’Olympia di Parigi. «Magari sempre tremila, ci farei la firma... Ogni stagione ha il suo clima. Bisogna anche saper tornare alla normalità, all’intimità».
La lista delle collaborazioni e dei duetti è infinita, ma sul serio: da spalla di Bob Marley a San Siro a Biagio Antonacci, da Gigi D’Alessio a Eric Clapton. Wikipedia ne conta centocinquantuno. Anche qui nessun rimpianto, nessuna delusione: «Le collaborazioni servono a capire. Io ho sempre cercato gli altri per “messaggiare” la mia creatività. Mi sono sempre divertito molto con tutti, anche se coi grandissimi ho trovato difficoltà “tecniche” per stare al passo: parlo di gente del livello di Clapton o Al Di Meola, Pat Metheny, Wayne Shorter, Chick Corea, Gato Barbieri. Non ho mai tenuto la contabilità per sapere se alla fine ho dato più di quel che ho preso». Ma alla fine, gira e rigira, si torna in scena coi «compagni di vita». Zurzolo, Senese, Marangolo, Di Rienzo, Esposito, De Piscopo, Vitolo, Cercola... «E si torna ragazzini nonostante l’età. Siamo una macchina che cammina spedita, basta poco per riavviarla ogni volta. Abbiamo vissuto tournée bellissime, ci conosciamo a memoria, qualche volta ci siamo scazzati come accade tra amici, ma quando ci ritroviamo è tutto come trentacinque anni fa. Le canzoni di allora hanno un vestito nuovo, non si possono fare uguali. Ma ha un senso farle sentire a chi non le ha conosciute prima, senza malinconia né nostalgia». Né troppe spiegazioni: «Non sono cambiato, sul palco parlo sempre poco. Io non faccio l’intrattenitore, non sono uno showman. Quando uno studia e si sacrifica tutti i giorni, il palco è un momento di grande serietà e rispetto per la musica. Giudicatemi per quella».
Emilio Marrese, la Repubblica 14/12/2014