Federico Fubini, la Repubblica 14/12/2014, 14 dicembre 2014
NEL DUELLO CON WEIDMANN SUPER-MARIO SCHIERA 19 FEDELI MA ORA C’È ARIA DI NEGOZIATO
ROMA.
Prima della riunione del Consiglio direttivo della Bce del 4 dicembre, Mario Draghi ha emendato appena la dichiarazione finale. Il presidente ha cancellato il passaggio in cui si dice che il consiglio «si aspetta» di far crescere il bilancio della banca di circa mille miliardi di euro, e ha aggiunto che «intende» centrare quell’obiettivo. Non è più una semplice previsione: c’è la volontà precisa di disperdere la nube di deflazione che è scesa sull’Europa. E di farlo anche comprando titoli di Stato, se è l’unica strada che resta per iniettare nell’economia quei mille miliardi di euro in più.
Quando nel giro di tavolo qualcuno dei banchieri centrali ha sollevato dubbi, Draghi non ha perso tempo. Ha subito messo quella modifica ai voti. Diciotto banchieri centrali su 24, lui incluso, si sono pronunciati a favore. Contro hanno votato il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, il governatore della Banca d’Olanda, Klaas Knoot, il loro collega estone, Ardo Hansson, oltre a tre componenti dell’esecutivo di Francoforte: la tedesca Sabine Lautenschläger, il lussemburghese Yves Mersch e il francese Benoît Coeuré. Quest’ultimo però ha poi fatto capire che non è contro l’aumento del bilancio e l’acquisto di titoli di Stato, il “quantitative easing”. Dunque per adesso la minoranza di contrari ai nuovi interventi, raccolta attorno a Weidmann, è di 5 contro 19 nell’organo della Bce che dovrà eventualmente varare un programma di acquisti di titoli di Stato.
È su questo sfondo che i banchieri centrali europei ieri hanno letto le dichiarazioni di Weidmann nell’intervista a Repubblica . Nelle riunioni interne e nei colloqui privati, del resto, il presidente della Bundesbank aveva ripetuto spesso idee simili: non dice che gli acquisti di Btp italiani o di Bonos spagnoli da parte dell’Eurotower sarebbero illegali; non aggiunge che voterà contro di essi; non nega che una decisione del genere possa essere presa a maggioranza semplice nel consiglio direttivo della banca; non contesta neppure l’efficacia del “quantitate easing” per cercare di risollevare l’inflazione in Europa a livelli che non deprimano i consumi e gli investimenti.
Weidmann solleva piuttosto un problema politico, per motivare quello che chiama il suo «scetticismo»: comprare titoli di Stato e sobbarcarsi in comune in Europa il rischio che questi facciano default è più difficile che negli Stati Uniti. Lo è perché i rating dei vari Paesi dell’area euro, ossia i giudizi dei mercati sulla solidità dei loro debiti, sono molto diversi fra loro. Grecia, Italia, Spagna o la stessa Francia sono più vulnerabili della Germania, la quale finirebbe dunque per farsi carico tramite la Bce dei pericoli creati dalla fragilità finanziaria degli altri. Fitch ha appena declassato Parigi, ormai vari gradini sotto Berlino. Standard & Poor’s ha messo l’Italia a un solo passo dal livello “spazzatura”. Il messaggio di fondo di Weidmann non è una chiusura ideologica agli interventi, se il livello dei prezzi crollasse ancora di più. Ma il segnale del banchiere tedesco è implicitamente più insidioso: la zona euro può restare intera solo a condizione che tutti i Paesi facciano la propria parte nel ridurre i debiti e diventare più competitivi. Lo scenario opposto, Weidmann non lo evoca neanche: ce n’è a stento bisogno, ora che i mercati tornano a muoversi nel timore che la Grecia sia il primo Paese a creare il precedente e uscire dall’euro.
In molti in Europa ieri hanno letto in quelle parole del banchiere centrale tedesco come l’apertura di una trattativa. Poiché il “ quantitative easing” è sul tavolo, con l’acquisto di (almeno) 500 miliardi di titoli di tutti i governi, allora la Germania — Bundesbank e governo insieme — vuole garanzie. Più serietà nei tagli di spesa, più velocità nel modificare gli ingranaggi del mondo dei lavoro. Più prove, non solo indizi e promesse, che l’Italia, il Portogallo, la Grecia o Cipro lavorano a pieno regime per non scivolare nell’insolvenza fra qualche anno.
Se questa è base del negoziato, sembra difficile che vada veloce come le circostanze richiedono. La deflazione accresce già il peso reale dei debiti e paralizza gli investimenti, non solo nel Sud Europa. A novembre l’indice dei prezzi era negativo (— 0,2%) in Francia, ancora prima di tenere conto dell’impatto del crollo delle quotazioni del petrolio. Nel frattempo i governi di Roma e di Parigi avanzano verso riforme che non possono che erodere ancora di più l’inflazione: la Francia iniettando concorrenza in certi mercati dei servizi, su iniziativa del ministro dell’Economia Emmanuel Macron; l’Italia con il Jobs Act e un’eventuale decentralizzazione dei negoziati sui salari subito dopo.
Senza la garanzia di una rete di sicurezza della Bce sull’inflazione, Parigi e Roma potrebbero rinunciare a muoversi. Ma senza garanzie da Roma e Parigi sulle riforme, la Germania può rendere il compito di Draghi molto più faticoso. Anche con una minoranza di cinque.
Federico Fubini, la Repubblica 14/12/2014