Fabio Poletti, La Stampa 14/12/2014, 14 dicembre 2014
Nel carcere delle Medee d’Italia “Qui nessuno viene mai a trovarle” Lo psichiatra: è terribile quando capiscono cosa hanno fatto Fabio Poletti Il nome è poetico, reparto Arcobaleno
Nel carcere delle Medee d’Italia “Qui nessuno viene mai a trovarle” Lo psichiatra: è terribile quando capiscono cosa hanno fatto Fabio Poletti Il nome è poetico, reparto Arcobaleno. Ma non è facile trovare vite colorate in quest’ala dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere vicino a Mantova dove sono rinchiuse per legge 64 donne delle quali 7 figlicide. Alle finestre non ci sono sbarre, nei corridoi non ci sono agenti, i medici sono senza camici. «Non ci sono celle. Le chiamiamo stanze. Facciamo di tutto perché queste donne stiano il più possibile insieme...», racconta il direttore Andrea Pinotti di questo non carcere dove le mamme hanno le chiavi della stanza, il proprio lucchetto all’armadietto, le cose stipate in ordine e qualche volta ben nascosta perché non si veda, la foto di quel figlio che hanno ucciso. Da qui è passata Loretta che senza sapere perché un giorno ha infilato il suo bambino in lavatrice ed è rimasto a guardare l’oblò per ore prima che la arrestassero. O B. che suo figlio che aveva tre anni lo ha abbracciato così forte ma così forte da togliergli il fiato. O Manuela che ha usato un coltello perché soffriva troppo a sentir piangere sua figlia. Donne in apparenza come tante. Ma sempre di più. Con una vita che troppe volte si cristallizza in quel gesto che nessun Tribunale riuscirà mai a spiegare con una sentenza che si accontenta di numeri, 10 anni di ospedale psichiatrico come minimo. «Il nostro lavoro inizia subito dopo. Un lavoro per cui ci vuole pazienza. Che a volte finisce molto prima dei 10 anni quando la paziente può finire in una struttura esterna all’ospedale». Una casa famiglia che mai è una famiglia vera. Perché non ci sono più né mariti né parenti attorno alle figlicide, reiette dal mondo libero e a volte in carcere, qui dentro accompagnate per mano a ritrovare almeno un simulacro di vita. Qualcuna si affida a don Giuseppe Baruffi il cappellano, ma lui dei giornalisti non si fida: «Lasciatele stare...». Altre sopravvivono con la chimica delle medicine e a volte soccombono alla violenza della contenzione. «In casi rarissimi, per evitare che si facciano male, le stanze di contenzione ci sono, mica le nascondiamo...», ammette i limiti della scienza Andrea Pinotti, psichiatra prima che direttore. Ma il lavoro più grande, quello che inizia un secondo dopo aver varcato l’abisso, lo fanno altri medici. Come la dottoressa Maria Grazia Missora che fa parte dell’équipe dell’Arcobaleno: «Abbiamo di fronte donne che hanno dentro di sé una sofferenza enorme. Ma non tutte sono subito consapevoli di quello che hanno fatto. Arrivarci è il momento più brutto per loro». La loro salvezza inizia allora. Dopo mesi e a volte anni come racconta Cristina Benazzi, un’altra dottoressa dell’équipe: «Ognuna ha una storia a sé. Ma c’è sempre del dolore nelle loro vite prima di fare quello che fanno». Quando lo riconoscono lo accettano. E per capirlo a volte basta che chiedano di rivedere il figlio che hanno ucciso, almeno in foto.