Francesco Semprini, La Stampa 13/12/2014, 13 dicembre 2014
“NOI, NELL’INFERNO DELLE PRIGIONI CIA ADESSO L’AMERICA CI CHIEDA SCUSA”
Amin al-Bakri e Sanad al-Kazimi sono due cittadini yemeniti, all’incirca coetanei, non si conosco l’uno con l’altro, ma improvvisamente nel 2002 i loro destini si intrecciano in un dramma che li accompagnerà per oltre dieci anni. Al-Bakri e al-Kazimi sono 2 dei 119 detenuti dei «black site» sottoposti a interrogatori «avanzati» dalla Cia, quelli di cui si rende conto nel rapporto della commissione Intelligence del Senato. Le loro voci giungono a pochi giorni dalla pubblicazione del dossier, per bocca del loro avvocato, Ramzi Kassem, professore di legge di City University of New York.
Il rapimento
«Il nostro è lo stesso copione, quello delle extraordinary rendition». I dettagli ce li spiega Kassem. Al-Bakri viene rapito dalla Cia mentre si trova in Thailandia per lavoro. «È un commerciante di gioielli, gira molto», ma con Al Qaeda o l’estremismo islamico non ha mai avuto nulla a che fare. E invece viene inghiottito dal buco nero creato dalla Cia per combattere il terrorismo. «Stessa sorte tocca ad al-Kazimi, - dice il legale - solo che lui viene fatto sparire mentre si trova negli Emirati Arabi».
Botte, privazione del sonno
«I nostri destini si incrociano nella Dark Prison». È così che i sopravvissuti chiamano Salt Pit, la prigione bunker afghana dove i presunti terroristi vengono sottoposti agli interrogatori «duri». «Al-Bakri e al-Kazimi vengono trasferiti in tutta fretta nel Paese, legati, incappucciati e percossi». Ma è solo l’inizio «perché ad attenderli è un lungo periodo di torture, sofferenze e vessazioni», ci dice il legale. «Un mix di tecniche sperimentate sulla nostra pelle», raccontano i due prigionieri nei colloqui. Privazione del sonno, percosse, immersione nell’acqua fredda, insomma il manuale degli orrori raccontato nel rapporto del Senato, applicato in tutta la sua poliedricità. Manca solo «waterboarding», «ma credetemi, - sottolinea Kassem - non che tutto il resto non provochi altrettante sofferenze». Segni incisi sulla pelle e nel cervello: «Schiena, ginocchia, testa: nulla era risparmiato».
A Guantanamo
«Cosa abbiamo fatto?». È l’interrogativo che tormenta i due cittadini yemeniti per tutto il tempo in cui vengono trattenuti a Salt Pit, e al quale non viene data risposta neanche dopo. Le torture durano due anni per al-Bakru, che viene poi trasferito a Bagram. Per al-Kazimi, la permanenza nella «prigione buia» è di dieci mesi, ad attenderlo è il carcere fortezza di Guantanamo, quello voluto da George W. Bush assieme alle commissioni militari per giudicare i nemici combattenti. «Le sofferenze non sono certo finite col trasferimento», e nemmeno l’attesa di sapere di quali colpe si siano macchiati i due «pericolosi individui». «Per al-Bakru non solo non è mai giunta un’incriminazione e tanto meno un processo, ma nemmeno abbiamo mai potuto sapere quale era l’accusa - dice Kassem -. Era un segreto di Stato». Per al-Kazimi invece c’era un «Factual Return», il documento che un governo deve presentare per giustificare la detenzione, e contenente in questo caso accuse generiche di simpatie o affiliazioni qaediste, in parte ottenute con dichiarazioni estorte coi «trattamenti» di Salt Pit. Anche per lui, però, nessuna incriminazione, nessuna provata colpevolezza.
Nessuna incriminazione
La vicenda di al-Bakri trova un epilogo lo scorso agosto, quando è liberato dopo che il suo caso viene portato dinanzi alla Corte Suprema. «Voglio solo riabbracciare la mia famiglia», ha detto prima di tornare in Yemen. Ma come ci spiega il legale il suo reinserimento è complicatissimo, i segni che si porta dietro sono profondi, quelli psicologici ancor più che quelli morali. Al-Kazimi è ancora nella prigione cubana, la sua vicenda è ora curata da un altro legale «ma si spera di arrivare alla sua liberazione». Nonostante la pubblicazione del rapporto, secondo Kassem e i suoi assistiti questo rischia di essere un giorno ancora più triste per l’America, «perché c’è un crimine, ci sono delle vittime ma non si hanno i criminali». L’amministrazione ha escluso che si possa procedere penalmente. «Civilmente è fuori discussione perché il Congresso ha approvato una legge che impedisce di promuovere cause dinanzi a organi giudiziari americani da parte di chi è stato detenuto a Guantanamo». Un messaggio però ci viene consegnato da al-Bakri, un messaggio rivolto a Barack Obama, e non solo: «Non voglio denaro, né risarcimento, vorrei solo che troviate il coraggio di chiederci scusa».
Francesco Semprini, La Stampa 13/12/2014