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 2014  dicembre 13 Sabato calendario

LA STORIA DEL MONDO ATTRAVERSO LE SUE FACCE

«Che cos’è?», chiede Hans Belting in Facce, la sua ammirevole indagine del volto umano. E risponde, con una chiarezza essenziale: «È il volto di ciascuno, ma è anche un volto tra altri volti, un volto che diventa tale solamente quando entra in contatto con altri volti». Nella sua lunga storia, la faccia acquisisce una molteplicità di significati psicologici e connotazioni simboliche che Belting indaga metodicamente, accompagnandoci dai primi rudimentali tratteggiamenti del viso ai sofisticati ritratti di epoche più recenti. Eppure, dopo le oltre trecento pagine di questo erudito saggio, la domanda rimane aperta: che cos’è una faccia? Non lontano dalla cima del Monte Purgatorio, seguendo Virgilio e Stazio, Dante raggiunge la Cornice dei Golosi, dove l’eccesso d’amore per le cose di questo mondo dev’essere espiato attraverso un’irrimediabile inedia.
Mentre i due poeti antichi parlano della loro arte, Dante, ormai mondato del peccato di orgoglio che lo aveva indotto ad accettare l’invito di Omero nel Nobile Castello, cammina mestamente dietro i suoi maestri.
I tre poeti sono accolti da una ressa di spiriti pallidi e silenziosi, con la pelle attaccata alle ossa, con gli occhi scuri e scavati come anelli senza gemme. Forse sono i discorsi di Virgilio e Stazio sulla poesia che fanno venire in mente a Dante che le cose sono metafore di se stesse, che nello sforzo di tradurre l’esperienza della realtà in linguaggio a volte vediamo le cose come le parole che le definiscono, e le fattezze delle cose come la loro scrittura incarnata. «Chi nel viso de li uomini legge “omo”», osserva Dante, «ben avria quivi conosciuta l’emme ». Pietro Alighieri, il figlio di Dante, nel suo commento alla Divina commedia sottolineava che l’immagine del volto che proclama letteralmente di essere un volto era ben nota all’epoca di Dante. Nella scrittura gotica, le O sono come occhi umani, mentre la M raffigura le sopracciglia e il naso. Tutto questo ben si accorda con la tradizione della Genesi in base alla quale tutte le creature portano il nome inscritto nel loro aspetto, e questo consente ad Adamo di identificarle correttamente quando Dio, subito dopo averle create, gli ordina di dar loro un nome.
La faccia è la nostra identità pubblica: dice al mondo chi siamo. La maschera, la faccia che imita una faccia, era chiamata in greco antico “persona”, come se per affermare la presenza di un individuo la sola cosa necessaria fossero le sue fattezze. Una presenza o un’assenza. I ritratti sui sarcofagi romani di Fayyum, le miniature che le vedove nel Rinascimento portavano al collo in segno di lutto, le fotografie color seppia dei cari trapassati sulle lapidi di marmo in Sicilia, attestano tutti la persistenza di questi ricordi del morto, ancora riconoscibile dagli occhi, dal naso, dalla bocca. Forse proprio perché il concetto del volto come identità appartiene a un immaginario universale gli iconoclasti di Bisanzio, i rivoluzionari durante il Terrore, le masse protestanti di Cromwell, hanno tutti diretto la loro furia annichilatrice contro le fattezze dei santi, venerati per superstizione, e dei nemici aristocratici, attraverso un gesto metonimico che cancellava la persona cancellandone il volto.
Questa intuizione forse ha una giustificazione fisiologica, che ci insegna che «Io sono» comincia con «Io non sono». Nei primi mesi della nostra vita, quando il mondo comincia a prendere forma in un sistema ordinato di segni dotati di un significato, salviamo dal guazzabuglio di immagini che si affastellano su di noi l’immagine di un viso. Il primo senso di identità del bambino piccolo (un’esperienza che gli esseri umani hanno in comune soltanto con elefanti, scimmie e delfini) viene dal vedersi in uno specchio e scoprire che questa faccia non è quella di chiunque altro. «Io non sono la faccia che sta sopra il seno che mi dà il latte», impara il bambino, «non sono la faccia che mi guarda preoccupata quando piango, non sono la faccia che ride con me quando sorrido. Sono un’altra faccia, una faccia tutta mia». Tutte le facce, reali o immaginarie, seguono questo processo. Il dottor Frankenstein conclude la costruzione del mostro solo dopo avergli dato una faccia adeguata all’eccezionalità della sua creatura. È questa faccia che Boris Karloff ha reso immortale nei film di James Whale, grazie all’abilità del truccatore Jack Pearce. Pearce si attenne rigorosamente alla descrizione di Mary Shelley: lì dove, secondo il romanzo, il dottore aveva inserito un cervello nella cavità del teschio preso da un morto, Pearce tracciò una lunga cicatrice spaventosa; e diede alla pelle quel pallore cadaverico raccontato dalla Shelley usando – visto che si trattava di un film in bianco e nero – la vernice verde. Per segnalare la sorgente elettrica che aveva portato in vita il mostro, Pearce inserì due bulloni sui lati del collo della creatura, che fungevano da orribili elettrodi. Questa faccia mostruosa, piena implicitamente dei frammenti delle moltitudini smembrate da cui il dottore aveva preso le varie componenti, era quasi troppo grande per essere vera: come la faccia nell’ Uomo che fu giovedì di Chesterton, fa venire il timore che se dovessimo avvicinarci troppo «la faccia sarebbe troppo grande per essere possibile». La faccia enorme del Mostro è il contrario della faccia svuotata di Greta Garbo, che fissa il mare intorno a lei ne La regina Cristina.
Il regista Rouben Mamoulian aveva detto alla Garbo che voleva che in quella scena «si svuotasse di ogni emozione, non pensasse a nulla». Gli spettatori riempiono quel volto classico, sgombrato di qualsiasi cosa, con i loro desideri e le loro paure.
In definitiva, noi cerchiamo conferma dell’esistenza nel volto visto, intuito o immaginato, come il pellegrino croato nel Paradiso , che dopo aver visto il velo della Veronica esclama: «Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace/ or fu sì fatta la sembianza vostra? ».
Ogni mattina nello specchio riceviamo una rassicurazione simile. Se crediamo o meno nella sua modesta supposizione dipende dalle nostre aspettative , dalla nostra memoria, dalla nostra capacità di rassegnarci all’evidenza delle cose viste.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Alberto Manguel, la Repubblica 13/12/2014