Giuseppe Videtti, la Repubblica 13/12/2014, 13 dicembre 2014
LA MIA AFRICA”
[Fiorella Mannoia] –
L’impegno con Amref – la principale organizzazione sanitaria no profit del continente africano che opera dal 1957 – ha cambiato le sue prospettive e rafforzato le sue convinzioni. «Sono andata in Africa, in Benin, mi hanno fatto Cavaliere del panafricanismo,», racconta Fiorella Mannoia, appollaiata su uno sgabello nella luminosa cucina del suo appartamento romano. «Ho provato una rabbia enorme, un senso di impotenza e di frustrazione di fronte a un mondo che spende per la morte e mai per la vita. Un pozzo costa pochissimo, tremila euro; se avessero l’acqua riuscirebbero anche ad arginare l’ebola. Mandano eserciti anziché mandare dottori. Poi ci lamentiamo se affollano i barconi, ma dove altro dovrebbero andare? Mi terrorizza questa perdita di compassione.
Compassione è la parola più bella del vocabolario. Guardi come trattiamo i nostri fratelli immigrati, nessuno approfondisce, nessuno si chiede il perché. Ho visto con i miei occhi: se gli dai un pozzo non costringendo le donne a maratone estenuanti per dissetare la famiglia trasformano la terra arida in un orto; se crei un ambulatorio o un’ostetricia itinerante, salvi centinaia di vite regalando un futuro a un intero continente. L’obiettivo aiutare l’Africa a non avere più bisogno di noi, di quell’Occidente che, complice il dittatore di turno, l’ha sfruttata. La fame uccide molto più dell’ebola ma non se ne occupa nessuno perché non è contagiosa, i ricchi non la prendono».
Riflette: «Non è possibile essere un artista facendo finta di nulla. Per dare un senso alla vita, non si può essere indifferenti. A vent’anni potevo anche isolarmi pensando alla carriera, a sessanta no. Con l’età si diventa meno tolleranti, non vuoi sprecare tempo né frenare la lingua».
In questi anni difficili le sembrerebbe un delitto pretendere di più dalla vita e non riconoscere i privilegi della sua condizione. Lo dimostra giorno per giorno nella pagina Facebook che alimenta con i suoi pensieri, simpatizzando col M5S e fustigandolo quando sbaglia, sbraitando contro l’insensata guerra della Lega ai migranti. «Il fatto di essere un’artista schierata è punitivo», ammette. «Insulti, insulti, insulti. Ma questo è quel che sono, coerente con quel che canto, prendere o lasciare. Non si possono accontentare tutti; oggi, a sessant’anni, devo dire quel che mi pare. Sognavamo di cambiare il mondo, ma non abbiamo cambiato un granché. Guardi dove siamo. Almeno una volta scendevamo in strada a esprimere il nostro dissenso. Oggi i ragazzi si sfogano su Internet, s’insultano attraverso i blog. Poi tutto resta lì, non ha un seguito. Se la rabbia che circola in Rete sfociasse anche in strada, le piazze sarebbero intasate di manifestanti. Questa crisi ci ha bruscamente riportato all’essenziale, nel bene e nel male. Dobbiamo ridare giusto valore alle cose che ci stanno portando via. L’arte si alimenta di contemporaneità e oggi siamo in piena decadenza, l’Occidente è imploso. Si vuol far passare l’idea che la cultura è una perdita di tempo. E l’arte ne fa le spese. Non c’è più un Fellini, non c’è un De André, il linguaggio si è alleggerito. Oggi ci sembrano bellissime le canzoni che una volta definivamo carine».
Quando si affacciò nel mondo della canzone, anche la discografia faceva boom. Non c’erano scuole né reality, solo talento naturale, caparbietà e un pizzico di fortuna. «Esordii quattordicenne a Castrocaro con una canzone di Celentano ( Un bimbo sul leone, che ricanta con Adriano nell’ultimo cd), poi con una sfilza di insuccessi, ma la Rca credeva in me, e mi stipendiava, 120mila lire al mese, che non erano tanti soldi ma bastavano per pagarmi le bollette e evitare di andare a fare la commessa per sbarcare il lunario», ricorda. «C’era qualcuno che investiva su di noi, la gavetta non era così penosa. Ci sono artisti che hanno aspettato anche dieci anni prima di farsi notare, pensi a Lucio Dalla. Oggi non ci sono più né soldi né tempo. Vali qualcosa solo finché garantisci l’ascolto in tv, poi avanti il prossimo. Questi poveri ragazzi non hanno il tempo di crescere, di maturare. Pochi mesi e se non funzioni, a casa. Un altro motivo per dire a me stessa e ai miei colleghi: nella vita bisogna sapersi accontentare. Dalle Alpi alle Piramidi ormai è solo un passo; l’Africa è sotto i nostri piedi ma non dobbiamo calpestarla, confrontarsi con le popolazioni svantaggiate è importante quanto la scuola dell’obbligo».
Col successo che ha avuto, in quasi mezzo secolo di carriera, avrebbe potuto giocare astutamente con la sua immagine, farsi e rifarsi, mostrarsi divina, altera, irraggiungibile, fatale. Invece eccola, splendida natural woman, single e battagliera, senza rimpianti — poco trucco intorno a quegli occhi turchini pieni di scintille. E un motto che alle pop star suona come una bestemmia: nella vita bisogna accontentarsi. «Figli? Mi è mancato quando, come tutte le donne, passati i trentacinque anni, senti che la saracinesca si sta chiudendo», racconta serenamente. «Ci ho provato, non sono venuti. Nessun percorso alternativo, ho pensato che in fondo dalla vita ho avuto tutto, sono una donna fortunata. Me ne sono fatta una ragione, si vive bene anche senza. Per me i neo genitori — almeno quelli consapevoli — sono dei resistenti, un esercito in continua allerta pronto a far fronte agli attacchi della televisione, alle insidie di Internet, della pedofilia, del bullismo; quanti sforzi solo per evitare che la società li trasformi in cretini, potenziali tronisti. Anche per questo apprezzo la mia condizione di privilegiata, non mi lamento mai, non sono mai stanca; detesto quelli che fanno il nostro mestiere e stanno sempre lì a piagnucolare. Ma quale fatica, ma quale stress! C’è gente che si alza all’alba e rientra a notte fonda, c’è chi lavora al freddo e al gelo e chi affronta climi disumani. Ho avuto tanto dalla vita, più di quanto avrei potuto immaginare. Non ho diritto di lamentarmi. Questo mi aiuta a vivere bene, a superare le ansie, a schivare le insidie dello star system. Ma sa che ci sono ancora cantanti che fanno il diavolo a quattro perché non trovano il vino in fresco in camerino?».
Sarà anche una che si accontenta, ma quando si tratta di canzoni è esigentissima; nel suo repertorio solo firme prestigiose, come conferma nel doppio album Fiorella, zeppo di ospiti, Fossati in testa. «Era un duetto insperato, visto che Ivano ha deciso di farla finita con la musica», confessa. Si emoziona ripensando all’intensità della loro riedizione di C’è tempo, il capolavoro del cd. Sbotta: «Fortuna che riusciamo ancora a commuoverci, al diavolo tutto il resto».
Giuseppe Videtti, la Repubblica 13/12/2014