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 2014  dicembre 13 Sabato calendario

“IL CECATO È IL RE DI ROMA” QUELL’INCHIESTA NATA DA UNA SOFFIATA IN STRADA

Quando abbiamo cominciato a raccontarlo su l’Espresso nessuno voleva credere che il “re di Roma” fosse lui, Massimo Carminati. Confesso che anch’io all’inizio ero incredulo. Sono state le mie fonti, che conoscono direttamente i fatti criminali, a parlarmi del “cecato”, di questo ex estremista di destra. Con le fonti, di cui ho verificato a lungo l’attendibilità, ho stretto un patto: garantire l’anonimato.
Carminati lo ricordavo imputato al processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, accusato insieme ai mafiosi siciliani di averlo ucciso. I giudici lo hanno assolto assieme con Giulio Andreotti. Insomma, non immaginavo di trovare a capo di questa nuova organizzazione criminale il “nero”. Ho un ricordo chiaro della scena in cui le fonti hanno svelato la sua identità, perché mi ha colpito il modo in cui lo hanno detto, anzi prima lo hanno mimato: gesticolavano, in silenzio; poi con una mano si sono tappati l’occhio, alla fine hanno pronunciato con tono di voce basso, quasi impercettibile quel nome, Carminati. Nonostante il posto sicuro in cui ci trovavamo per parlare, avevano paura di lui. Per spiegare il motivo di quel terrore raccontavano retroscena criminali di violenza esercitata dal “Cecato”. Ripetevano che Carminati non aveva paura di nessuno, si sentiva protetto e immortale: «Aveva visto la morte in faccia e l’aveva sconfitta». Ecco perché tra i criminali romani era diventato un capo da rispettare.
L’occhio lo ha perso durante uno scontro a fuoco con un poliziotto. E così, fino a quasi tre anni fa per me Carminati non era altro che un personaggio ambiguo della malavita che aveva trovato posto in “Romanzo criminale” come il “Nero”.
A quel punto ho dovuto approfondire la conoscenza, ho fatto ricerche negli archivi giudiziari e in quelli di redazione, ho compulsato più volte le mie fonti per cercare di capire meglio il personaggio. E ogni giorno tutto mi appariva più chiaro. Mi sono trovato davanti un nuovo criminale, uno che era riuscito a trasformare una banda di accattoni in una organizzazione che ha come unico scopo il business e la corruzione. Per ottenerle usava la violenza e l’intimidazione. Bastava che qualcuno pronunciasse il suo nome per far calare il gelo. Adesso che i carabinieri del Ros di Roma lo hanno arrestato tutti ne parlano, tutti ricordano. Ma fino a due anni fa, quando l’ Espresso decise di metterlo in copertina, nessuno, almeno apparentemente, si sconvolse nel mondo della politica. Oggi che sono note le intercettazioni capisco il motivo.
Perché due anni fa Carminati me lo rappresentavano come arbitro di vita e morte: dai traffici sulla strada agli accordi negli atti dei Parioli. Unica autorità, in quel periodo, in grado di guardare dall’alto ciò che accadeva a Roma. È stata la curiosità giornalistica a spingermi ad approfondire la conoscenza di quest’uomo per meglio descriverlo ai lettori e quindi l’ho osservato: Massimo Carminati sembrava un piccolo borghese, vestito in modo casual, ma ogni volta che qualcuno lo incontrava si capiva subito — dalla deferenza e dal rispetto che gli tributavano — che fosse «persona di riguardo». Mi sembrava di assistere a scene che avevo visto in Calabria e in Sicilia, quando i boss camminavano per le strade dei paesi. E lui ne era consapevole. Mi faceva impressione il fatto che utilizzasse spesso telefoni pubblici per chiamare: si fermava improvvisamente per strada, afferrava la cornetta in una cabina e chiamava. Sapeva di non potersi fidare dei cellulari, perché intercettati, ma con questo modo di fare appariva come un latitante di mafia braccato dagli investigatori.
Poi sono arrivati gli altri nomi dei capi clan che si dividono la Capitale. I 4 re di Roma: Michele Senese, Carmine Fasciani e i Casamonica. Ma il vero re di Roma resta però Carminati. E come mi raccontava chi lo ha conosciuto direttamente “sarà pure re, ma di nobile non ha nulla”, perché pensava solo ai soldi, alla violenza e alla corruzione.
Nell’indagine giornalistica ho scoperto altri nomi che formavano un mondo composto da vecchi personaggi criminali, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Eccolo il «mondo di mezzo» che oggi è emerso dalle intercettazioni dell’inchiesta del procuratore Giuseppe Pignatone, coordinata dai pm Michele Prestipino, Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli.
Il racconto delle mie fonti mi ha fatto percepire il potere che aveva preso il controllo di Roma. Un controllo criminale diverso da come lo si può intendere a Palermo o Reggio Calabria. Tra questi «criminali- organizzati» emergevano estremisti di destra di due generazioni. Ma il nome-chiave è sempre rimasto quello di Carminati, in grado di fare da collante tra i clan: tutti lo ascoltavano. Per questo motivo all’epoca mi spiegarono, e lo scrissi, che «i 4 re di Roma» avevano raggiunto un accordo a inizio 2012 che prevedeva: niente più omicidi di mafia nella Capitale, e cioè dentro il Grande raccordo anulare. In questo modo le forze dell’ordine non si sarebbero potute muovere in nuove indagini e il business illegale non avrebbe subito ripercussioni. Il patto era stato siglato dopo che i boss avevano appreso dell’arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone. Avevano paura della sua azione giudiziaria, così come aveva fatto a Reggio Calabria contro i clan della ‘ndrangheta. Adesso le indagini, grazie alle intercettazioni, hanno svelato il «mondo di mezzo», dando scacco ai «re di Roma».
Lirio Abbate, la Repubblica 13/12/2014