Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 13 Sabato calendario

“CARO DRAGHI, È SBAGLIATO ACQUISTARE TITOLI DI STATO È UN INVITO A INDEBITARSI L’ITALIA SIA RESPONSABILE”

[Intervista a Jens Weidmann] –
FRANCOFORTE.
«Il governo italiano sa cosa deve essere fatto, e giustamente ha preso iniziative; a fronte dell’alto debito, il consolidamento del bilancio è importantissimo». «L’acquisto di titoli sovrani nell’eurozona (valutato e non escluso dal presidente della Bce Mario Draghi ndr) va giudicato diversamente che in altre aree monetarie: Usa e Giappone sono Stati unitari con un’unica politica finanziaria, in Europa abbiamo una politica monetaria comune ma con 18 Stati, politiche finanziarie indipendenti e rating sui debiti sovrani ben diversi, e in questo caso si può creare un incentivo a indebitarsi di più scaricando le conseguenze sugli altri». «Se anche un solo Paese tra Italia, Francia e Germania non sarà all’altezza della propria responsabilità, avremo tutti un problema». Ecco alcuni dei decisi messaggi che il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, lancia in questa prima intervista esclusiva a Repubblica e ad altri due grandi giornali europei.
Signor presidente, l’Italia versa in una situazione difficile: debito in rapporto al Pil aumentato dalla recessione, rating crollato a BBB-, crescita di proteste e spinte populiste persino fino alla tentazione di uscire dall’euro?
«Primo, un’uscita dall’euro, presunta via di scampo, mi sembra il tentativo d’imboccare una pericolosa scorciatoia, che alla fine conduce in un vicolo cieco. Il passato ci ricorda che la svalutazione della valuta nazionale non rafforza in modo sostenibile la competitività d’un paese. Contano invece riforme che rafforzino i potenziali di crescita. Per esempio, abbattere le barriere contro l’accesso al mercato o gli ostacoli sul mercato del lavoro. Anche le privatizzazioni aiutano: sono un importante elemento del consolidamento del bilancio e di regola le aziende privatizzate alla fine sono più efficienti di prima».
Secondo lei cosa fa bene l’Italia, e cosa dovrebbe fare meglio?
«Io penso che il governo italiano sappia molto bene che cosa deve essere fatto, e giustamente ha preso alcune iniziative. A fronte dell’alto debito sovrano, naturalmente, il consolidamento del bilancio è di un’importanza speciale».
Come giudica il Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro?
«Condivido l’opinione del vostro ministro dell’Economia: la riforma è un passo molto importante. Adesso deve essere anche tradotta in pratica. Un elemento importante in questo senso sono i cambiamenti nelle leggi di tutela del posto di lavoro, che comunque devono riguardare i nuovi contratti di lavoro ed esentare invece i contratti preesistenti».
Ma Roma vorrebbe più spazio di manovra per gli investimenti. Che ne pensa?
«Non è possibile rispondere a questa domanda prescindendo dalla realtà attuale: l’Italia ha già un altissimo debito pubblico. Un rinvio del consolidamento non farebbe che rinviare i problemi, che in tal modo non farebbero che crescere. Anche in passato abbiamo visto quanto poco tempo occorra perché un tentativo di combattere il debito contraendo altri debiti metta alla prova oltre misura la fiducia dei mercati finanziari. In questo senso, è decisivo varare una politica di consolidamento credibile. Se si ritiene necessario avere un maggior margine di manovra per investimenti, tale margine dovrebbe essere conseguito con una revisione delle priorità nel bilancio».
Renzi e Hollande, anche a fronte di problemi e tensioni sociali, chiedono più flessibilità nell’ambito del Patto di stabilità e crescita. Secondo lei cosa significa più flessibilità entro i limiti del Patto?
«Di regola, esiste sempre una contraddizione tra flessibilità e credibilità. Se una regola viene interpretata in modo troppo flessibile, alla fine non è più vincolante. E allora la regola non offre più margini d’azione attendibili e non serve a creare fiducia. Naturalmente esiste sempre un certo margine di manovra nell’interpretazione e applicazione delle regole. Ma abbiamo riformato le regole del Patto prima di tutto per riconquistare al più presto la fiducia nella solidità delle finanze pubbliche perduta nel corso della crisi. É dunque importante interpretare le regole in modo piuttosto restrittivo».
Però la linea del rigore suscita ovunque diffusi sentimenti anti-tedeschi: “i tedeschi sono i cattivi, vogliono dettarci ogni scelta”. Che ne pensa, non è preoccupato?
«Visitando Italia o Spagna non colgo sentimenti anti-tedeschi. La crisi nell’eurozona però ha certamente causato una crescita delle posizioni eurocritiche in parte delle opinioni pubbliche: in Paesi sottoposti a programmi di aiuto si coglie la sensazione che la politica venga decisa altrove, per esempio attraverso la Troika. Nei Paesi che concedono crediti c’è al contrario il timore di venire imbrogliati e di dover pagare i costi di decisioni altrui. È compito di tutti i responsabili politici agire contro questi umori e sentimenti, spiegando la necessità delle scelte e fornendo prospettive per il futuro. Ogni Paese è responsabile del buon funzionamento dell’unione monetaria, la Banca non può fare tutto da sola».
Insisto, non teme la crescente popolarità dell’idea di lasciare l’euro?
«Io sono convinto che non sarebbe nell’interesse dell’Italia. L’Europa è interessata ad avere un’Italia forte nell’Unione monetaria. Ma questa forza, alla fine, può essere creata solo dall’Italia stessa».
La crescita dei sentimenti ostili alla politica rigorista tedesca e alla Germania non le fa preferire un euro a due velocità o un’Unione più piccola?
«Io non la vedo così. La creazione dell’Unione monetaria è stata una decisione politica nella quale oggi ci si identifica chiaramente. Ma con l’ingresso nell’Unione monetaria era chiaro fin dall’inizio agli Stati membri che esiste una crescente responsabilità politica, la quale richiede a tutti di soddisfare in modo durevole le premesse della membership nell’Unione stessa. Nella nostra casa comune europea le specificità nazionali vengono rispettate, ma proprio per questo chiunque vi abita deve essere conscio e all’altezza delle sue responsabilità».
Ma la Bce non sembra unita: va verso decisioni a maggioranza contro la Germania?
«Noi tutti nel Consiglio Bce — il Presidente, e tutti gli altri membri — abbiamo interesse a prendere decisioni con il consenso più ampio possibile. Ma naturalmente l’unanimità non è condizione vincolante. Ci siamo comunque trovati uniti nell’ultimo Consiglio di dicembre, nella scelta di attendere e valutare gli effetti delle nostre decisioni».
Non le sembra che il tempo stringa?
«Non vedo questa urgenza, e la politica monetaria fa sempre bene a non lasciarsi mettere sotto pressione. Secondo le nostre prognosi, il tasso d’inflazione, ora molto basso nell’eurozona, nel breve periodo scenderà ancora per poi risalire ma lentamente: a fine 2016 sarà di appena l’1,4%. Il Consiglio punta a che l’aumento dei prezzi a medio termine sia meno del 2%. Ma la bassa inflazione è da ricondurre al forte calo dei prezzi energetici. Situazione ben diversa da una spirale negativa salari-prezzi. Il calo dei prezzi energetici è come un piccolo programma di aiuti per la congiuntura: rafforza il potere d’acquisto dei consumatori, accresce gli utili delle aziende. Quindi non c’è necessità vincolante di reagire».
Draghi è per l’acquisto di titoli sovrani, lei è contro. Compromesso possibile?
«Il Consiglio Bce non è un Comitato centrale in cui sia ammessa un’opinione sola. E non c’è un clima “Weidmann contro Draghi”. Su molti punti siamo d’accordo, anche sul fatto che l’attuale situazione di politica monetaria è una sfida. Discutiamo su se e come reagire. Sappiamo tutti che l’acquisto di titoli sovrani nell’eurozona è da valutare diversamente che in altre aree valutarie. Paragoni con Giappone o Usa sono troppo frettolosi: là c’è uno Stato centrale con una politica finanziaria unitaria, in Europa accanto alla politica monetaria comune abbiamo 18 Stati con politiche finanziarie indipendenti e rating e situazioni di debito ben diversi. Ciò crea tentazioni di indebitarsi di più e scaricare le conseguenze sugli altri. Per questo i Trattati Ue vietano la messa in comune dei debiti sovrani nazionali. Quindi l’acquisto di titoli sovrani sui mercati secondari da parte dell’Eurosistema va giudicato in modo critico, sebbene non sia vietato. La soglia deve essere più alta che in altre aree monetarie».
Lei è contro un programma di “quantitative easing”, ma qual è l’alternativa?
«L’acquisto di titoli sovrani presenta problemi speciali in un’unione monetaria, non è uno strumento qualsiasi. È noto che guardo all’ipotesi con scetticismo. Prendo sul serio gli argomenti a favore di decise azioni. Ma a mio avviso la politica monetaria nell’eurozona non è giunta al punto in cui in un programma di “quantitative easing” i vantaggi sarebbero superiori ai costi. Ritengo preferibile lasciare che le misure già varate mostrino i loro effetti, e osservare come la ripresa va avanti, come si sviluppano i prezzi. E poi si pone la questione di come attuare concretamente un programma di quel genere. Se per esempio titoli sovrani di basso rating venissero acquistati, rischi di politica finanziaria verrebbero messi in comune dalla Banca centrale, aggirando governi e Parlamenti».
Che cosa è compatibile col mandato della Bce e che cosa no?
«L’eurosistema non agisce nel vuoto: i Trattati Ue gli danno un quadro giuridico e il chiaro dovere di garantire la stabilità dei prezzi. L’in- dipendenza delle Banche centrali in democrazia è caso speciale e premessa importante della stabilità dei prezzi. A condizione di rispettare i confini del mandato. Esistono zone grigie tra politica monetaria e finanziaria. Nel dubbio, io sono per un’interpretazione ristretta del nostro mandato. E gioca un ruolo anche il nostro rispetto verso governi e Parlamenti».
Ma la crescita rallenta anche in Germania, con conseguenze in Italia, Spagna e altrove, e allora?
«Tutti i paesi dell’eurozona sono strettamente interconnessi. Capisco che i nostri partner abbiano interesse a una forte economia tedesca. La Germania economicamente sta bene, le prospettive sono stabili. Gli ultimi dati trimestrali sono deboli, ma l’occupazione è ai livelli massimi, la disoccupazione molto bassa, i salari reali crescono molto, e la fiducia dei consumatori ci rafforza. L’anno prossimo il Pil dovrebbe tornare a una crescita più forte».
Ma Commissione europea, l’Fmi, gli imprenditori tedeschi chiedono più investimenti pubblici, che risponde?
«A lungo termine andiamo verso un basso trend di crescita tedesco. Dipende dallo sviluppo demografico, ma il problema può essere fronteggiato. Il potere politico deve ancora fare qualcosa, per esempio nel campo delle pensioni. Gli investimenti pubblici nelle infrastrutture dovrebbero essere rafforzati, ma non finanziati da nuovi debiti, bensì da ridistribuzioni nel bilancio. Lo sviluppo demografico deve metterci in guardia dal caricare nuovi debiti sulle spalle delle generazioni future».
Non teme che a fronte di divergenze politiche e strategiche così profonde, l’euro diventi un esperimento fallito?
«Io mi batto perché l’euro sia e resti una valuta stabile. Ci sono due vie: la prima è andare verso un’unione fiscale, con gli Stati dell’eurozona che delegano parte dei loro diritti sovrani di bilancio a livello europeo, ma alla nascita dell’euro una tale rinuncia alla sovranità non era maggioritaria. E temo che anche oggi l’idea non sia più popolare di allora. Se la via di un’unione fiscale è negata, dobbiamo lavorare nel contesto attuale in cui gli Stati dell’eurozona sono responsabili delle loro politiche fiscali. Per questo le regole nel Patto di stabilità e crescita sono state rese più severe, esiste il dovere di garantire la competitività del proprio sistema economico, è stata creata l’Unione bancaria».
Ma Commissione Ue, Fmi, amministrazione Obama, tutti chiedono che la Germania faccia di più. Possibile che tutti si sbaglino?
«La Germania, è vero, dovrebbe fare di più per la crescita. Ma non ha bisogno d’un fuoco di paglia congiunturale. E inoltre più investimenti tedeschi, ad esempio nelle infrastrutture, avrebbero conseguenze ben limitate nel resto dell’eurozona».
La Bce appare la più forte istituzione europea, allora chi se non la Bce deve agire contro la crisi?
«Non dobbiamo forse preoccuparci di questa visione? Le Banche centrali non sono governi paralleli. La politica europea deve essere fatta da Parlamenti e governi, e la risposta ai problemi non può essere sempre dare nuovi compiti alla Bce».
La Commissione ammonisce Italia e Francia ma senza aprire procedure. Che ne pensa?
«Con la riforma delle regole fiscali del Patto il ruolo della Commissione quale arbitro è stato rafforzato. Mi sarei aspettato decisioni più chiare. É sbagliato dare l’impressione che le regole sono sempre negoziabili e il consolidamento sempre rinviabile. Il nostro obiettivo deve essere restituire solidità alla fiducia nelle finanze pubbliche nell’eurozona. E una responsabilità speciale per la credibilità delle regole concordate insieme spetta ai paesi maggiori quali Italia, Francia o Germania. Se uno solo di questi Paesi non sarà all’altezza della propria responsabilità, avremo tutti un problema».
Un punto personale: come descrive il suo rapporto con Mario Draghi?
«Mario Draghi e io non siamo sempre della stessa opinione, ma condividiamo molti punti di vista e abbiamo un buon rapporto di lavoro. Ci telefoniamo spesso e ci incontriamo anche a quattr’occhi per scambiarci idee».
Andrea Tarquini, la Repubblica 13/12/2014