Luciano Mondellini, MilanoFinanza 13/12/2014, 13 dicembre 2014
IMPENNATA CHAMPIONS
La forza economica dei club è sempre più importante nel determinare vittorie e sconfitte sui campi di calcio del Vecchio continente. Ma, complice la rivoluzione imposta dal presidente dell’Uefa Michel Platini alla Champions League (i turni di spareggio estivi favoriscono la qualificazione alla fase a gironi più dei campioni nazionali di Paesi dell’Est piuttosto che delle terze o quarte classificate nei Paesi occidentali) il panorama calcistico europeo sembra meno cristallizzato di quanto si potrebbe pensare. Almeno questo è quanto emerge dalla chiusura della fase a gironi della massima competizione continentale per club. La chiusura oligarchica, semmai, sembra più stringente man mano che si avanti nei turni successivi.
Il completamento della fase a giorni della Champions League, avvenuta mercoledì 10 dicembre, ha infatti sentenziato che delle 16 squadre che ancora ambiscono alla vittoria finale, quattro (Basilea, Shakhtar Donetsk, Monaco e Porto) non rappresentano colossi né dal punto di vista sportivo né da quello commerciale. Tanto che non entrano nemmeno nella classifica, stilata dalla rivista specializzata Brand Finance, dei 50 marchi più influenti nel mondo calcistico (nella tabella in pagina le prime 26 squadre). MF-Milano Finanza ha scelto questa graduatoria invece che quella dei meri fatturati o della redditività dei vari club, in quanto solo l’importanza del brand sintetizza in una sola voce la solidità finanziaria di un sodalizio, il suo numero di tifosi in tutto il mondo e il suo albo d’oro nel corso delle stagioni passate. In poche parole il valore del brand può rappresentare un proxy di cosa significa un determinato sodalizio nel mondo del calcio. In questo mix di fattori è così plausibile che il Manchester City, sostenuto dalle infinite risorse finanziarie degli sceicchi di Abu Dhabi ma che non ha mai vinto nemmeno una Coppa dei Campioni, possa rappresentare un brand di valore superiore a quello di Inter e Milan, che pur avendo fatto la storia di questa competizione sino a qualche stagione fa, stanno ora attraversando un periodo complicato sia sul lato sportivo che su quello del bilancio. Con la stessa logica, per converso, è anche intuibile perché il Liverpool, dall’alto delle sue cinque Coppe dei Campioni e il mito di Anfield Road e di Bill Shankly (il celebre coach degli anni Sessanta che diede inizio al miti dei Reds), possa tuttora contare su un brand di valore superiore a quello del Paris Saint Germain, anch’esso nella mani degli sceicchi del Golfo e dalle risorse finanziarie illimitate che gli garantiscono campioni del calibro di Zlatan Ibrahimovic.
In questo quadro il fatto che il 25% delle squadre che tuttora possono salire sul trono d’Europa in maggio non sia compreso tra le 50 con il brand più influente sembra sconfiggere uno dei mantra più ripetuti nel calcio moderno. Tanto più che a rafforzare l’impresa di questi quattro club c’è il fatto che nella Top 30 di Brand Finance ci sono club non molto conosciuti al di fuori dei loro confini nazionali. L’Aston Villa è sicuramente un club dal passato glorioso (vinse la Coppa Campioni nel 1981) ma il suo cammino ha incontrato stagioni anonime negli ultimi decenni. Per non parlare del West Ham United, club dei sobborghi orientali di Londra dall’albo d’oro non certo splendente e di cui è difficile trovare un tifoso al di fuori dell’East End della capitale inglese.
Inoltre va considerato che il brand del Fulham, che occupa l’ultima posizione nella Top 50, ha un valore stimato di 49 milioni di dollari, ovvero oltre 18 volte in meno rispetto a quello del Bayern capolista. Ciò significa, insomma, che Basilea, Shakhtar, Porto e Monaco hanno addirittura scarti superiori rispetto al club bavarese con cui dovranno competere nella prossima primavera.
Come si diceva, la rivoluzione imposta da Platini alla formula degli spareggi estivi ha certamente aiutato questa situazione. Il nuovo sistema fa incrociare negli spareggi estivi spesso le formazioni che hanno ottenuto l’ultimo posto disponibile per la Champions nei campionati più prestigiosi (ad esempio quarti in Spagna o terzi in Italia) riservando sorteggi meno impegnativi per i campioni nazionali di federazioni meno importanti. Il risultato complessivo è che nella fase a gironi della massimo competizione europee si qualificano meno squadre occidentali (quest’anno ad esempio c’è stato lo spareggio tra il Napoli e l’Athletic Bilbao), quelle che per tradizione e storie sono quelle che hanno fatto la storia del calcio del Vecchio continente. Con l’inevitabile conseguenza che sono questi club quelli che hanno i brand con il valore più importante.
In questo scenario è evidente che le opportunità di entrare nelle élite del calcio per le squadre minori si vadano via via riducendo man mano che la competizione prosegue. Se infatti a livello di ottavi di finale, quindi delle top 16, si nota un certo turnover, l’ingresso di un outsider nel gotha diventa complicato o quasi impossibile nei quarti, ovvero nelle migliori otto. È in questo turno, infatti, che la differenza nei ricavi e nella potenza economica si fa sentire. Basti pensare che 11 delle 16 qualificate sono le stesse che un anno fa si erano qualificate agli ottavi (Schalke 04, Real Madrid, Barcellona, Arsenal, Bayern, Manchester City, Borussia Dortmund, Atletico Madrid, Bayer Leverkusen, Chelsea, Paris Saint Germain).
Non a caso la Juventus , in cerca del rilancio internazionale, ha fissato come obiettivo di questa stagione nelle coppe la qualificazione ai quarti di finale della Champions. Il presidente, Andrea Agnelli, e tutto lo staff del club torinese sanno benissimo che è l’ingresso nelle migliori otto d’Europa, e non nelle migliori 16, che sancisce l’entrata oppure no di un club nel gotha del calcio internazionale insieme a club come Barcellona, Real Madrid o Bayern.
Luciano Mondellini, MilanoFinanza 13/12/2014