Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 13 Sabato calendario

È VERO, LE BANCHE DEL MALAFFARE NON SONO CERTO QUELLE ITALIANE, MA I BANKSTERS CI SONO, E IN USA HANNO COMINCIATO A BASTONARLI

Ieri Italia Oggi ha pubblicato una lettera di Gianfranco Torriero, vice direttore generale dell’Abi (Associazione delle banche italiane), in cui - citando un mio articolo - si afferma che «il mondo bancario italiano non ha nulla a che spartire con i banchieri gangsters». L’esistenza di questi ultimi in altri Paesi non viene tuttavia messa in discussione, anzi il dottor Torriero ne precisa l’area del malaffare, spiegando che i «banksters sono i protagonisti degli scandali e dei relativi patteggiamenti per la manipolazioni degli indici, dei cambi, dei derivati sui mercati, che si sono verificati in questi anni e portati solo tardivamente alla luce da supervisori distratti». Scandali, aggiungiamo noi, che si sono verificati soprattutto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania.
Del tutto condivisibile è poi la chiusa della lettera, in cui il dottor Torriero si augura «una maggiore severità» verso i banchieri del malaffare, essendo evidente che per i banchieri rispettosi delle regole è difficile reggere la concorrenza dei banksters, che le calpestano di continuo. Tra le due categorie, vi è la stessa differenza che corre tra un’impresa che paga le tasse e fattura tutto in chiaro, rispetto a quelle che evadono e lavorano in nero. Una concorrenza bancaria sleale, che richiede - come auspica l’Abi - una vigilanza meno distratta e giustamente severa.
Contrastare i banchieri del malaffare è dunque una battaglia sacrosanta. E l’informazione libera, come quella di Italia Oggi che non ha né banche né padroni sulla testa, è fondamentale per conoscere quanto la situazione sia grave, e impedire che i banksters prevalgano anche sulla democrazia, come invece è avvenuto in Grecia.
Del resto, che la situazione sia maledettamente seria, non siamo solo noi a dirlo, ma un documentato rapporto del Boston Consulting Group, reso pubblico alcuni giorni fa dal sito finanziario americano Zero Hedge. In sintesi: dal 2009 al settembre 2014, le autorità di vigilanza bancaria degli Stati Uniti e dei Paesi europei hanno ravvisato un crescendo di violazioni delle leggi da parte delle banche «too big to fail». Per contrastarle e punirle, tali autorità hanno emesso una serie di sanzioni pecuniarie e avviato nello stesso tempo altrettanti procedimenti giudiziari di tipo penale. Le accuse spaziano dalla condotta impropria alla manipolazione del mercato per fini speculativi (su libor e commodities, per esempio), dall’evasione fiscale alle false dichiarazioni, dal riciclaggio di denaro alla vendita abusiva di protezioni assicurative: reati che prevedono non solo multe, ma anche anni di galera.
Per questo, spiega il rapporto Boston Consulting Group, le sei maggiori banche Usa e le 12 maggiori banche europee sono state costrette a mettere in bilancio somme crescenti per le spese processuali, che al settembre scorso avevano raggiunto un totale di 178 miliardi di dollari, somma a dir poco pazzesca, che grava sempre più sui bilanci di ciascuna banca, destinata a salire ancora di più. Basta un dato per averne conferma: la banca Citigroup, nel suo rapporto trimestrale reso noto il 9 dicembre, ha dichiarato di avere accantonato altri 2,7 miliardi di dollari per le spese legali. Tenuto conto degli accantonamenti precedenti, il sito Zero Hedge ha calcolato che la Citigroup «ha un costo di 3,5 miliardi di dollari per tenere i suoi manager fuori dalla prigione per altri tre mesi».
Oltre a Citigroup, il rapporto Boston Consulting include nelle 6 «leading banks» Usa, colpite dalle sanzioni, le seguenti «too big to fail»: Bank of America, JP Morgan Chase, Morgan Stanley, Wells Fargo e Goldman Sachs. I nomi delle 12 banche leader europee, anch’esse colpite da sanzioni, sono i seguenti: BNP Paribas, Credit Suisse, Deutsche Bank, UBS, HSBC, Barclays, The Royal Bank of Scotland, Rabobank, Lloyds Bank, Standard Chartered, ING, e Banco Santander.
Dunque, tra le grandi banche del malaffare non ce n’è neppure una italiana. Buon segno. Le peggiori, a giudicare dai numeri, sembrano le 6 grandi banche Usa, che hanno accumulato 115 miliardi di dollari di spese processuali e legali, pari al 65% del totale (178 miliardi) indicato dal rapporto Boston Consulting. Il restante 35% riguarda le 12 maggiori banche europee, che hanno dovuto mettere a bilancio, per i costi legali, 63 miliardi di dollari. «La maggior parte di tali sanzioni», precisa il rapporto, «si deve all’autorità di vigilanza Usa». Il contributo delle autorità di vigilanza europee non è indicato, ma potrebbe esserlo in un prossimo rapporto, quando sarà entrata a regime anche la nuova vigilanza della Bce, iniziata solo da un mese.
Il nostro auspicio è che le banche italiane continuino a restare fuori dal novero delle «too big to fail», tutte coinvolte in pratiche di malaffare. Finora le banche «too big to fail», dette anche «too big to jail» (troppo grandi per finire in prigione), a parte le multe, sono riuscite a farla franca, convincendo politici e governi che il loro ruolo è insostituibile, anche se viziato da speculazioni folli. Ma non è detto che la cuccagna «no fail, no jail» duri per sempre. Anzi, prima finisce, meglio sarà per tutti gli onesti.
Tino Oldani, ItaliaOggi 13/12/2014