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 2014  dicembre 13 Sabato calendario

ARTICOLI SUL PD ROMANO PER IL FOGLIO DEI FOGLI


ANNALISA CUZZOCREA, LA REPUBBLICA 10/12
«Mi sento umiliato, mi sento perso. Non pensavo d’anda’ a fini’ con la banda della Magliana». Valerio ha alle spalle 60 anni di militanza. È iscritto al circolo Pd versante Prenestino, a Castelverde, periferia romana che è oltre Tor Sapienza, oltre il raccordo anulare. Un sottoscala pieno di sedie di plastica bianche dove ieri 40 persone sono andate a sentir parlare di forma partito l’ex ministro Fabrizio Barca, con in testa solo i fatti di “Mafia Capitale”. A quel circolo è iscritto Salvatore Buzzi, il presidente della coop 29 giugno, considerato uno dei capi del sistema scoperchiato dalla procura di Roma. «Qui l’abbiamo visto solo all’iscrizione e quando si votava per le primarie – racconta Riccardo Pulcinelli – ma quando abbiamo sentito quel nome, io e Valeria (la coordinatrice) abbiamo detto: è nostro! Poi abbiamo chiamato il partito per chiedere di poterlo cancellare». «Io non sono triste, sono incazzato», dice Riccardo davanti agli altri militanti. «Vedo i capi del partito romano che fingono di cadere dalla luna, ma quando siamo andati a denunciare che alle primarie arrivavano persone cui era stata pagata la busta della spesa, quando abbiamo sospeso il congresso e il presidente di municipio lo ha fatto fare comunque incassando 92 tessere sospette in un giorno, non ci hanno ascoltato. Anzi, volevano espellere noi». Gli interventi sono un processo al partito: “Qui non si parla più, non si discute di niente, di che ci sorprendiamo?”. Valerio ricorda quando in sezione venivano a parlare Luchino Visconti, Alberto Moravia, Giancarlo Pajetta: «Ci spiegavano le cose, ci dicevano di leggere, ora invece ci hanno instupiditi».
Annalisa Cuzzocrea, la Repubblica 10/12

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PAOLO BOCCACCI, LA REPUBBLICA 12/12
Cristiana Alicata, il sette aprile del 2013 lei denunciò un episodio avvenuto in una sezione della Magliana durante le primarie per il sindaco.
«Alcuni militanti mi avvisarono che nella sezione venivano accompagnati interi gruppi di persone e chi era lì aveva l’impressione che venisse detto loro per chi dovessero votare. E precedentemente alcuni avevano fatto mettere a verbale che avevano assistito a uno scambio di soldi».
Chi li accompagnava?
«Non lo so. Altrimenti sarei andata in Procura».
Lei invece che cosa fece?
«Denunciai sui social network con una frase infelice la stranezza di quella partecipazione così massiccia».
Perché era infelice?
«Perché ha concentrato l’attenzione sul fatto che quelle persone erano rom e non invece sulla questione che c’era chi probabilmente sfruttava la loro disperazione».
Avevano avuto in cambio qualcosa?
«Non lo posso dire con certezza, ma non si erano mai visti nella sezione».
Fenomeni di questo tipo sono capitati altre volte?
«Certamente, basta vedere i dati dei congressi a Roma e del tesseramento in prossimità dei congressi stessi. E ci sono altre cose strane».
Quali?
«Quando ci sono le primarie arrivano a casa lettere a tutti gli iscritti del Pd, come si fa ad avere tanti soldi per spedirle? O per far attacchinare manifesti abusivi in tutta la città e pagare cene nei palazzetti dello sport a centinaia di persone?».
Lei ha addirittura rischiato l’espulsione dal partito.
«Certo, è vero. Anzi mi sono dimessa dalla direzione del Pd Lazio perché stavo subendo un linciaggio con l’accusa di razzismo. Poi sono stata chiamata da Renzi alla direzione nazionale. Fare pulizia è possibile, certificando i redditi dei politici, i finanziamenti degli sponsor e le spese elettorali».
Paolo Boccacci

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ALDO CAZZULLO, CORRIERE DELLA SERA 12/12
Le primarie vinte da Marino sono state regolari?
«Non regolari; regolarissime. Quando si muove il voto d’opinione, le primarie non possono essere inquinate. Invece le primarie per designare i parlamentari sono state, almeno a Roma, una farsa. Ogni candidato doveva essere sostenuto da 500 iscritti, nessun iscritto poteva sostenere più di un candidato: era tutto chiaramente deciso prima dai capibastone».
Sta dicendo che i parlamentari romani del Pd sono «abusivi»?
«Sto dicendo che le primarie così non hanno senso. Andrebbero riservate a cariche monocratiche: sindaco, presidente di Regione, premier» (Goffredo Bettini).

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GIOVANNA VITALE, LA REPUBBLICA 11/12
Pacchetti di tessere comprate in bianco dai capibastone e restituite compilate, come e da chi però non si sa. Code di extracomunitari ai seggi delle primarie. Pulmini di anziani prelevati dai centri ricreativi e ricompensati con buste alimentari. Soldi distribuiti fuori dai circoli per incentivare il voto. Congressi finiti a insulti e spintoni, e la polizia che arriva a sirene spiegate.
Benvenuti nel meraviglioso mondo del Pd Roma. L’azionista di maggioranza della giunta Marino commissariato da Matteo Renzi. Ché non fosse stato per il procuratore Pignatone, forse, si sarebbe continuato a chiudere un occhio, anzi tutti e due: sulle iscrizioni gonfiate, i maneggi dei signori delle tessere, l’inquinamento di un partito che di democratico ha soltanto il nome, condizionato com’è dai vari Kim Jong-un di quartiere che a botte da migliaia di euro spostano consensi, ricattano segreterie locali, controllano pezzi di istituzioni. Un gioco borderline, di certo pericoloso. Ormai smascherato dalle inchieste giudiziarie. Minacciava «li rovino tutti» l’onorevole Marco Di Stefano, che intercettato rivelava: «Ho fatto le primarie con gli imbrogli». Elezione, stavolta per il segretario cittadino, che attira pure l’interesse della mafia capitale. «Come state messi?», chiedeva il boss Carminati a Salvatore Buzzi, il suo braccio imprenditoriale: «Stiamo a sostene’ tutti e due», la risposta del ras delle cooperative, «avemo dato 140 voti a Giuntella e 80 a Cosentino. Cosentino è proprio amico nostro».
Neppure il drammatico appello lanciato un anno e mezzo fa dall’allora deputata Marianna Madia era servito a far suonare l’allarme. «Nel Pd a livello locale, e parlo di Roma, facendo le primarie dei parlamentari ho visto, non ho paura a dirlo, delle vere e proprie associazioni a delinquere sul territorio»: era il giugno 2013, e per quelle parole l’attuale ministro rischiò quasi di essere linciata. Sebbene già due mesi prima la renziana Cristiana Alicata denunciò «le file di rom ai gazebo dem» e «voti comprati» per l’elezione del candidato sindaco, che poi risultò Ignazio Marino. Manovre spesso oliate da un vorticoso giro di soldi. Racconta Andrea Sgrulletti, fino all’anno scorso segretario pd nella zona di Tor Bella Monaca: «Nell’aprile 2013, alle primarie organizzate in vista delle amministrative, il nostro municipio è stato l’unico dove hanno votato più persone rispetto alle primarie 2012 Bersani-Renzi. In alcuni seggi l’affluenza è raddoppiata, in altri triplicata. “Merito” di una campagna alimentata da un’enorme quantità di danaro dall’aspirante presidente del VI municipio, Marco Scipioni, e denunciata sia al partito romano, sia alla commissione di garanzia». Una propaganda a base di «pacchi alimentari e buste della spesa distribuite alle persone che venivano a votare per lui. A volte ha pure regalato piccole somme. Il che, in un contesto molto povero come il nostro, fa la differenza», insiste Sgrulletti, rivelando come «quelle contropartite abbiano pure convinto alcune comunità straniere locali a partecipare in massa». Tutti episodi che «sono stati però ignorati dal Pd cittadino, che ha convalidato quel voto e non ha mai preso provvedimenti disciplinari, anzi», sospira sconsolato Sgrulletti: «Noi che abbiamo denunciato siamo finiti sul banco degli imputati e io stesso ho rischiato l’espulsione dal Pd».
Un serial, più che un film. Stesse scene si sono ripetute, sei mesi più tardi, al congresso (aperto solo agli iscritti) per il segretario provinciale e ancora dopo alle primarie per quello regionale. Anche qui, pur con le debite proporzioni, «truppe cammellate si sono mosse per inquinare il voto», racconta Fabrizio Mossino, già responsabile della sezione Portuense- Villini, rivelando le tecniche per gonfiare le iscrizioni: «Se un circolo ha bisogno di soldi perché non riesce più a pagare l’affitto o ha un segretario con una forte appartenenza di corrente, può succedere che il capo-bastone di turno arrivi, chieda un pacchetto di tessere, anche 50-60, pagandole in contanti 20 euro a pezzo, e poi le restituisca compilate». Esattamente quanto accaduto a ottobre di un anno fa, nella sfida per la leadership romana, con circoli che in pochi giorni sono cresciuti del 200%. Tor Bella Monaca per tutti: passato da 170 a 430 tesserati.
Non è allora un caso se, appena eletto, Lionello Cosentino abbia deciso di cambiare le regole e ripetere il congresso che pure lo aveva incoronato segretario. Risultato? «Dai circa 16mila iscritti a Roma nel 2013 oggi siamo scesi a 9mila», dice l’ex responsabile organizzazione Giulio Pelonzi. Il 40% in meno. È bastato esigere che ogni singola tessera fosse richiesta per iscritto e abbinata a un nome e un cognome preciso. «Come per magia i pacchetti sono spariti, chi oggi sta nel Pd Roma è gente vera», giura Cosentino. Ormai azzerato.
Giovanna Vitale

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MATTIA FELTRI, LA STAMPA 11/12
Né il mondo di sopra né di sotto né di mezzo. Il «mondo reale», dice lo slogan. E infatti. Siamo al Laurentino 38 – si chiama così, col numero, e per il dispiacere degli abitanti, a causa della particella catastale su cui il quartiere è stato edificato. Negli anni Novanta ci si entrava con qualche inquietudine, e anche adesso molti ci campano come possono, diciamo così.
Si riparte da qui, per farne simbolo, con il riscatto popolare. Arrivano il commissario del Pd romano, Matteo Orfini, il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, e soprattutto il sindaco di Roma, Ignazio Marino, che per qualche miracolo del cielo è passato in una settimana dal marziano della Panda all’unico argine contro la Banda. Sono applausi, e quasi ovazioni, per lui.
La sala del centro culturale Elsa Morante – uno dei teatri di cintura progettati da Walter Veltroni per dare un cuore almeno geografico alle borgate – è colmo: almeno cinquecento persone, e altrettante sul piazzale a invocare l’ingresso. «Ok, tutti fuori», dice Orfini, per la replica di uno del pubblico che ha conservato senso dell’umorismo: «Avanti di questo passo, è più facile tutti dentro…».
L’improvvisazione è utile: si allestisce un palchetto, che poi è una sedia, a dare all’evento una scenografia di marciapiede. E fa freddo, gli ardori se ne andranno alla svelta: perché, ecco, siamo nel mondo reale. È arrivato un comitato di quartiere dal vago sapore grillino che si oppone all’autostrada Roma-Latina («le grandi opere portano mazzette», dirà il portavoce quando per senso democratico gli sarà concesso il microfono per qualche minuto) e prova rovinare la festa con i cori dolorosi («fuori / la mafia / dallo Stato»). Scandalo! Si sparge la voce che siano quelli di Casa Pound. Scatta l’allarme: «Ce so’ i fasci!». Ecco, parte un dibattito del genere: fascisti! Comunisti! Famme parla’! No, nun te faccio parla’… Lo scriviamo così, per gli amanti della società civile. Che poi non è malaccio, se paragonata alla società politica. Non tanto perché l’ormai ex segretario del Pd romano, Lionello Cosentino, viene abbracciato da consiglieri municipali e attivisti di circolo: «A Lione’, tu sei la purezza…». Ma soprattutto per quello che tocca sentire quando finalmente (sono le 18, un’ora di ritardo) comincia il programma ufficiale.
Il primo a salire sulla sedia è Orfini, che ripete le minacce ai mascalzoni già avanzate sui giornali: c’era una guerra per bande; tutto questo deve finire; ha danneggiato specialmente voi; non guarderemo in faccia a nessuno; abbiamo sbagliato ma ci riprenderemo; trasparenza assoluta. Insomma, tutto quello che andava detto in un’occasione così e, a proposito di occasione, era imperdibile quella concessa dalle cronache: «Non dimentichiamo che tutto questo schifo è cominciato con la giunta Alemanno», grida Orfini. Qualche applauso nervoso arriva. Ma poi diventa il ritornello perfetto: «Se qualcuno ha sbagliato pagherà, ma gli atti del Pd, in questi anni, sono stati presi per combattere la banda che è entrata nel Campidoglio davanti ai saluti romani», e questo è uno Zingaretti che va sul facile-facile, ed è un facile che funziona. Visti i provini, ci si butta anche Marino: addosso ad Alemanno, noi «siamo qui a pulire». Non gli pare vero di essere resuscitato sui disastri altrui, ringrazia tutti (procura, elettori, presidenti di circoscrizione) come uno che riceve l’Oscar. Invita il Movimento cinque stelle a collaborare. Una ragazza gli urla: «Ma che voi, aho? So’ lì da un anno, voi ce siete da venti!». Un vecchio leader del Pd romano ci mette una pietra sopra: «Che da qualche anno con Salvatore Buzzi e le sue cooperative qualcosa non tornava, se ne erano accorti anche i bambini».
Mattia Feltri

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MARIO AJELLO, IL MESSAGGERO 11/12
Fuori o dentro? «Se il Pd continua così – sussurra una voce – finiamo tutti dentro». La questione non sarebbe penitenziaria (ma visti i tempi i discorsi si confondono) e riguarda invece il luogo dove tenere l’assembleona dei dem romani sotto choc: dentro la sala Elsa Morante del Laurentino 38 – ma è troppo piccola per la troppa folla – o nel cortile? Matteo Orfini, il commissario del partito sale sul palco e decide: «Fuori!». Fuori si gela, ma l’atmosfera politica è calda assai. Sta andando in scena all’aperto l’auto-processo del Pd romano e (un po’) l’auto-assoluzione del medesimo.
Tutti gli oratori – da Zingaretti, a Marino, a Orfini – gridano «stop allo schifo delle tessere comprate» ma la teoria di qualche eventuale «mela marcia» nel partito è quella dominante «mentre il sistema mafioso riguarda la destra di Alemanno». Eppure, nella folla, c’è il presidente del Pd romano, Lionello Cosentino, quello che Renzi ha fatto dimettere appena ha letto le intercettazioni in cui Buzzi dice che portava voti congressuali a lui, che tutti omaggiano e vanno a salutare con affetto. «Lionello – gli dice un gentiluomo come il senatore Tocci, abbracciandolo – ormai sei un militante semplice, e io verrò con te a fare volantinaggio a Monte Mario». O ancora, vanno da lui e gli dicono: «Lione’, non possiamo arrenderci all’ignominia. Dobbiamo reagire e dire a Orfini come si gestisce il partito».
Dal palco, a Cosentino, lo ringrazia Orfini e tutti – in questo partito sospeso tra rabbia (un po’), orgoglio (tanto: «Siamo puliti e faremo ancora maggiore pulizia»), contrizione («Forza Pignatone») e perfino buonumore (ancora Lione’: «Io non perdo il mio buonumore») – non hanno la risposta pronta a quella contestatrice grillina che s’è intrufolata e grida: «Voi siete al potere da trent’anni, e non avete visto tutta la schifezza?». Un ex assessore, in questa scena da auto-processo e auto-assoluzione”en plein air” tra i palazzoni del degrado periferico, confida a cuore aperto: «Anche i bambini si erano accorti quanto Buzzi, e molti di noi lo conoscevano bene, stava crescendo nel suo potere e nei suoi affari. E come stava crescendo malamente».
I SANTINI
Ora, però, qui, è il santino del «sindaco gentiluomo» Luigi Petroselli quello che viene sventolato a inizio assemblea. Se ci fosse a portata di mano una foto di Enrico Berlinguer, verrebbe issata quella. Sotto il palco invece c’è (non in effigie) il presidente romano dei dem, Tommaso Giuntella (a sua volta finito nelle intercettazioni in cui Buzzi dice che porterà i voti anche a lui), il quale si diverte a farsi i selfie. E c’è tanta voglia di pulizia, anche se «i ladri veri sono gli altri», al punto che l’opera di ricostruzione morale e organizzativa del partito è stata affidata – così annuncia Orfini dal palco – all’ex ministro Fabrizio Barca. Ogni tanto, da un piccolo gruppo di abitanti del quartiere venuti a protestare e mescolati ai dem, si alza un grido: «Fuori la mafia dallo Stato». E Orfini dal palco: «Noi proprio questo stiamo facendo». Quando un’altra voce accusa Marino di far parte del vecchio sistema di potere, lui sgrana gli occhi come a dire: «Ma chi, io?». Lui che è appena arrivato, ed è estraneo alle logiche scoperchiate dai giudici. Qui Sant’Ignazio è il simbolo della discontinuità e della purezza e quelli che lo volevano cacciare appena qualche settimana fa adesso lo acclamano come l’ultima spiaggia. Lui si gode il momento: «Qualcuno, nel nostro partito, ha sbagliato ma l’impianto criminale è nato nella destra di Alemanno». C’è il deputato romanissimo Angelo Marroni, e alle sue spalle volano sussurri come questo: «Lui riempiva Roma di manifesti elettorali e molti di noi non avevano niente». C’è a sorpresa, sbucato da Marte e in mezzo a presidenti e consiglieri di municipio e ad altri eletti, Piero Badaloni, ex presidente regionale e sembra che non gli sia passato un anno: accarezza la bandiera del Pd, mesto come sempre ma più di sempre. Marino invita a parlare dal palco un contestatore del Laurentino («Non vogliamo l’autostrada Roma-Latina che taglierebbe in due il nostro quartiere») e i suoi sodali da sotto insistono: «Pd mafia!». Il che, naturalmente, è un’esagerazione. Specie in presenza di una (almeno parziale) auto-assoluzione.
Mario Ajello

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BRUBELLO BOLLOLI, LIBERO 11/12
Che dovemo fà? Marino nun sa gnente de Roma ma se lo dovemo tené». Circolo Pd della Capitale, uno dei tanti dove il sindaco Ignazio Marino non si fa vedere da un pezzo, da quando era in campagna elettorale e gli servivano voti per scalare il Campidoglio. Due vecchi militanti, Furio e Renato, hanno poca voglia di parlare dell’inchiesta su mafia capitale, sulle cooperative di Salvatore Buzzi e sui compagni finiti nel calderone delle intercettazioni: «Noi siamo comunisti veri e queste cose non ci piacciono, ma sciogliere il consiglio comunale e tornare alle urne è escluso», dicono. «Così poi salgono gli artri, la Meloni o Salvini? E che semo matti?», interviene Anna. «Lassamo stà Marino e vediamo ’ndo va». La parola d’ordine è: ricompattarsi attorno al marziano. Sostenerlo, nonostante tutto. Dall’Alberone a Tor Bella Monaca, alla storica sezione del centro di via dei Giubbonari – che non è mai stata renziana e infatti alle primarie una volta ha vinto Enrico Letta e alle ultime Gianni Cuperlo – la linea è di seguire il diktat del premier-segretario. Appoggio al primo cittadino fino a un mese in procinto di essere scaricato dal Nazareno per il Panda-gate, ora insperabilmente rianimato grazie a un’inchiesta giudiziaria che comunque ha lambito la sua giunta e il Pd capitolino. Marino però è soddisfatto. Ieri sera alla biblioteca Elsa Morante del Laurentino 38, altro quartiere dormitorio scelto non a caso per la grande assemblea degli iscritti, c’era il pienone. Così tanti da Zingaretti a Marianna Madia oltre a militanti, dirigenti, consiglieri che in sala non ci stavano tutti e allora i discorsi si sono tenuti fuori, open air. È lì che il neocommissario, Matteo Orfini, ha annunciato che Fabrizio Barca, l’ex uomo nuovo del Pd, quasi un messia per l’ala sinistra del partito, farà una «mappatura di tutti i circoli Pd di Roma girandoli uno per uno per ricostruire il partito sul territorio». Un segnale chiaro, visto che l’ex ministro del governo Monti, iscritto al circolo dei Giubbonari, ha sempre rivendicato nel suo programma l’austerità di Enrico Berlinguer (di cui il padre Luciano è stato uno dei più stretti collaboratori) e ora avrà il compito di verificare costi, sprechi e gestione delle sezioni dem della città. Orfini, da questo punto di vista, non vuole sconti. Per garantire l’indipendenza economica dei circoli «chi non versa il proprio contributo al partito verrà messo fuori», ha annunciato, e «daremo più risorse ai nostri circoli e meno centralmente a livello di federazione romana». Non si sono fatti vedere, all’assemblea Pd del Laurentino, né l’ex assessore alla Casa Daniele Ozzimo (indagato nell’inchiesta sul Mondo di mezzo), né l’ex moglie responsabile welfare del partito nazionale, Micaela Campana, quella dell’sms affettuoso a Salvatore Buzzi («un bacio grande capo»). Ci sono state contestazioni da parte di alcuni movimenti ambientalisti e il corteggiamento ai grillini di entrare in giunta è stato respinto al mittente. Marino, però, nonostante gli ispettori inviati dal prefetto Giuseppe Pecoraro in Campidoglio, continua a ripetere di non sentirsi commissariato: «Mafia capitale è cominciata con Alemanno, la mia giunta è sana». Più realista Orfini che ha cercato nuove ricette per ripartire dopo gli scandali. «Faremo le Frattocchie dell’anticorruzione», è l’idea del commissario che si ricollega alla storica scuola di formazione del partito comunista. «Abbiamo bisogno di dare ai consiglieri comunali gli strumeni per contrastare il malaffare». E ancora: «È giusto che il Pd torni in strada, tra la gente, invece in questi anni è stato lacerato da un’infinita guerra tra bande. Dobbiamo avere più trasparenza, chiederò lo stato patrimoniale aggiornato a tutti gli eletti». Orfini è poi riuscito a strappare al sindaco la promessa di dimezzare le 23 commissioni comunali entro Natale. Un piccolo regalo a Roma, che merita di più. E poi applausi dalla platea al procuratore capo Pignatone, simbolo di legalità.
Brunella Bolloli


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ERNESTO MENICUCCI, CORRIERE DELLA SERA 11/12
La situazione del Pd romano è quella di un partito «balcanizzato», diviso in correnti. O tribù, come le chiama Matteo Orfini. Un partito nel quale — finita l’era Veltroni e tramontata l’egemonia che ha sempre esercitato Goffredo Bettini (guru e stratega del centrosinistra anni 90 e 2000) — non c’è un vero e proprio «capo» riconosciuto. Anzi, dal 2008 in poi, c’è stata una crisi generale. Tanto che lo stesso Renzi — che su Roma ha sempre avuto i suoi problemi — ha difficoltà a governare la federazione locale. Attualmente, nel Pd della Capitale, ci sono tre o quattro gruppi che si fronteggiano. L’alleanza, molto recente, stabilita per le Europee, dei «Noi Dem»: dalemiani/bersaniani, popolari, turbo-renziani. Tradotta in nomi: Umberto Marroni, Enrico Gasbarra, Lorenza Bonaccorsi. Storicamente, quest’area si contrappone agli ex Ds di Bettini: Nicola Zingaretti, Michele Meta, Roberto Morassut. Terza componente, Area Dem di Dario Franceschini: intorno a lui, l’eurodeputato David Sassoli, la consigliera comunale (e moglie del ministro) Michela Di Biase. Poi i «Giovani turchi» di Orfini. Uno che contava era Marco Di Stefano: dopo i recenti scandali, non più.

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ERNESTO MENICUCCI, CORRIERE DELLA SERA 11/12
Il Pd che cerca di lasciarsi alle spalle Mafia Capitale, riparte dal centro culturale «Elsa Morante», voluto dall’allora giunta Veltroni in una zona di frontiera di Roma: Laurentino 38, periferia sud, appena fuori da quei «ponti» nei quali era meglio non girare da soli.
Un luogo simbolo, per la prima assemblea romana del partito («Coi cittadini, con Roma. Nel mondo reale»), della gestione commissariale di Matteo Orfini, a cui Renzi ha affidato il compito di rimettere insieme il Pd locale. Ed è simbolica anche la rappresentazione che ne viene fuori. Quando ormai è buio, e l’umidità che sale dalla campagna comincia a farsi sentire, si capisce che la sala è troppo piccola per accogliere il migliaio di persone accorse ad ascoltare Orfini, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti e il sindaco Ignazio Marino. E così si decide per un improvvisato «piano B»: microfono all’esterno, palco rimediato, la gente intorno. Per una ventina di minuti, si scatena il caos: qualcuno pensa che salti tutto. Poi si presenta Orfini, sciarpa annodata al collo: «Siamo contenti di essere venuti fuori, perché è tempo che il Pd lo faccia: ascoltare i cittadini, anche prendere qualche fischio… Ultimamente ci siamo stati poco».
In mezzo ai militanti, infatti, c’è anche un gruppetto di contestatori: un comitato locale che si batte contro l’autostrada da Roma a Latina. Urla, striscioni, slogan («fuori la mafia dallo Stato»), rissa sfiorata. Poi, pian piano, gli animi si calmano. Orfini, Zingaretti e Marino partono da un punto in comune: «Grazie al procuratore Pignatone. Noi siamo dalla parte di quest’inchiesta». Orfini annuncia la nascita di una «Frattocchie dell’anticorruzione», richiamandosi alla scuola di formazione politica del Pci: «Abbiamo bisogno di dare ai consiglieri comunali gli strumenti per contrastare la corruzione, organizzeremo corsi di formazione». Poi aggiunge: «Ci chiederete: perché non ce ne siamo accorti? Perché il Pd di Roma era troppo impegnato in una guerra tra bande, in lotte di potere. E, magari, nei campi rom neppure c’eravamo». Qualcuno gli urla: «Comincia dalla banda tua!». Orfini insiste: «Metteremo nuove regole al tesseramento, controlleremo i cambiamenti nella situazione patrimoniale degli eletti, un soggetto terzo certificherà il bilancio del Pd Roma, verificheremo l’attività dei circoli: se sono aperti solo quando c’è il congresso, li chiuderemo». Il compito di riorganizzare il territorio viene affidato a Fabrizio Barca. Ultimo: «Chi non versa il contributo al partito, è fuori». Poi tocca a Zingaretti: «Nel 2008 abbiamo perso le Comunali. Ed è con la vittoria della destra che pezzi della criminalità entrano nelle stanze del potere: è stata corrotta una parte di economia sana e anche qualcuno di questo movimento. Ma, come Pd, abbiamo fatto sempre scelte contro questa banda criminale». Tocca a Marino. Nonostante il freddo, scalda la platea: «Mi sento come la sera in cui ho vinto le primarie da sindaco, anche allora c’era troppa gente e dovetti salire su una sedia... Il Pd è un partito perbene: in Comune e Regione stiamo facendo pulizia». Poi affonda: «Qualcuno ha sbagliato. Ma l’impianto criminale nasce nella destra di Alemanno. E non possiamo accettare da Berlusconi, condannato, che ci dica cosa dobbiamo fare». Applausi. Marino va avanti: «Quelli del M5S devono assumersi le loro responsabilità». Chiude: «Mi sento commissariato dall’arrivo degli ispettori del prefetto? Fui io a chiedere al Mef di mandarci la Finanza nel 2013... Oggi mi sento più libero».
Ma la discussione in Consiglio dei ministri sulle norme anticorruzione slitta da oggi a domani, anche per divergenze nella maggioranza di governo, in casa Ncd. «È necessario accelerare i processi, non allungare i tempi della prescrizione» dice Fabrizio Cicchitto.
Ernesto Menicucci

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SEBASTIANO MESSINA, LA REPUBBLICA 13/12 -
SEBASTIANO MESSINA
C’È un paradosso beffardo nella scena quasi surreale di Massimo D’Alema che viene fischiato, minacciato e insultato mentre attraversa un corteo di bandiere rosse. Lui, l’avversario numero uno di Matteo Renzi nel Pd, è sbeffeggiato da quelli che proprio contro il presidente del Consiglio sono scesi in piazza. Lui, il vicepresidente dell’Internazionale socialista, viene inseguito dalle ingiurie di chi sfila sotto le insegne del sindacato rosso. Lui, che non siede più in Parlamento, diventa il bersaglio della rabbia contro la Casta, e gli tocca fingere di non sentire — per non dare soddisfazione a chi lo offende — quelli che gli urlano «Basta rubare!», «Venduti!», «Buffone!», «Siete dei porci!», anche se il grido che deve averlo ferito più dolorosamente è stato quello che è arrivato per ultimo, «Vattene via e non tornare mai più!». A lui, a Massimo D’Alema, che a Bari trent’anni fa era il segretario regionale del Partito comunista italiano, l’alfiere della diversità berlingueriana nella Puglia saccheggiata dal pentapartito. A lui, che a due passi da qui nel 2001 combattè e vinse una sfida che sembrava persa in partenza, quando quella di Berlusconi sembrava più potente dell’Armada Invencible di Filippo II e D’Alema conquistò il collegio di Gallipoli con il 51 per cento.
Ora, sarà pure vero che quei fischi e quegli insulti avevano una regia politica, visto che un gruppuscolo chiamato Alternativa Comunista ha rivendicato l’aggressione verbale e l’assedio teatrale, individuando in lui nientemeno che «un alleato di banchieri e multinazionali», e che là in mezzo c’erano anche quelli dell’Ugl, gente di destra, ma erano rosse le bandiere che sventolavano alle sue spalle mentre l’ex presidente del Consiglio camminava tra le insolenze con la sciarpa a quadri infilata nel cappotto e le mani affondate nelle tasche, e solo ogni tanto ne tirava fuori una per toccarsi i baffi o per sistemarsi gli occhiali, insomma per ostentare la dignitosa indifferenza di chi è stato un uomo di Stato e non può rispondere per strada a chi gli grida «Siete quelli che hanno affossato l’Italia!».
Forse, in quei cinque lunghissimi minuti che gli sono serviti per raggiungere l’hotel Palace dopo essere uscito dal portone del municipio, D’Alema deve aver pensato alla perfidia della sorte, che ha voluto far passare il corteo dei sindacati da Vittorio Emanuele II proprio mentre lui usciva dall’incontro con il sindaco Decaro e andava all’appuntamento organizzato dalla sua fondazione, “ItalianiEuropei”, molte settimane prima che Cgil, Uil e Ugl scegliessero lo stesso giorno per il loro sciopero generale.
O forse ha pensato che una volta, quando lui era il segretario pugliese del Pci, non sarebbe mai potuto accadere che un esponente di primo piano del partito finisse nel posto sbagliato al momento sbagliato (e comunque se fosse successo ci avrebbe pensato il servizio d’ordine a togliere la voglia di fischiare ai contestatori).
Lui, che razionalizza tutto, ha letto nel furore di chi gli gridava «Buffone!» solo «la rabbia generale contro i partiti e contro la politica». Ma la verità è che le medaglie hanno sempre un rovescio, e lui che è stato il primo post-comunista a salire lo scalone d’onore di Palazzo Chigi, lui che è stato il Lìder Massimo della sinistra, anche oggi che ha lasciato Montecitorio — ed è finito all’opposizione nel suo partito — per la piazza rimane uno dei volti del Palazzo, uno dei pochi nomi che contano nella politica italiana, uno dei simboli del potere: anche di quello che non ha più.