M.T., Panorama 11/12/2014, 11 dicembre 2014
BRUTI, IL CSM E IL PECULATO ARCHIVIATO
È vero, le cifre sono assai diverse: da una parte 3 milioni di euro di spese in cinque anni, considerate illecite dalla Procura di Milano; dall’altra 6 milioni di lire (ma in soli sei mesi, tra 1981 e 1982, equivalenti con la rivalutazione a 13 mila euro di oggi) più una serie di altre uscite non quantificate, che spinsero un giudice istruttore dell’epoca a ipotizzare il reato di peculato.
Per il resto, lo scandalo delle «spese pazze» alla Regione Lombardia e lo scandalo dei «caffè & tramezzini» del Consiglio superiore della magistratura, che 33 anni fa ingombrò per mesi le cronache giudiziarie, sono simili. Ci sono viaggi e missioni in Italia e all’estero, regali, mance, pranzi, cene, consumazioni al bar e acquisti di aperitivi e di liquori.
In più, a fare da trait-d’union, c’è un fatto singolare. E, anche se dimenticato, sembra il classico contrappasso dantesco: uno dei 32 membri del Csm che nel 1982 finì sotto processo è alla guida degli inquirenti di oggi. È Edmondo Bruti Liberati, il capo della Procura di Milano che ha appena chiesto il rinvio a giudizio per peculato di 64 ex consiglieri regionali lombardi.
La vicenda dell’inverno 1981-82, che per la virulenza delle polemiche quasi provocò lo scioglimento del Csm appena insediato, si concluse il 12 luglio 1983 con un proscioglimento pieno, «perché il fatto non sussiste». Il giudice istruttore Renato Squillante (a sua volta coinvolto negli anni Novanta nell’inchiesta sulle presunte corruttele giudiziarie dei due processi Sme e Imi-Sir, terminata con una prescrizione) stabilì che nessuno dei comportamenti dei 32 consiglieri fosse illecito: né farsi rimborsare pasti, tramezzini o caffè; né regalare un panettone al vigile urbano e metterlo sul conto del Csm, né usare soldi pubblici per dare una mancia al personale del Consiglio sotto le feste di Natale, né cenare in hotel durante un viaggio a Bologna «allo scopo di tutelare la propria incolumità».
Con Bruti erano stati accusati di peculato personaggi del calibro di Vladimiro Zagrebelsky, poi giudice alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e Mario Cicala, come Bruti divenuto in seguito presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Per tutti il giudice Squillante stabilì che ogni spesa rimborsata dal Csm fosse pienamente legittima, anche per «una lunga prassi, diffusa nelle amministrazioni pubbliche» o per la «consuetudine generalizzata», o ancora che fosse «irrilevante per la sua trascurabile entità».
Il giudice arrivò a sostenere che «una colazione in ufficio consentisse l’immediata ripresa dell’attività interrotta all’ora dei pasti e dunque il disbrigo oltre il normale orario di lavoro»: quindi fosse da considerarsi, semmai, una pratica meritoria. Nella sentenza Squillante sottolineò infine che la Corte dei conti non aveva mai mosso rilievi alle spese (esattamente come ha fatto nei confronti del consiglio regionale lombardo oggi indagato).
Trent’anni fa Giovanni Fiandaca, l’autorevole giurista che a sua volta dal 1994 al 1998 sarebbe diventato consigliere del Csm per i Ds, analizzò queste motivazioni sulla rivista giuridica Foro italiano. E oppose qualche puntuta critica a Squillante: «Sui viaggi dei consiglieri» scrisse «il giudice non si preoccupa di esplicitare se avessero finalità corrispondenti a quelle del Csm». Ma Fiandaca si domandò anche, ironico, se il «liberi tutti» sui pranzi in ufficio a spese del contribuente «debba valere per ogni zelante pubblico funzionario, il quale consumi pasti a spese dell’ente... al fine di non interrompere l’attività lavorativa».
Forse è da queste critiche, non del tutto peregrino, che oggi la Procura di Milano di Bruti trae la spinta per contestare ai 64 ex consiglieri regionali lombardi quel che 31 anni fa venne giustificato e archiviato dal giudice Squillante.
(M.T.)