Marco Cicala, il Venerdì 12/12/2014, 12 dicembre 2014
CONFESSIONI DI UN BARBAGIANNI
CETONA (SIENA). Premessa maggiore: il barbagianni è un rapace notturno dal grido acuto e riconoscibile; ha vista inesorabile nel buio, udito sensibile ai minimi spostamenti. Premessa minore: l’ultimo libro di Guido Ceronetti si intitola L’occhio del barbagianni. Conclusione: l’acuminato Ceronetti è un barbagianni travestito da scrittore. O no? «Beh, i predatori notturni sono tra le più incantevoli forme del creato. Musicali, misteriosi. Anche utili. Dove non c’è un uccello notturno che canta, manca davvero qualcosa».
Il gufismo di Renzi è una bischerata. Però si riallaccia a una tradizione.
«Certi uccelli sono calunniati come creature del malaugurio. Un errore, una volgarità del pensiero che arriva fino al gergo della politica. Purtroppo, ha dalla sua gente tipo Virgilio o Shakespeare. Colossi contro cui non puoi nulla sono troppo forti. Ma io alzo la mia timida voce a difesa dei rapaci notturni».
L’occhio del barbagianni è una nuova raccolta di aforismi. Lei ne ha scritti tanti. Le vengono su spontanei e li lascia come sono oppure ci rimette mano?
«Dipende. Gli aforismi brevi – quelli che non superano uno stikos, un verso – in genere mi vengono di getto. I più lunghi invece li lavoro. In fondo l’aforisma non esiste. Esiste un pensiero sintetico che chiamiamo aforisma. E che è un arco in sé compiuto: da A a B. Spesso non puoi spiegarlo come il teorema di Pitagora, perché ha l’eloquenza del paradosso. Non è ricavato da nulla, spunta così. In altri casi può derivare dalle letture... Ma ci sono anche aforismi che non nascono come tali, che sono fusi in un magma di pensiero».
Tipo?
«Ippocrate comincia il suo libro sulla medicina con la frase: La vita è breve, l’arte è lunga. È già un bell’aforisma. Oppure pensi a Xavier Bichat. All’inizio delle sue Recherches, scrive: La vita è l’insieme delle forze che si oppongono alla morte. Aforisma perfetto. Sembra uscito dalla mente di Dio. E, benché Tolstoj magari non lo pensasse, anche Anna Karenina si apre con un aforisma: quello sulle famiglie felici o infelici».
Torniamo al suo libro. Pensiero 17: «Non fare nessun lavoro che non sia perfettamente manuale». Per lei la scrittura è una faccenda manuale?
«Altroché. Scrivo a macchina dal 1944. Cioè da quando avevo 17 anni. In vista di chissà quale carriera giornalistica, andai a scuola di dattilografia e stenografia. Ci ho messo un po’ a passare dalla manualità pura alla portatile. Quando Alberto Ronchey mi chiamò a La Stampa, gli articoli li riscrivevo fino a quattro volte».
Ripercorriamole tutte e quattro, se le va.
«Iniziavo con un manoscritto. Seguiva una prima copiatura che facevo leggere a mia moglie. Se lei mi dava il verde, battevo a macchina e mandavo al giornale. Se invece mi dava il rosso, rifacevo tutto».
Diamine.
«Un pezzo sulla legalizzazione dell’aborto l’ho riscritto in quattro versioni. Anzi, cinque. Quando uscì in un libro lo corressi di nuovo. Più manuale di così, mi dica lei...».
E adesso?
«Scrivo ancora direttamente a macchina, ma con dieci dita non ci riesco più. Un tempo non facevo errori se non ogni cento, centocinquanta righe. Ora, un errore a riga. È un po’ la mia disperazione... Capirà, diventa difficile mandare a un giornale testi che sono un cimitero di correzioni...».
Allora come fa?
«Cerco sempre qualcuno a cui dettare».
Computer niente?
«Mai imparato a scriverci. Mai riuscirò ad esprimere un sentimento passando per quel tipo di macchina».
Aforisma 72: «L’uomo di Stato sarà sempre più espressione della Cucina, del Cesso, della Discarica». La politica, massima cloaca. Ancella dell’economia.
«La politica dovrebbe contenere pensieri, non un pensiero unico. Guardi il povero Obama: l’idiozia dei commentatori gli rimprovera solo fallimenti economici. Lo trattano come un amministratore delegato. Eppure aveva buone intenzioni e anche qualcosa in più sul piano delle qualità umane. Quando ci fu la fuoriuscita di greggio in Louisiana, mi colpì una copertina dell’Economist. La foto mostrava Obama sulla spiaggia, girato di tre quarti. Aveva la faccia di uno che contro la marea nera non può nulla, ma non può nemmeno chiudere le trivellazioni. C’era una specie di nobile disperazione in quel volto».
Nel pensiero 47, lei torna a graffiare, en passant, la «Messa in volgare». Da sempre difende quella in latino. Come si sente nell’epoca Bergoglio?
«Che dirle? Non è un Papa dogmatico dal punto di vista dell’etica. Mi sembra che capisca di più i peccati degli uomini».
Già, ma ha appena beatificato Paolo VI, che di fatto suggellò la fine della sua amata Messa tridentina...
«Montini non mi piaceva. Era stato l’anima nera di Pio XII, il suo suggeritore nell’ombra. E su Pacelli pesano vergogne come il silenzio sugli ebrei durante la guerra. Infatti il processo di canonizzazione si è fermato... Quanto a Paolo VI, tra le sue vergognette storiche c’è l’aver sollecitato che le Olimpiadi di Monaco ’72 continuassero dopo la strage degli atleti israeliani...».
Nel rullo della sua Olivetti ho visto un foglio. Che cos’ha in lavorazione?
«Hmm... Qualche riflessione su Heidegger».
In Germania stanno uscendo i suoi Quaderni neri. Perlomeno imbarazzanti, non trova?
«Era un pavido. Essendo diventato inviso al Partito che l’aveva accantonato, ma lasciandolo in pace posso immaginare che in quegli anni abbia pensato di mettere nei diari quattro o cinque idiozie antisemite. Come a dire: “Se la Gestapo viene a farmi una perquisizione, nei miei scritti scoprirà che la penso come il Partito”. Non lo sto giustificando. Dico solo che la paura può aver pesato».
All’epoca dei processi, anni 90, lei difese Erich Priebke.
«Sì. Andai a trovarlo in carcere. Avviammo una corrispondenza, che poi s’interruppe. Qualche cretino scrisse che ero antisemita. Roba da farti cascare le braccia. Io ho sposato la figlia di una deportata ad Auschwitz, tanto per dirne una...».
D’accordo, ma perché difese Priebke?
«Lui alle Fosse Ardeatine uccise, ma non le aveva concepite. E non ebbe parte nei Lager. Era un funzionario, organizzava gli incontri al Brennero tra Hitler e Mussolini, assicurava il servizio d’ordine. Non era un eroe. Mi parve un poveretto finito nell’ingranaggio».
Prima di morire ha lasciato un testamento-video nel quale non rinnegava nulla.
«Mi disse che i morti delle Ardeatine gli erano pesati per tutta la vita. Certo, se durante i processi si fosse pentito, se avesse versato qualche lacrima, avrebbe avuto tutt’altra stampa. Ma non andò cosi. E comunque: a me sembrava che avessero fabbricato il mostro».
La sua fu insomma una difesa a la Voltaire, quello dell’Affaire Calas.
«Priebke è morto centenario. A cent’anni, anche il peggiore degli uomini è qualcun altro rispetto a fatti che risalgono a settant’anni prima. Ad Albano Laziale, dove ho abitato per tanti anni, la bara di Priebke fu presa a calci. Poi qualcuno riconobbe che non era il caso di prendere a calci una bara...».
Aforisma 27: «Le sepolture del giorno dopo la morte – rituali affrettati, ridotti al minimo (...) – meritano ancora il nome di funerali? I morti sono qualcosa. Soffrono come agnelli di questo subitaneo sbarazzarsi di loro». I morti soffrono: come fa ad esserne così sicuro?
«Les morts, les pauvres morts, ont degrandes douleurs... dice un sommo poeta. Ma I morti sono qualcosa è Properzio, quarta elegia: Sunt aliquid Manes: letum non omnia finit. Un verso a cui ho creduto per tutta la vita, e a cui credo ancora adesso, a quasi novant’anni. Sa, la Bibbia dice che l’uomo vive settant’anni. In certi casi, eccezionali, arriva a ottanta. Ma quando gli ottanta cominciano a diventare novanta, sei un sopravvissuto».
Mesi fa, in un articolo su Repubblica, lei caldeggiava per gli anziani un «servizio erotico volontario». Diciamo un aiutino infermieristico alla sessualità senile. Qualcuno ha alzato il sopracciglio.
«Davvero? Invece a me sono arrivati commenti per lo più positivi».
Magari c’è chi associa la vecchiaia, se non alla pace del desiderio, a un raggiunto senso del limite.
«Ma se sopravvive qualche bisogno, qualche passione per la bellezza, per la donna, per qualcosa che abbia a che vedere con la sessualità? Io non dicevo di ricorrere a prostitute, ma di ricevere aiuto da assistenti. Le storie di fatti erotici negli ospizi sono tante... Chi sta in una casa di riposo può sempre ottenere qualche gentilezza da un’infermiera. Non sarà frequente, ma insomma...» dice Guido Ceronetti col sorriso di chi vuol farti cortesemente capire che il tempo dell’intervista sta scadendo.
Fuori fa freddo e buio. Un buio da barbagianni. Mentre vengo accompagnato alla porta, noto appesi in corridoio il famoso basco di Ceronetti e un cappello a tesa corta che nelle foto non gli ho mai visto in testa. Chissà quando se lo mette. Non glielo chiedo. Sull’uscio gli chiedo invece:
E luce di Rembrandt (aforisma 54)?
«È la luce di Dio. Certe pitture sono rivelazioni, messaggi. Segni che l’uomo non è un meccanismo da tassare, da adulare o da spingere al consumo, ma qualcos’altro. La prova? Per esempio certe code davanti ai musei. Una volta ero a Parigi per una mostra di Cézanne. Come giornalista avevo avuto un’entrata che mi permetteva di evitare la fila. Guardavo la gente incolonnata e mi domandavo: perché sono là? Cézanne non è Van Gogh, ma un pittore ostico, persino più difficile di Rembrandt... Eppure queste centinaia di persone stanno qui al freddo per lui, e magari ascolteranno spiegazioni di un’idiozia unica... Poco importa: quella gente era là. Sa, si cerca sempre qualcosa...».
Marco Cicala