Notizie tratte da: Matteo Marani # Dallo Scudetto ad Auschwitz. Storia di Arpad Wisz, allenatore ebreo # Imprimatur editore 2014 # pp. 176, 15 euro., 12 dicembre 2014
Notizie tratte da: Matteo Marani, Dallo Scudetto ad Auschwitz. Storia di Arpad Wisz, allenatore ebreo, Imprimatur editore 2014, pp
Notizie tratte da: Matteo Marani, Dallo Scudetto ad Auschwitz. Storia di Arpad Wisz, allenatore ebreo, Imprimatur editore 2014, pp. 176, 15 euro.
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Arpad Weisz, sposato con Elena, due figli, Roberto e Clara. Ebreo. Prima giocatore poi allenatore. Tre scudetti vinti in Italia: uno sulla panchina dell’Inter e due su quella del Bologna, più il Trofeo dell’Esposizione di Parigi, una sorta di Champions League dell’epoca.
«Non è alto e non è basso. Non è bello e non è brutto. È un uomo normale, nelle forme fisiche quanto nel volto. Eppure basta osservarlo qualche istante per non staccargli lo sguardo di dosso. Veste elegante, ha modi garbati, letture importanti alle spalle che gli garantiscono un italiano ricco e forbito, che pure non è la sua lingua madre. Ha scritto un manuale che fa testo nel mondo del calcio, e non solo da noi. Il corpo assomiglia al suo calcio: asciutto e funzionale. Forse nasconde una punta di vanità».
Ancora nel 1932, nell’intervista con Emil Ludwig, Mussolini era stato categorico: «L’antisemitismo non esiste in Italia. Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come cittadini e come soldati si sono battuti coraggiosamente».
Il 16 febbraio 1938, Mussolini aveva prodotto l’informativa numero 14, documento è considerato il momento zero dell’antisemitismo italiano: «Il governo fascista non ha mai pensato, né pensa di adottare misure politiche, economiche, morali contrarie agli ebrei in quanto tali, eccettuato beninteso nel caso in cui si tratti di elementi ostili al regime». Nella cir¬costanza, Mussolini specifica che il futuro degli ebrei dovrà essere in Palestina, bensì in una parte dell’Africa, forse suggerita come risposta italiana all’ipotesi tedesca del Madagascar, che resterà in piedi almeno sino al 1940.
Weisz non fa parte della comunità ebraica bolognese, una delle venticinque che compongono l’Unione, non frequenta la sinagoga costruita nel 1928 e che andrà distrutta nel 1943 dai bombardamenti.
«Il Governo fascista – fa sapere il regime attraverso il Minculpop – si riserva di vigilare sull’attività degli ebrei venuti di recente nel nostro Paese e di far sì che la parte degli ebrei nella vita complessiva della Nazione non risulti sproporzionata ai meriti intrinseci dei singoli e all’importanza numerica della loro comunità». Gli ebrei sono accusati di occupare in maniera schiacciante alcune categorie professionali: troppi medici, troppi avvocati, troppi insegnanti e in questo caso anche troppi allenatori. Weisz e il collega del Torino, Ernest “Egri” Erbstein, costituiscono un’eccedenza. Entrambi ebrei, valgono un ottavo delle panchine di serie A, un’insopportabile sproporzione rispetto a un quadro che conta circa quarantamila ebrei su un totale di quaranta milioni di italiani. Uno ogni mille rispetto a due su sedici. Anomalia che il regime cancellerà in fretta.
Ernest “Egri” Erbstein, costretto a lasciare il Paese nel 1938, morirà poi nel 1949 sull’aereo del Grande Torino schiantatosi a Superga.
Sempre nel 1938 al Ministero della Cultura popolare, sotto la supervisione di Bottai, sono invitati i direttori di sei giornali satirici. La via della vignetta malevola è giudicata la migliore per consolidare lo stereotipo contro l’ebreo. E sulle riviste, da tempo, abbondano giudei con lunghe barbe, nasi adunchi, sempre intenti a speculazioni, sotterfugi, espedienti per abbindolare il povero mediterraneo, anzi, l’ariano-mediterraneo, come si ostina a definirlo il regime, invero con scarso senso del grottesco. I fogli sportivi si adeguano anch’essi. Così su “Il Calcio Illustrato” apparirà una caricatura anche di Weisz.
Il 13 luglio 1938 un gruppo di studiosi fascisti presenta il Manifesto della razza. Il documento ha tre punti fermi: la popolazione italiana è di origine ariana; è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti; gli ebrei non appartengono alla razza italiana. In quest’ultimo caso, perché «non si sono mai assimilati agli italiani».
Poco dopo la pubblicazione del Manifesto della razza, Il Calcio Illustrato scrive: riporta una notizia riguardante Felsner, collega di Arpad: «L’occhialuto dottore è stato visto a Bologna e sembra che sostituirà Weisz, il quale dovrebbe, fra qualche mese, lasciare l’Italia in seguito alle leggi razziali».
Nel settembre 1938 i calciatori ungheresi Schlosser e Braun sono arrestati al Municipio di Budapest mentre falsificano le carte d’identità di cittadini ebrei, facendosi risultare di religione cattolica. Nel gennaio ’39 a Vienna, si toglierà la vita Mattias Sindelar, soprannominato Cartavelina, il più grande calciatore austriaco di ogni tempo, ebreo e terrorizzato dall’Anschluss.
In Italia il ministero degli Interni si è trasformato nella centrale operativa e cervello politico per governare i provvedimenti razzisti. Da luglio 1938 è al lavoro la Direzione generale per la demografia e la razza, nota come Demorazza. Accanto a questa, opera l’Ufficio centrale demografico. I due apparati, hanno annotato, trascritto, registrato ogni dato sugli ebrei, sotto la guida di un antropologo razzista di nome Guido Landra. Nell’agosto del 1938 si è aggiunto un altro punto alla mappa: l’ufficio studio dei problemi della razza creato presso il gabinetto del Minculpop. «Gli ebrei d’Italia – ha scritto Michele Sarfatti – vennero accuratamente individuati, contati, schedati». In mezzo c’è finito anche Weisz.
Arpad Wisz nasce il 16 aprile 1896 a Solt, a circa cento chilometri da Budapest, figlio dell’ebreo Lazzaro e dell’ebrea Sofia. Ha giocato, lavorato in banca e si è iscirtto a Giurisprudenza, senza però terminarla. È stato prigioniero dei soldati italiani sul Carso durante la prima guerra mondiale, arrestato nella nostra risalita patriottica dopo la disfatta di Caporetto.
Da giocatore Weisz è un’ala sinistra veloce e insidiosa, tutta scatti e cross, fisico non possente ma grande tecnica. Partecipato alle Olimpiadi di Parigi nel 1924 con il suo Paese, l’Ungheria, una spedizione che vede altri sette ebrei in rosa. In tutto in carriera colleziona sette presenze in Nazionale.
In Italia arriva nel 1924, scelto dal Padova, solo sei presenze e un gol. K’anno successivo passa all’Inter, dove realizza tre gol in undici partite. Poi, causa in infortunio, comincerà la carriera di allenatore.
Sui giornali intanto il suo cognome cambia: non più Weisz ma Veisz, per l’autarchia linguistica imposta dal fascismo. Quella che dal 1928 costringerà il Milan a trasformarsi in Milano o il Genoa in Genova. E che nel 1936 imporrà ai giornali sportivi la soppressione del termine penalty in luogo del calcio di rigore.
Il 24 settembre 1929 sposa Elena, ebrea ungherese come lui,
a Szombathely, la città a ridosso dell’Austria in cui Ilona Rechnitzer, come risulta iscritta all’anagrafe del suo Paese, è nata il 7 ottobre 1908. I due figli li battezzeranno secondo il rito cattolico, a riprova di quanto incida poco la religione nella vita di Weisz.
In quegli anni ungheresi e austriaci, raccolti sotto la definizione di scuola danubiana, sono giudicati all’avanguardia nel mondo del pallone. Per capire, nel 1935 sette dei sedici allenatori della serie A sono ungheresi, rispetto ai cinque italiani.
Il ct Vittorio Pozzo, che nel ’34 ha guidato la Nazionale italiana alla vittoria del Mondiale, ha copiato da Weisz l’idea dell’allineamento dei cinque terzini, con le pedine impegnate sia in fase difensiva che offensiva.
«Weisz ha compiuto una rivoluzione nel gioco statico dell’epoca, un ribaltamento del pensiero dominante, merito che spinge alcuni a vederne il padre del pallone moderno, sicuramente il più illustre importatore del “sistema” inventato a Londra, all’Arsenal, dal maestro Herbert Chapman. È il wm, come viene sinteticamente riassunto in base alla disposizione in campo dei giocatori, con il quale giocherà la maggioranza delle squadre italiane a partire dal dopoguerra».
Wisz è il primo allenatore a vincere un Campionato in Italia a girone unico, nel 1929-30, alla guida dell’Inter, e il primo straniero in assoluto a vincere uno scudetto in Serie A.
Con lui nell’Inter farà la prima comparsa a 17 anni Giuseppe Meazza. Da lì a poco per l’intera nazione Meazza diventerà il Bepp, il Balilla adorato dalle folle. Presto sarà il mito esaltato da Benito Mussolini, che lo eleverà a emblema del fascismo, e il testimonial preferito della pubblicità, che affiancherà il volto a brillantine, dentifrici e automobili.
Weisz aiuta Meazza a diventare ambidestro, costringendolo a lunghi esercizi palla al muro.
Nel 1930, insieme al dirigente dell’Inter Aldo Molinari, dà alle stampe il manuale Il giuoco del calcio, edito da Alberto Corticelli. Contiene le norme tecniche, i ruoli in campo, la metodologia di allenamento, oltre a norme pratiche e regolamentari. Diventerà subito e per molri anni il punto di riferimento per tutti gli allenatori italiani.
Nel 1935 passa ad allenare il Bologna, voluto dal presidente Renato Dall’Ara. Dall’Ara è un personaggio dal linguaggio improbabile che fa sorridere i bolognesi con gaffe dialettali, in un improbabile idioma di emiliano misto latinorum («Sine qua non, siamo qua noi»), e allo stesso tempo è un imprenditore determinato e abile nello sfruttare le amicizie in seno al fascismo?
Dall’Ara è stato obbligato a prendere il Bologna nel 1934. Si sostiene in giro che sia stato Mussolini in persona a tirarlo dentro l’impresa, smanioso di mettere in secondo piano Leandro Arpinati, il gerarca che ha fatto grande lo sport bolognese e che ha fatto ombra a molti a Roma.
Dall’Ara, famoso per la capacità di spuntarla con i calciatori: li tiene per ore in sala d’attesa finché non si presentano di fronte a lui sfiniti, affamati, e a quel punto detta le condizioni dello stipendio. Le lunghe anticamere vanno in scena negli uffici dell’azienda di maglieria in via Marconi, sotto lo sguardo del segretario Oppi, oppure negli altri uffici che si affacciano su piazza Maggiore.
Il Bologna degli anni Trenta è famoso in tutta Europa per il suo Satdio, disegnato dall’ingegnere Costantini, la cui prima pietra è stata posta, nel giugno del 1925, da Vittorio Emanuele III. Due anni dopo è stato inaugurato da Mussolini, trionfante su un cavallo bianco e vittima dell’attentato di Anteo Zamboni, poche ore più tardi. Lo stadio costituisce un emblema del fascio bolognese, al punto da essere mostrato a ogni visitatore istituzionale di passaggio in città. Nel 1964, dopo la sua morte, sarà intitolato a Dall’Ara.
Lo stadio di Bologna ha quattromila posti nel parcheggio, cinquantamila sugli spalti, seicento bambini che ogni giorno frequentano gratuitamente la piscina limitrofa (tra questi anche Roberto, il foglio di Weisz). Ma l’attrazione maggiore è la torre di Maratona. Alta ventiquattro metri, modellata su diversi livelli, ha in cima la bandiera regalata alla città dalla Marina militare. Più in alto, sulla punta estrema del pennone, è posta la statua dorata della vittoria. Prima di essere smontata (oggi è visibile nella tribuna dello stadio) diventerà il bersaglio dei soldati americani accampati sul terreno di gioco durante la risalita del fronte alleato.
Nel 1936 lo stipendio massimo di un calciatore di Serie A è di 3.000 lire al mese, circa duemilasettecento euro attuali.
Mussolini e Weisz si ritrovano a distanza di pochi metri uno dall’altro nell’agosto del 1936, quando il Duce premia gli atleti che hanno brillato alle Olimpiadi di Berlino, guidati da Frossi. E nel cerimoniale sono inseriti i giocatori del Bologna vincitori del campionato. La consegna delle onorificenze si svolge in piazza di Siena, a Roma, dove il capitano rossoblu, Gianni, riceve una medaglia di bronzo dopo aver sfilato assieme ai suoi compagni, vestiti con casacca, cravatta e una piccola bustina di sapore militare.
Nel 1937, mentre a Parigi il Bologna di Weisz vince il Trofeo dell’Esposizione (una sorta di Champions League), a pochi chilometri dallo stadio sono uccisi i fratelli Rosselli. A novembre, l’Italia stipula con la Germania e il Giappone il Patto Anti-Comintern, preludio di quello D’Acciaio. A dicembre esce dalla Società delle Nazioni.
Il nome di Weisz finisce nell’elenco degli ebrei da cacciare dall’Italia. Il censimento l’ha imposto Mussolini il 5 agosto 1938, con l’ennesima informativa, anche se materialmente si realizza il 22 dello stesso mese. Sono registrati gli ebrei stranieri residenti nel Regno, a eccezione di chi ha dimora provvisoria dovuta a ragioni di cura o di turismo. Risultano ottomilacento i discriminati come Weisz. È un documento talmente sconveniente da essere segretato dallo stesso Ministero dell’Interno. Una copia verrà ritrovata nella caserma delle SS a Bolzano, l’ultima a cadere nel 1945.
L’8 aprile 1938 è impedito agli ebrei di collaborare a giornali e riviste, il 17 agosto di ricoprire cariche pubbliche in enti dipendenti dal Ministero degli Interni. A questo si aggiunge il divieto di essere dirigenti di grandi aziende, bancari o assicuratori, pompieri e bibliotecari, di tenere a servizio domestici non ebrei. L’Accademia dei Lincei allontana poi undici israeliti, pittori e scultori ebrei vengono banditi dalle mostre e censurati dalle pubblicazioni, ad altri è fatto divieto di essere iscritti ad associazioni culturali e ricreative, antipasto della paradossale impossibilità, sancita nel 1942, di leggere o vedersi prestare libri dalle biblioteche.
Con le leggi 1390 e 1630 a inizio di settembre il fascismo decretato l’arianizzazione della scuola italiana. I figli di Weisz e gli altri alunni ebrei delle scuole primarie sono costretti ad abbandonare le classi.
Weisz si dimette dalla panchina del Bologna, anche si i giornali scirvono che è stato licenziato. Sessant’anni dopo, il Dizionario del Calcio di Baldini e Castoldi parlerà di un allontanamento dopo quattro giornate (in realtà sono cinque), senza spiegarne però il motivo. Altri testi non renderanno migliore giustizia.
I Weisz hanno l’obbligo di lasciare l’Italia entro sei mesi dal 7 settembre 1938, quindi non oltre il 6 marzo 1939. La scadenza è critta sul decreto 1381, quello che investe gli ebrei stranieri. Mussolini fornisce anche la definizione di ebreo, togliendo speranza ai figli di Weisz: «Qualsiasi nato da due genitori ebrei, indipendentemente dalla religione da lui professata».
Nel novembre 1938 i Weisz vanno a Parigi perché è vicina, è un posto dove gli ebrei possono ancora lavorare, è una buona piazza calcistica e Arpad conosce un po’ di francese.
In Francia in realtà circola uno strisciante antisemitismo. Villaplane, il capitano della nazionale francese nel Mondiale del 1930, è uno dei più temuti filo-nazisti. Nel volgere di un biennio arriverà a collaborare attivamente con la Gestapo e si macchierà di una cinquantina di omicidi, che gli costeranno una vendetta sanguinaria nel 1944. Anche un altro calciatore, l’austriaco Myrka, risulterà vicino ai tedeschi.
Scrive Weisz da Parigi in risposta a una cartolina dell’amico Giovanni Savigni: «Ho ricevuto la tua cartolina e dico che Parigi è una bellissima città. Io non mi trovo bene perché non so la lingua e non ho nessun compagno da giuocare. Quando mi è arrivata la tua cartolina, ero tanto felice che tu ti sia ricordato di me. Ringrazio e ricambio la tua cartolina, e ti mando tanti saluti, alla tua mamma, a tuo babbo e ai tuoi fratelli. Il tuo indimenticabile amico Roberto».
Nella primavera 1939 Weisz finisce ad allenare in Olanda, al Dordrecht footbal club.
«Il calcio in Olanda è totalmente dilettantistico. Non esistono giornali specializzati come in Italia, nessun calciatore 126
svolge un unico lavoro. Il calcio è un fenomeno dopolavoristico, da diporto, per il quale si muovono alla domenica poche migliaia di tifosi».
Il ricordo di Nico Zwaan, uno dei giocatori del Dordrecht: «Noi ragazzi eravamo abituati a scaldarci, in inverno, correndo con la sciarpa addosso. La prima cosa che fece Weisz, appena arrivato, fu di farcela togliere. Era una persona umana, generosa, ma fermo quando si trattava della preparazione sul campo».
In Olanda la comunità ebraica è numerosa, circa centoquarantamila persone, di cui solo il 20 per cento si salverà dall’Olocausto.
Intanto in Germania la Berliner Fahnenfabrik Geitel & Co. ha iniziato a produrre stelle gialle, con al centro la scritta “Jude” in nero, da apporre su giacche e cappotti degli ebrei tedeschi.
Weisz cerca di non comparire mai nelle foto in Olanda. Dick Bergeijk, difensore del Dfc: «Era una persona timida, ma molto cortese con tutti noi. Era spaventato, cercava di evitare ogni presenza nelle fotografie. Quando parlava dell’Italia era ancora triste».
Il 10 maggio 1940 i tedeschi entrano a Dordrecht e, dopo un breve combattimento sul pinte di Moerdijk, conquistano la città. Il 14 maggio l’Olanda si arrende: alle ore 16.50, in seguito al bombardamento di Rotterdam e alla minaccia di un attacco su Utrecht, le truppe locali depongono le armi.
Il 5 ottobre 1940 i tedeschi chiedono e ottengono il licenziamento di tutti gli ebrei dal servizio civile, il 22 ottobre da tutte le aziende private. Le ventimila aziende olandesi devono chiudere o cedere la proprietà, in un processo di espropriazione che vede al centro la Dresder Bank.
Anche Han Hollander, il commentatore radiofonico più famoso in Olanda, viene licenziato in tronco perché ebreo. Nel marzo 1928 aveva fatto la prima cronaca di una partita nella storia della radio nazionale, Olanda contro Belgio, e negli anni Trenta ha contribuito a sviluppare il calcio nel Paese.
Il 29 settembre 1941 la polizia fa sapere ai dirigenti del Dordrecht che da quel momento in poi Weisz non potrà più allenare, essendogli proibito «trovarsi su un terreno dove sono organizzate partite accessibili per il pubblico».
Dirà, a guerra finita, l’ex ss Willy Lages: «Non saremmo stati in grado di arrestare neppure il dieci per cento degli ebrei senza l’aiuto degli olandesi».
Il 1 maggio 1942 i tedeschi impongono l’obbligo tassativo per tutti gli ebrei di portare su giacche e cappotti la stella gialla, cosa che finora era avvenuta solo in Germania.
Altre limitazioni imposte dai nazisti agli ebrei olandesi: il coprifuoco dalle sei alle dieci di mattina, la possibilità di fare acquisti solo tra le due e le cinque del pomeriggio così come di usare i mezzi pubblici, il divieto di entrare in case non ebree ecc.
La mattina del 2 agosto 1942 la Gestapo si presenta alla porta della casa dei Weisz per arrestarli e trasferirli in un campo di lavoro.
Il documento relativo a quella mattina estiva specifica che «la casa è stata sigillata su ordine della polizia tedesca. Gli abitanti sono stati portati via. La polizia di Dordrecht deve sorvegliare la casa». Quello che non viene specificato è la fine che faranno i mobili e i beni dei Weisz: confiscati e inviati in Germania a disposizione dei sinistrati del Reich. Se dovesse esserci qualcosa di prezioso, verrebbe consegnato a Göring in persona. In caso di un’opera d’arte, a Himmler. Le collezioni di francobolli alle Poste tedesche. Come sostengono storici quali Hilberg, il saccheggio, che varrà quattrocento milioni di fiorini nella sola Olanda, fu condotto con la stessa precisione dello sterminio dei proprietari.
«Il 22 giugno 1941 le truppe tedesche hanno invaso l’Unione Sovietica, rompendo il patto siglato nel 1939 per la spartizione della Polonia. In quel quadro sono scattati i primi massacri. In Ucraina, in Bielorussia, nella parte occidentale della Russia, man mano che l’avanzata tedesca è proseguita sono aumentati i pogrom e le esecuzioni. Sono spuntate, sempre lì, le prime camere a gas mobili, impiantate su camion. Ma l’ingegneria del genocidio ha avuto bisogno di una migliore programmazione, una sorta di industria della morte. Si è pensato perciò di concentrare gli ebrei, anche quelli occidentali, in campi di sterminio. Auschwitz ha aperto da pochi mesi. Nella ricordata riunione da Heydrich, che verrà ucciso nel protettorato ceco con un attentato mentre è alla guida della sua auto, è stato preparato un calendario della deportazione, specificando da quali Paesi si sarebbe partiti nell’opera di annientamento. L’Olanda è in testa».
Il campo di concentramento in cui finiscono i Weisz si chiama Westerbork, nella zona nord-est dell’Olanda.
A Westerbork i prigionieri sono sottoposti alla trafila iniziale: la registrazione dei documenti, l’assegnazione di una baracca, il cosiddetto blocco; quindi l’ispezione dei capelli e quella del corpo. Nudi insieme agli altri, in uno stanzone stanno gli uomini, in un altro le donne. A ognuno è stato concesso di portare una valigia. Westerbork non ha camera a gas. Non è un campo di sterminio. È un campo di passaggio. Ma racchiude i due aspetti salienti della deportazione: l’apparente normalità e la sospensione delle vite e dei tempi. Nel campo va in scena una routine che ricopia quella abituale: matrimoni, nascite, un teatro dove si tengono opere in tedesco e una baracca-scuola dentro cui si affacciano, probabilmente, sia Roberto che Clara Weisz. Ci sono alcune botteghe, un ospedale, una libreria e persino un campo da calcio, con un filmato dell’epoca che mostra una partitella seguita da tanti sostenitori a bordo campo.
Da Westerbork passerà anche Anna Frank.
Anche ad Auschwitz, non lontano dalle camere a gas, i prigionieri continueranno a giocare a calcio.
I Weisz salgono sul treno per Auschwitz il 2 ottobre 1942. Sullo stesso convoglio altre 1.100 persone.
Esistono testimonianze in abbondanza su che cosa furono i trasporti coatti, raccontati da ogni angolo d’Europa. Nelle carrozze non c’è luce, non c’è posto, non c’è intimità. Non c’è cibo, non c’è acqua. Ogni esigenza, anche fisiologica, va consumata in piedi. Il treno non fa soste.
Ad Auschwitz si sono svolti i primi esperimenti con il gas. È successo nel blocco undici, usato da obitorio. Un’organizzazione articolata e complessa, che 188 ha richiesto l’intervento costante di ingegneri e architetti per allargare le fauci del mostro. La struttura è in continua espansione, considerato che i centosettantacinquemila prigionieri che stanno per passare in questo 1942 verranno triplicati in appena un anno, in attesa di esplodere con l’arrivo degli ottocentomila ungheresi nel ’44. I due forni iniziali si sono dimostrati insufficienti ed Eichmann ed Hess hanno reperito due fattorie nei pressi di Birkenau, un paio di miglia dal campo principale, per aumentare la loro pazzoide missione. Ogni forno deve avere una doppia fornace e due ciminiere.
Ad Auschwitz gli occupanti hanno stelle colorate: gli omosessuali il rosa, gli zingari il nero, i politici il rosso, i testimoni di Geova il viola, i prigionieri comuni il verde, gli ebrei il solito giallo.
Il 5 ottobre 1942, quando la famiglia Weisz arriva ad Auschwitz, le rotaie non terminano ancora all’interno del campo di concentramento come succederà nel 1944, ma il treno si arresta ancora sulla banchina di Birkenau. È una fermata programmata apposta in quel punto, a pochi metri dalle camere a gas. I primi forni crematori li ha fatti costruire il comandante Rudolf Hess nel luglio del 1940, all’apertura del campo, ma il sistema per uccidere non ha trovato pratica soluzione finché, nel giugno 1942, non si sono usate per la prima volta due vecchie case coloniche protette da alberi e cespugli. È lì, spargendo lo zyklon B in stanze sigillate, che la fabbrica dello sterminio ha avuto compimento. Himmler ha preteso di assistere di persona alla soluzione.
Una volta scesi dai treni i ragionieri vengono divisi. Se le guardie indicano la parte destra si va nel campo di Auschwitz i, se alzano il braccio sinistro si finisce dritti nelle camere a gas di Birkenau. Elena Weisz, Roberto Weisz e Clara Weisz finiscono a sinistra. Aropad non risulta in nessuno dei due registri, è probabilmente sceso alla fermata precedente, a Cosel, in un campo di lavoro.
Sulla banchina di scarico dei prigionieri sono sempre presenti alcuni medici nazisti. Carl Clauberg cerca cavie per studiare la sterilizzazione femminile, Horst Schumann lavora su un vecchio progetto di eutanasia. Sotto la direzione di Eduard Wirths, il capo di questo maledetto squadrone della morte, ce n’è uno in guanti bianchi, Josef Mengele, che cerca soprattutto gemelli e piccoli zingari per le sperimentazioni: ha in mente di trovare la strada genetica che porti a una riproduzione della razza ariana.
La madre con i due piccoli Weisz seguono le indicazioni delle SS. È stato spiegato loro che dovranno lavarsi prima di mangiare un buon pasto caldo e di affrettarsi perché non si raffreddi. Ai condannati vengono dati asciugamani e sapone. Sulla parete della camera a gas c’è scritto «lavatoio». Da agosto 1942 nelle camere a gas il monossido di carbonio è stato sostituito dall’acido cianidrico, lo zyklon B. Basta un milligrammo per ogni chilo di peso delle vittime. Con sei chili si uccidono millecinquecento persone. Lo producono due aziende e ogni sei settimane riforniscono Auschwitz, visto che è facilmente deteriorabile. Si muore in cinque-dieci minuti in tutto. Muoiono così il 5 ottobre 1942 a Birkenau Elena, Clara e Roberto Weisz.
Di Arpad Weisz non si hanno tracce, è probabilmente finito in un campo di lavoro. Si sa solo che morirà il 31 gennaio 1944.