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 2014  dicembre 12 Venerdì calendario

IO, LA BAMBINA E LA ‘NDRANGHETA… LA MIA VITA IN FUGA DAI BOSS


ROMA. «Facciamo un gioco: da oggi ci inventiamo una vita nuova. Io non sono io e tu non sei tu». Sono madre e figlia in una città senza nome. I nuovi documenti di identità arriveranno presto. Il giorno prima hanno messo due stracci in una valigia e hanno lasciato la Liguria. Adesso sono al sicuro, sotto protezione dello Stato.
Siamo nel febbraio del 1998. Maria Stefanelli, vedova del boss «Ciccio» Marando, ha deciso di collaborare con la giustizia. È testimone nel maxiprocesso Minotauro, che ancora oggi si sta celebrando a Torino contro le cosche calabresi infiltrate in Piemonte.
Quando Maria entra nell’Aula bunker di Torino, indossa il passamontagna, nasconde il volto da quegli sguardi che conosce bene. Loro nelle gabbie, lei dietro il paravento. Risponde alle domande del pubblico ministero cercando di raccontare solo i fatti pertinenti. In quelle parole c’è la vita di Maria. Tutte le altre parole, quelle che non hanno trovato spazio nelle carte giudiziarie, sono finite in un libro (Loro mi cercano ancora), che la testimone ha scritto insieme con la giornalista Manuela Mareso.
Maria vive ancora in un posto senza nome ed è da lì che ci chiama, da un numero anonimo, per raccontarci la sua storia. Ha una voce fresca, limpida: «Ho deciso di raccontare per guarire. Ero marcia. Ho scavato dentro me stessa. Per un anno ho scritto giorno e notte. Solo adesso sono Maria. Prima non sapevo chi fossi».
Questa storia comincia a Oppido Mamertina, nell’Aspromonte, dove Maria è nata quasi cinquant’anni fa. «Lì vivevo in un libro di favole; ero alla pagina in cui giocavo fra le strade del mio paese. Dopo non so cosa è successo».
Nel 1974 la sua famiglia, in seguito alla malattia del padre, lasciò la Calabria per trasferirsi in Liguria, a Varazze. «Ricordo che andai a portare il mio unico paio di scarpe dal calzolaio. Lo pregai di sistemarmele in pochi giorni perché dovevo prendere un treno. Siamo partiti con le valigie legate con lo spago. Quando arrivammo l’impatto fu forte: la città era bellissima, piena di palazzi. Eravamo poveri ma felici, poveri ma buoni. Mio padre ci venne a prendere alla stazione, ci sistemammo in un piccolo appartamento: era una casa sul mare».
In quegli anni non c’era un soldo. Maria andava a zonzo per la città a cercare qualcosa da mangiare nei cassonetti della spazzatura. Quando riusciva la rivendeva. Le cose peggiorarono quando suo padre morì. La madre si risposò con il cognato: Zio Antonino, l’orco.
Il libro di favole si chiuse: gli abusi sessuali del patrigno, le botte, la paura e poi un giorno la ‘ndrangheta.
Sul giornale lesse che la sua famiglia era coinvolta nel sequestro di Tullia Kauten, era il 1981. «Fu allora che sentii pronunciare la parola ‘ndrangheta per la prima volta. Quando arrivarono i soldi del riscatto, mia madre e mio fratello ne nascosero una parte dentro delle buche nel giardino di casa. Non sigillarono bene le buste: ammuffirono».
Il nome degli Stefanelli compariva sempre più spesso nelle cronache liguri; con la cosca dei Giovinazzo gestivano il traffico di droga nel Savonese. La criminalità organizzata era arrivata anche lì. «Al Nord credono ancora che la ‘ndrangheta non ci sia. Pensano che sia una malattia da cui loro non possono essere contagiati. Be’, non è cosi. Lì si spara, si fanno estorsioni, si traffica droga. Ho visto con i miei occhi una cerimonia di affiliazione».
Come una macchia d’olio la ‘ndrangheta si era allargata in molte regioni del Nord. Maria lo sa bene.
Quando aveva 25 anni sposò Ciccio Marando, che apparteneva ad una delle più potenti cosche del Piemonte. Fu un matrimonio d’affari combinato dai fratelli di Maria. Durante la celebrazione, lo sposo, con le manette ai polsi, venne accompagnato dalla scorta. Ciccio era detenuto nel carcere Le Vallette di Torino. I Marando, originari di Platì, nel reggino, comandavano da tempo a Volpiano, una cittadina alle porte di Torino. Sperava che il potente marito vendicasse le violenze che aveva subito dal patrigno. Non sapeva che da quel momento la sua vita sarebbe stata quella della moglie di un boss.
Maria cominciò a fare avanti e indietro attraversando le carceri di mezza Italia per raccogliere le ambasciate necessario a portare avanti gli affari della cosca. Aiutò il marito a scappare dall’ospedale psichiatrico dove era detenuto. «Quando Ciccio era latitante, fui costretta a tornare in Calabria insieme a mia figlia. A Platì non potevo entrare in un bar a bere il caffè. Mi era vietato indossare le magliette a maniche corte. Non potevo andare nemmeno al mare. Le donne di ‘ndrangheta vivono come schiave. Ho scritto questo libro per loro, perché si ribellino e oltrepassino quel muro. Perché prendano i figli e scappino. So cosa significa vivere nella paura di essere malmenata per nulla. Ciccio ha cercato di ammazzarmi. Mi ha picchiato così forte da farmi abortire il feto che tenevo in grembo. Non ho fatto in tempo ad amarlo: nel 1996 venne ucciso».
Il suo cadavere venne ritrovato carbonizzato in Piemonte. L’anno successivo vennero uccisi un fratello e il patrigno di Maria ritenuti fra i responsabili della morte di Ciccio Marando. Fu allora che Maria capì: se non si fosse messa nelle mani dello Stato, le prossime a sparire sarebbero state lei e la sua bambina. «Decisi di parlare. Per paura? Sì. Per salvare mia figlia? Sì. Ma anche perché sono in dovere nei confronti dello Stato. Raccontare è necessario. So che sono responsabile delle vite di coloro che accuso, le mie dichiarazioni possono determinare il destino di intere famiglie. Ed è per questo che ho parlato solo di ciò che conosco. Io non devo vendicarmi di nessuno. La morte me la porterò comunque dentro per sempre». Eppure mentre pronuncia queste parole, Maria ride dall’altra parte del telefono. Forse perché, oltre alla ‘ndrangheta è sopravvissuta anche a un cancro. «Ho lottato perché avevo il dovere di crescere mia figlia. E ora mi riconosco davvero. Voglio continuare a provare emozioni». Nella città senza nome dove ora vive, le piace camminare senza ombrello, e sentire la pioggia addosso. «Non è vero che non ha odore».