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 2014  dicembre 12 Venerdì calendario

IL SICILIANO CHE SCOPRÌ IL SACCO DI ROMA


ROMA. Dice il colonnello Mario Mori che, quando lui nel giugno del ’92 contattò l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, per «barattare» qualcosa per conto dello Stato, in cambio della fine delle stragi, «in quel periodo erano tutti nascosti sotto le scrivanie». Ma non i due gemelli. Loro la scrivania, intesa come uno scudo, avevano già deciso di lasciarla. L’uno dei gemelli, Giuseppe Pignatone, siciliano di Caltanissetta, classe 1949, attuale capo della procura capitolina, che ha guidato il blitz del 2 dicembre contro Mafia Capitale, non era mai stato, in passato, un magistrato di strada. Niente di più distante dall’immagine del «giudice sceriffo». Pignatone era un mago dei reati finanziari, abilissimo a destreggiarsi fra le trappole dei palazzi. Per anni aveva condiviso la stanza del tribunale di Palermo con l’altro gemello, Guido Lo Forte, che in futuro diventerà l’aggiunto di Caselli alla guida della procura palermitana, l’accusatore di Andreotti, e infine il procuratore capo di Messina. Entrambi si occupavano di crimini amministrativi. Lavoravano lontani dagli omicidi eccellenti e dalla guerra di mafia degli anni Ottanta. Ma non dalle indagini più scabrose. Oggi gli ex gemelli rappresentano le due anime mai riconciliate della magistratura italiana.
Dopo il blitz di Mafia Capitale, Pignatone passerà alla storia giudiziaria per una rivoluzione copernicana firmata di suo pugno. Alla guida di una procura definita in passato il «porto delle nebbie», sempre elusiva a rispondere alla domanda se vi sia o meno la mafia a Roma, Pignatone non solo ha risposto che una mafia nella capitale c’è, eccome. Ma che il 416 bis, il reato di associazione mafiosa, oggi non va applicato esclusivamente alle tradizionali organizzazioni criminali (Cosa Nostra, camorra, ‘ndrangheta) ma a tutte le gang che utilizzino metodi mafiosi. Da qui gli «avvisi» all’ex sindaco Gianni Alemanno e all’ex Nar Massimo Carminati. Le mafie, spiega Pignatone, si sono evolute, hanno meno affiliati, non controllano più militarmente un territorio, il loro business è passato dalla droga agli affari «puliti». Quel che resta è un mix di minacce a mano armata e uso senza colori della politica. L’intero scenario, insomma, deve essere aggiornato.
Ci si chiede se una simile interpretazione reggerà al vaglio dei processi. Un conforto sarebbe venuto a Pignatone da parte del giurista Giovanni Fiandaca, candidato nel Pd siciliano e bocciato alle ultime europee, esperto vicino al Quirinale e a Emanuele Macaluso, autore con lo storico Salvatore Lupo di un pamphlet (La mafia non ha vinto, Laterza) considerato una Bibbia dagli oppositori del processo in corso sulla trattativa tra Stato e mafia. Pignatone, nell’aprile scorso, partecipò alle assise promosse da Fiandaca, dal titolo Ripensare l’antimafia, che chiamarono a raccolta un ampio fronte opposto agli eredi di Caselli. Tra questi ultimi, ci sono l’ex pm Antonio Ingroia, l’attuale procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, il pm del processo sulla trattativa Nino Di Matteo, il giornalista Marco Travaglio.
Pignatone sa di muoversi su un terreno minato. Proprio per questo, affermano i maligni, avrebbe «pilotato» i tempi del suo blitz. Le origini dell’inchiesta su Mafia Capitale risalgono al 2010. Ma, causa «doverosi accertamenti», nessuno ha mai pensato di farlo scattare mentre Alemanno sedeva in Campidoglio. Ipotesi malevola? Non tanto. C’è chi fa notare che l’onda «garantista», puntuale seguito di ogni tsunami «giustizialista», ha già fatto capolino dalla penna di Giuliano Ferrara, che sul Foglio agita il fantasma di una Mani Pulite bis all’amatriciana. Si è letta in chiave politica anche la partecipazione del procuratore a un convegno del Pd di novembre: invitò i politici ad annotarsi una frase di Falcone: «Possiamo sempre fare qualcosa».
Al procuratore di Roma è stato ricordato di essere figlio di Francesco Pignatone, potente deputato della Dc siciliana degli anni 50, uno dei padri del milazzismo (il governo 1955-60 destra-sinistra, varato per tagliare fuori la Dc di Fanfani) e della Regione «imprenditrice». Non è detto che sia un peccato. Pignatone ha nel Dna un’esperienza impareggiabile, a differenza di colleghi che hanno conosciuto solo carceri, cadaveri e traffici di droga: conosce i palazzi del potere. Erano per lui materia di indagine. Da anni ne studia i segreti. E questo è un bel vantaggio. Magari rafforzato dall’eredità familiare.
Nominato Caselli procuratore di Palermo, Pignatone nel ’96 scelse la via dell’esilio in pretura. Ma come detto, aveva già scelto e attendeva solo un’opportunità. Quell’epoca, successiva alle stragi, si era inaugurata con la «consegna» del superlatitante Totò Riina. Un «regalo» che il colonnello dei Ros Mario Mori farà a Caselli nel giorno dell’insediamento. Lasciandogli però anche la «polpetta avvelenata» della mancata perquisizione del covo. Sono gli anni dei dibattimenti su Andreotti, Dell’Utri e Contrada. Ma è anche l’epoca dell’onda di ritorno: le manifestazioni contro Caselli davanti palazzo di giustizia a Palermo, i grandi successi elettorali di Forza Italia in Sicilia, l’inarrestabile scalata al potere dell’ex presidente della Regione Totò Cuffaro.
A Caselli succederà l’attuale presidente del Senato, e prima procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso. E nella nuova stagione ci si ricorderà che, già a metà anni Ottanta, il giovane pm Pignatone aveva fronteggiato in aula il potente Vito Ciancimino, al quale aveva sequestrato parte dell’illecito patrimonio. Da allora, il sodalizio con Pietro Grasso resterà saldissimo. Ma la procura di Palermo tornerà ben presto ad essere il mai domo palazzo dei veleni. Da un lato gli ex caselliani, dall’altro i fedelissimi del procuratore, divisi dalla gestione di quei pentiti che dovrebbero portare alla cattura dell’altro storico latitante di mafia, Bernardo Provenzano. Pignatone coordinerà le indagini che pescheranno il padrino. E si trascinerà dietro, anche allora, i sospetti di una «cattura diversificata» nel tempo. Ma incassa una soddisfazione: si rinvia a giudizio Totò Cuffaro in base alla sua ipotesi (osteggiata dai caselliani): imputare il politico di favoreggiamento alla mafia, e non di concorso esterno. L’accusa reggerà fino in Cassazione.
Non sarà abbastanza per scalare la procura di Palermo. Ancora una volta incrocia l’ex gemello, Guido Lo Forte, anche lui candidato. I veti contrapposti favoriranno alla fine l’elezione di Francesco Messineo. Nel 2008 diventa così procuratore di Reggio Calabria. Lo affiancheranno due fedelissimi, Michele Prestipino (suo aggiunto a Roma) e Renato Cortese (capo della squadra Mobile capitolina), il poliziotto che arrestò Provenzano. Pignatone ribalta il mondo, grazie a una strategia selettiva, che non spara nel mucchio ma persegue obiettivi mirati. Resiste ad attentati, intimidazioni, minacce. E, in accordo con Dda Bocassini, guida un blitz da 300 arresti.
Il trionfo nel 2012. Il Csm lo nomina procuratore di Roma. Appena arrivato, invia il capitano Ultimo, Sergio De Caprio (l’uomo del colonnello Mori che arrestò Riina ma non ne perquisì il covo) a bussare nell’abitazione di Massimo Ciancimino, per indagare su un riciclaggio legato alla più grande discarica di rifiuti europea, in Romania. Inchiesta non priva di veleni: Massimo è anche l’uomo che ha denunciato l’esistenza della trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Ma siccome i paradossi non finiscono mai, Pignatone ha anche ritrovato sul cammino Guido Lo Forte, che si è ricandidato alla procura di Palermo. E ancora una volta lo avrebbe osteggiato. «Pignatone? Un normalizzatore». «No, un giustizialista. Vede mafia dove non c’è». Bene. Aggiorniamoci. Sciascia riposi pure in pace. D’ora in poi ci vorrà un altro siciliano: Pirandello.
Piero Melati