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 2014  dicembre 11 Giovedì calendario

IL GOVERNO DEI DIRITTI SENZA DOVERI

Non so che cosa ne sarà, alla fine, delle proposte del governo in materia di depenalizzazione e non punibilità di alcuni reati. Nelle ultime settimane se ne è parlato molto, ma sarebbe stato meglio parlarne in aprile, quando, con l’approvazione della legge 67, il governo ottenne dal Parlamento la delega a fare tutto ciò che ora sta facendo. E dire che, contrariamente a quel che è accaduto con il Jobs act, quella legge-delega era chiarissima e molto dettagliata: prevedeva minuziosamente e analiticamente un corposissimo insieme di misure per trasformare reati in illeciti amministrativi, e soprattutto per alleggerire le modalità di espiazione della pena, prevedendo sanzioni pecuniarie al posto di sanzioni penali, arresti domiciliari al posto del carcere, generosissime agevolazioni nel pagamento delle sanzioni pecuniarie (dimezzamento degli importi e rateizzazioni, l’esatto contrario di quel che fa il fisco con il contribuente).
A quel che se ne sa, l’ambito di applicazione è vastissimo: vi possono rientrare furto, truffa, violenza privata, vari reati connessi alla droga e all’immigrazione clandestina, nonché l’occupazione di case. Io non sono un giurista, e quindi mi guarderò bene dall’esprimere valutazioni sul funzionamento effettivo di queste norme, se mai verranno approvate in via definitiva. Può darsi che, come auspica il governo, il loro effetto sia soprattutto di cancellare processi, sgravare i magistrati, ridurre l’affollamento delle carceri. E può darsi invece che, come temono in molti, il loro effetto sia di moltiplicare le condotte criminali e aumentare ancora di più il potere discrezionale dei giudici, visto che in vari passaggi della legge delega si raccomanda di tenere conto delle «condizioni economiche» e della «personalità» di chi commette un illecito.
Quel che però mi sembra chiarissimo è il messaggio che con queste norme si invia ai cittadini. Anziché preoccuparsi di rendere le carceri un luogo civile anziché una vergogna nazionale, anziché occuparsi di trasformare finalmente la pena detentiva in un mezzo di rieducazione e reinserimento (come prevede la Costituzione), i nostri governanti preferiscono battere la strada più comoda, quella di rendere effettivamente punibili solo alcuni reati stabiliti dall’esecutivo chiudendo un occhio su buona parte degli altri.
Si potrebbe pensare, benevolmente, che questo orientamento del governo sia stata una svista di primavera, o che sia esclusivamente finalizzato a dare un sollievo alla macchina soffocata da milioni di processi arretrati. Ma purtroppo non è così: negli stessi giorni in cui il Consiglio dei ministri approvava il primo decreto delegato sulla depenalizzazione il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone tesseva, sul quotidiano La Stampa, un elogio delle occupazioni delle scuole, suscitando la comprensibile reazione di molti presidi e insegnanti, increduli di fronte a un membro del governo che esalta un illecito (la protesta del mondo della scuola è anche confluita in una petizione, promossa da Giorgio Israel, in cui si chiedono le dimissioni di Faraone).
Naturalmente Faraone, che ha ribadito le sue posizioni pochi giorni fa, resterà tranquillamente al suo posto. La sua, infatti, è un’uscita perfettamente in linea con la legge 67, ossia con l’orientamento politico del governo. Il quale, a quanto pare, non riesce a liberarsi delle peggiori (e peggio assimilate) idee del ’68. Fa una certa impressione vedere gli alfieri del nuovo, che non perdono occasione per ribadire che finalmente «si cambia verso», riproporre una visione della legalità che è stata uno dei tratti distintivi della cultura di sinistra nel Novecento. Il cardine di quella visione è l’indulgenza verso i reati che hanno un carattere «sociale», o in quanto commessi in nome di una (presunta) giusta causa, o in quanto commessi da soggetti deboli. Secondo questa visione occupare una scuola, occupare case, bloccare una grande opera, impedire a un «nemico del popolo» di prendere la parola, rubare per procurarsi i mezzi di sostentamento, circolare in un paese straniero senza documenti, spacciare droga per sbarcare il lunario sono comportamenti giustificati perché dettati dalla necessità, ideale o materiale che sia.
Curioso destino, quello della sinistra. Oggi l’unica vera rivoluzione, in materia di legalità e di giustizia, sarebbe difendere «il dovere di avere doveri», dopo anni e anni in cui lo strabismo giudiziario dei sedicenti progressisti ha stigmatizzato le illegalità maggiori e chiuso un occhio su quelle ritenute minori. Ed è un paradosso che quel medesimo dovere di avere dei doveri dia il titolo all’ultimo libro di un «vecchio comunista» come Luciano Violante (Il dovere di avere doveri, Einaudi 2014), mentre le più vecchie e dannose idee della sinistra sulla legalità vengono fatte proprie dai giovani eredi del Pci.