Andrea Marcenaro, Panorama 11/12/2014, 11 dicembre 2014
LA GRANDE BRUTTEZZA CERCATELA ALTROVE
[Intervista a Barbara Palombelli] –
Conosce i giornali, ha attraversato i più importanti, conosce i giornalisti, di giornalismo vive, lo adora, e non è una di quelle signore di cui si possa dire: sì, mi pare che sia nata a Roma. Più romana di Barbara Palombelli non si può. Mille generazioni di Palombelli capitolini. Duemila per non sbagliare. Ne frequenta il generone e lo compulsa, ne respira il generino, il generetto, la politica da quarant’anni, il clero, l’aristocrazia (ex) nera, gli attori, le attrici, l’Olimpico, i sapori, i salotti, i luoghi, i dintorni, i mercati, le pulsioni e i tic. E allora. Ti trovano la mafia a Roma, mica una scemenza, la mafia, poi chiamatela Terra di mezzo, Coppola sul Pincio, Canne mozze al Colosseo, chiamatela come vi pare, i magistrati scovano dunque quella robaccia, e i giornali, tutti insieme, ti sbattono sul muso quella notizia così terrorizzante da farti cancellare il pranzo di Natale, e tu che fai, non senti la signora Palombelli? Di corsa, la senti. Ti scapicolli fino all’Eur, ti attacchi al campanello, e: «Benarrivato, ha paura dei cani?».
Più dei picciotti, veramente, signora. Gradisce un goccio di malvasia?
Volentieri, c’è la mafia a Roma, sa?
O preferisce del rosso?
La malvasia va benissimo.
La mafia? A Roma? Cosa mi dice! (e ride): lei non è sampdoriano?
Per sempre.
Avete Viperetta presidente. Lo adoro.
L’altro giorno mi fa: li dovresti vede’, quelli de Genova se tatuano il simbolo sul petto, mica sono come noi, è n’artra razza, giuro, propio n’artra razza. Ma a me me amano, a Ba’, sapessi quanto me amano.
Roma è mafiosa?
Non è mafiosa.
Come no? Sta scritto perfino sui muri: la Capitale sotto il tallone della nuova mafia autoctona. Procura dixit. E grande stampa confirmavit.
Macché. Questi ci sono sempre stati, sognano il villino a Sacrofano, una quota dello stabilimento più chic di Fregene e una bella cena di pesce. Come trenta, quaranta e cinquant’anni fa, uguale uguale. Sono gli stessi che decidevano se potevi mettere la bancarella al Colosseo, le caldarroste a via del Corso e che ti davano i soldi a strozzo.
Nessuna novità? Ma se l’Italia è sottosopra. Staranno mica tutti quanti a dare i numeri, no?
Una novità c’è. Adesso danno ordini a qualche politico. Perché non c’è più la politica. È talmente sparita dalla città l’idea stessa di decidere, costruire o modernizzare alcunché, che gli stessi che spadroneggiavano sulla bancarella, ora s’allargano un po’.
Riempiono il vuoto.
È così. Non ci sono gli eredi di Giulio Andreotti, di Enrico Berlinguer o di Maurizio Ferrara, ma anche di Renato Nicolini. E quelli, che più fessi degli altri non sono, se ne accorgono. Ti compri un vicecapo di gabinetto, o il direttore di un ufficio, e qualche affare in più puoi controllarlo. Avevano due ristoranti di pesce, una pompa di benzina e un paio di sale giochi. Pizza e fichi. Be’, la latitanza della politica ha stuzzicato l’appetito su qualche appalto pubblico.
Stuzzicato. Qualche appalto. Ci provano. E ci riescono pure. Capisco. Ma qui siamo ben oltre. Salvatore Buzzi è Al Capone. Massimo Carminati Lucky Luciano. Roma è quasi Chicago. Le darò un dispiacere, ma è la stampa che pompa queste bubbole, bellezza. La procura ha
per le mani un coniglio, lo consegna ai giornali, trasformatelo in un leone, suggerisce senza nemmeno dover suggerire, e i giornali lo fanno ruggire a nove colonne in prima. Conoscono il lavoro. Negli anni d’oro si chiamava circuito mediatico-giudiziario.
Vero. Noi giornalisti, e non solo, siamo perfetti per fare Romanzo criminale e Gomorra. Fantastiche sceneggiature. Finché non vedo uno sceneggiato sull’Ufficio di vigilanza della Banca d’Italia, non ci casco. Ma quello non c’è. Né ci sarà. Per motivi di intrecci proprietari, o di inserzioni pubblicitarie, i giornalisti non possono scrivere una riga sui 34 miliardi di derivati velenosi nelle nostre banche. Il Fatto, per dire, così parliamo dei più inflessibili, snocciolava con straordinaria pignoleria i mille e i 5 mila euro passati sottobanco a questo o a quel politico, ma i 34 miliardi li metteva dopo. E spesso è l’unico che ne può parlare liberamente. Ha mai visto un’intercettazione del Monte dei Paschi, o della Carige? Sappiamo qualcosa – sul serio – dell’Expo?
Intanto si può insinuare, grazie a una normalissima foto, che il ministro Giuliano Poletti sia un mafiosone.
Poletti è un cognome che a Roma piace molto. Si ricorda? Prima c’era il cardinale al quale Renatino De Pedis aveva fatto una donazione.
Resta un fatto. I nostri grandi cronisti giudiziari, i Bolzoni, le Milella, le Sarzanini e i Bonini e i Ferrarella, sui Romanzi criminali ci marciano. Nel frattempo, volendolo, o senza volerlo, questo non lo so, fottono chi legge.
Ripeto, non possono scrivere una riga sugli affari dei loro editori e sugli scandali che riguardano le banche importanti. I loro direttori non li lasciano.
E siccome non li lasciano, lei dice, ci raccontano con entusiasmo straripante che i quattro lazzaroni romani sarebbero i Totò Riina del Terzo millennio. Autodidatti, per di più. Ma senza nemmeno spiegare che i quattro hanno fatto carriera all’ombra della demagogia sulla superiorità di quella stessa società civile che loro stessi esaltano. Riempiono la botte dell’antipolitica, poi fingono di scandalizzarsi se qualche mascalzone se ne ciuccia un litrozzo. Lo spacciano come l’inventore del Johnny Walker in pieno proibizionismo. Intanto, si prendono due stipendi con la stessa fava.
Condivido in parte, ma lascio a lei i suoi giudizi. Posso dirle che Roma è sempre stata una e indivisibile. In Vaticano erano i capi della cricca della Protezione civile ad accompagnare i reali dal Papa. Agli stessi tavoli del Bolognese stavano seduti, l’altra sera, Riccardo Mancini con i suoi, e onnipotenti costruttori romani i quali avevano appena trafficato con gli immobili dello Ior. La cosa che cambia è una: il tenore di vita.
Migliorarlo è un’aspirazione di tutti.
Certo. Sto attenendomi all’argomento. E ai suoi confini, e ai modi con cui vengono oltrepassati da chi ha ruolo pubblico.
Ci spiega?
La mia famiglia, per fare politica, ha perso quattro ettari del più bel terreno sull’Appia antica. Li ha requisiti Francesco Rutelli (marito di Palombelli ed ex sindaco di Roma, ndr) per farne un parco municipale. Ci siamo sentiti onorati. Molto e malinconicamente onorati. Se Antonio Di Pietro entra in politica con un trattore e ne esce con 21 appartamenti, una domanda si pone. E per tutti, soprattutto per chi adorò Di Pietro.
Filippo Facci mise sull’avviso nel 1993 con una biografia non autorizzata.
E venne linciato, mi ricordo.
Dagli stessi nomi e cognomi che linciano quel disgraziato di Buzzi come il Salvatore Giuliano di Tormarancia.
Volevo concludere.
Scusi.
Poi non escludo che Rutelli abbia incontrato dei delinquenti, anzi, escluderei il contrario, ma questa casa l’abbiamo imbiancata coi miei risparmi, il sindaco Francesco era all’asciutto. La Cupola sul Cupolone è una invenzione, e Roma è Roma, è Roma, e sempre Roma. Orrori e bellezze. Lasciata troppo a lungo senza classe dirigente non sarà mai Palermo, quindi. Attenzione, però, un disastro del quarto tipo potrebbe profilarsi.
Mafia capitale.
Resta una scemenza che mi fa orrore. E mi addolora, ogni tg è come una coltellata.
Meni più forte sui suoi colleghi che sostengono la tesi.
Ma se le ho appena detto che non possono scrivere una riga sul perché l’Italia viene degradata sul piano finanziario.
Sottoscrivano un appello sulla censura di editori e direttori. Saltano. Saltino.
La loro frustrazione è enorme. Io li capisco.
Non li capisca più. Sono avatar. Anzi, avatar sdraiati su una politica di cartello. Veline, verbali. Pigri, comodi e pasciuti.
Non è solo così.
È quasi così. La difesa delle persone che conosce è onorevole. Ma lei stessa non volle mai far parte di quel giro. La Prima repubblica lei la conosceva. Misero altri, non la Palombelli, quando la si volle distruggere. E gli altri fecero il lavoro. Errare è umano, ovvio. Il guaio è che non mollano. E adesso azzardo: sanno fare solo quello. Scende da quei lombi, Mafia capitale.
È il parto dell’esaltazione della cosiddetta società civile contro la politica. Ecco, la società civile diventa cricca, e allora: viva la Prima repubblica.
Credo anch’io.
E da questo imbuto non si esce senza ammetterlo e discuterne. A Roma, quantomeno.
Adesso hanno la società civile al governo di Roma, ma non solo. Di Napoli, di Genova, di un sacco di posti. Ignazio Marino presentava doppie note spese a Pittsburgh, e passò i guai. Doveva versare il primo stipendio alla cooperativa dei detenuti di Buzzi, ma si dimenticò, dice. Resterà al suo posto. Gli avatar non lo toccheranno. Fallito come sindaco, tale rimarrà perché l’invenzione del tanto peggio salverà l’insopportabilmente brutto. La romana Terra di Mezzo di sua eccellenza il dottor Giuseppe Pignatone sta sfottendo noi Hobbit.
Così sembrerebbe, a prima vista. Ma non è colpa della magistratura se le sceneggiate che riguardano Napoli e Roma fanno ascolto e fanno vendere copie. Le inchieste si fanno anche sugli scandali del Nord, poi sono pochi a raccontarle ai lettori.