Gigi Riva, L’Espresso 12/12/2014, 12 dicembre 2014
NUTELLA AL GUSTO DI NUOVI MERCATI
BELGRADO In una delle fasi più delicate della sua storia contemporanea, col processo di adesione all’Unione europea che richiede tatto e prudenza, la voglia di lasciarsi alle spalle un recente passato turbolento, la Serbia in cerca di certezze rivolge lo sguardo verso il basso per trovare conforto nell’elemento che non l’ha mai tradita: la terra. E a cui, semmai, aveva voltato le spalle nell’epoca di una industrializzazione forzata, oggi obsoleta, e del (relativo) spopolamento delle campagne.
Sorge, una parte dello Stato, su un lembo di quella Pannonia romana che fu granaio dell’impero e che oggi si chiama Vojvodina. Lunghe distese di campi così fertili da rappresentare, nell’immaginario, l’àncora di salvezza durante i terribili anni Novanta delle quattro guerre coi vicini e la Nato, delle sanzioni e dell’isolamento. Quando si ripetevano come un mantra battute ad effetto tipo: «La Serbia non sarà mai presa per fame e sapete perché? Perché se si getta una scarpa in Vojvodina cresce un albero di scarpe». C’era dell’orgoglio e naturalmente della presunzione. Un aforisma parente dell’altra favola cresciuta assieme al mito di Tito: «Sapete perché le nostre donne non hanno cellulite? Perché il Maresciallo aveva assolutamente vietato l’uso degli estrogeni e la nostra carne è genuina». Una sorta di rivendicazione del biologico ante-litteram. Valenza scientifica dell’assunto: zero. Valenza psicologica: alta.
Adesso succede che nell’offrire atout agli investitori internazionali di cui c’è tremendo bisogno, i nuovi governanti (un miscuglio di ex radicali nazionalisti, riciclati socialisti dell’epoca Milosevic, tecnocrati e giovani dallo sguardo spalancato sul futuro) si siano ricordati che i terreni agricoli rappresentano circa il 74 per cento del territorio. E, in un mondo che ha fame di cose buone, quel valore va monetizzato. Contrordine, ex compagni, si torna alla terra. Che poi su quelle lande abbia messo gli occhi un marchio di consolidato prestigio come la Ferrero di Alba è «motivo di grande soddisfazione», per usare le parole di Ana Hrustanovic, ambasciatrice in Italia. La quale va anche fiera della mostra “Itinerarium romanum Serbiae. Viminacium” (al Complesso del Vittoriano fino al 16 dicembre), un viaggio tra i 18 imperatori nati sul suolo dell’attuale Serbia. Che c’entra? C’entra perché l’iniziativa rientra nel progetto “Roma verso Expo”, il cui tema sarà, appunto, il cibo.
Ferrero ha firmato, era lo scorso febbraio, un protocollo d’accordo con l’esecutivo di Belgrado per coltivare nocciole, ingrediente principe di uno dei suoi prodotti più globali, la Nutella. Il progetto «prevede la realizzazione di aziende pilota, lo sviluppo del settore vivaistico e la promozione della coltivazione presso i piccolo-medi agricoltori privati. Nel 2015 verrà realizzata l’azienda pilota gestita da Ferrero». Così nelle scarne comunicazioni di un gruppo che «per politica aziendale non fornisce dati sugli investimenti» (e si è già accaparrato suolo in Georgia, Australia, Sudafrica, Argentina, Cile). Qualcosa di più trapela dal versante balcanico: produzione su mille ettari, tanto per cominciare, per arrivare a diecimila entro il 2020. Le nocciole serbe fanno gola non solo al nostro Nordovest, ma anche al Nordest se la Rigoni di Asiago, leader europeo delle marmellate biologiche, a sua volta ha concluso, a fine novembre, un’intesa, che l’amministratore delegato Andrea Rigoni non teme invece di svelare nei dettagli: «Abbiamo affittato 200 ettari per vent’anni con la possibilità di prolungare per altri 20 a condizioni già stabilite. È terreno che lo Stato cederà alle municipalità. E non è che l’inizio. Altri lotti andranno all’asta nel 2015 e nel 2016 e noi ci saremo». Si trovano, quelli già prenotati, nell’angolo di Serbia al confine con Romania e Bulgaria, Paese dove Rigoni è già presente da subito dopo la caduta del Muro. L’amministratore delegato cerca materia prima per il suo prodotto di punta, la nocciolata, che ormai fa il 60-70 per cento del volume d’affari, «ma non sono in concorrenza coi Ferrero, li ho sentiti, e loro mi hanno confermato che non faranno mai la Nutella biologica». Mentre il prefisso “bio” è invece il suo tratto distintivo: «Vogliamo continuare ad essere artigiani, mantenere questo stile. E fornire qualità».
Rigoni dice di essere rimasto francamente impressionato dalla cultura contadina che la Serbia esprime e dall’attenzione verso gli stranieri di un apparato statale desideroso di promuovere gli affari: «Non avevo ancora affittato un metro di terra e avevo già incontrato il loro ministro dell’Agricoltura due volte più vari capi del suo gabinetto. Cercano di crearsi una buona immagine, di far dimenticare le pagine buie della loro storia nazionale e di migliorare condizioni economiche misere. Anche se mantengono un’ammirevole dignità».
Lo stipendo medio è di circa 370 euro netti, in un Paese che ha un tasso di disoccupazione al 30 per cento, un segno meno sulla crescita del Pil 2014 (dopo il più 2 del 2013), un rapporto tra deficit e Pil al 4,6 per cento, mentre il debito pubblico è al 62,3 per cento (meno della metà, in percentuale, di quello italiano, ma preoccupante per un’economia arretrata). L’Italia è un punto di riferimento per via di un’amicizia storica (per dire: la rivista irredentista di primo Novecento si chiamava “Piemont”), rinverdita negli anni delle guerre di fine millennio quando la nostra diplomazia era accusata di filoserbismo, consolidata ora da un effettivo reciproco interesse. Siamo il primo partner commerciale (2,38 miliardi di dollari di beni esportati, import di 2,36 miliardi), oltre al primo investitore estero (circa due miliardi di euro) con circa 500 aziende presenti, ventimila persone impiegate. Siamo ben rappresentati nel settore auto (la Fiat, ovviamente), del credito (Intesa Sanpaolo e Unicredit), assicurativo (Generali e UnipolSai) tessile (Benetton, Calzedonia, Pompea, Golden Lady). Tanto da avvalorare l’idea che la Serbia sia la nostra “nuova Romania” per opportunità che si chiamano costo del lavoro, agevolazioni fiscali, anche vicinanza ai confini.
L’agricoltura è la nuova frontiera. Ferrero e Rigoni, sperano a Belgrado, sono i pionieri, se ne aspettano altri per la terra generosa e non bisognosa di esborsi smodati per dare frutti in tempi ragionevoli. Ma attenzione, non siamo i soli. E la concorrenza si annuncia agguerrita. A partire da quella dei soliti arabi. Nello specifico, gli Emirati Arabi Uniti, che attraverso la Etihad di Abu Dhabi (la stessa entrata in Alitalia) hanno già messo le mani sulla compagnia di bandiera, la ex Jat ora Air Serbia. Lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nayan ha annunciato investimenti per due miliardi di dollari che comprendono anche l’acquisto di 20 kombinat agricoli (termine di socialistica memoria) e interventi per migliorare i sistemi di irrigazione dove acqua ce n’è in abbondanza grazie ai grandi fiumi ma le strutture sono fatiscenti.
Che si tratti di una sorta di “land grabbing” in uno Stato europeo in difficoltà molti lo temono, anche se i patti non si conoscono nei dettagli (e comunque intanto le casse pubbliche respirano). Alla nostra ambasciata fanno notare la differenza dell’approccio italiano basato sul reciproco vantaggio: tecnologia e conoscenza che permetterà di formare una nuova classe contadina in cambio di buoni affari e manodopera a basso costo. L’ambasciatrice Hrustanovic, oltre che solida paladina di un parternariato strategico tra i due Paesi, è anche un’ottima pubblicitaria quando cita la frase di un imprenditore italiano suo conoscente per invogliare gli altri: «Mi ha detto: la vostra terra è talmente buona che la prenderei in mano per mangiarmela». L’obiettivo è modernizzare l’agroalimentare per presentarsi con un convincente biglietto da visita quando si tratterà di entrare in Europa. Già, quando? Data da destinarsi, però oltre il 2020. Nel frattempo accade in pace quello che i serbi non avrebbero mai voluto in guerra: la conquista della loro terra.