Filippo Ceccarelli, la Repubblica 11/12/2014, 11 dicembre 2014
SOLO A ROMA
A Roma nun se more mai, e di conseguenza chi nun more se rivede. Sempre a Roma nun se butta gnente e anche per questo forse non ci si annoia mai, ma lo sgomento reca con sé la più scontata interrogazione retorica: in quale altra città d’Europa – per tenersi stretti – poteva allignare con tanta vivacità il mondo di mezzo «dove tutto si mischia»?
Nelle grigie inchieste del Nord (Expo, Mose) corruttori e corrotti non fanno assolutamente la stessa vita, anzi quasi nemmeno si conoscono, e il malaffare ha uno sviluppo per così dire fuggevole, o episodico; allo stesso modo nel Mezzogiorno, da Napoli alla Sicilia, gli ambiti di guardie e ladri, imprenditori e politicanti, restano separati, di norma per ragioni professionali, o castali, o di prudenza.
A Roma no. E questo perché Roma «addiventò dar primo giorno,/ com’è oggi, ‘na Torre de Babbele». Così la raffigura nel XIX secolo il suo più illustre poeta, Giuseppe Gioachino Belli, all’insegna di quella caotica mescolanza che emerge dal presente ciclo d’intercettazioni.
Dove c’è sempre uno che dice: mo’ vado o telefono a quello, che mi porta a quello, che mi porta a quello e così – fatece largo che passamo noi, ‘sti giovenotti de ‘sta Roma bella – ecco che dopo un paio di rimbalzi si arriva regolarmente non solo al Quirinale e a Palazzo Chigi, ma anche dal Papa. E a questo proposito merita certo una segnalazione un irresistibile dialogo tra i Diotallevi, padre ex notabile della Magliana e figlio: quest’ultimo riferisce di una visita al di là del Portone di bronzo effettuata con una specie di pseudo-spione già incluso nello scandalo dei padri Camilliani, roba da intenditori; e gli descrive la ricchezza e le dotazioni dell’automobile («la radio e i cosi»), e a un certo punto, per dire il rispetto tributatogli, «mi sentivo ‘sto cazzo», e conferma che il suo interlocutore «sa tutti i segreti», e infatti, chiosa allora il papà: «Quello è un paraculo».
Ecco dunque, solo a Roma. Solo a Roma, per via della monnezza o della Nuvola di Fuksas, per i campi rom o il festival del Cinema, per una rissa al night o una dose di ormone della crescita, figurarsela la crescita!, ecco, solo nella Città Eterna possono ritrovarsi in ufficio o al telefono, ma anche e soprattutto in macchina, al bar e al ristorante – «sereni, tranquilli – dice uno – belli, belli, belli» – banditi ed ecclesiastici, terroristi e sindaci, calciatori e presentatori, terroristi dei Nar e palazzinari, spezzapollici e giocatori di golf.
Ma l’elenco è necessariamente incompleto perché essendo Roma nostra, «gajarda e tosta», l’unica metropoli occidentale in cui tra festeggiamenti e pedinamenti tutti vanno a cena con tutti senza chiedere mai la fedina penale a nessuno, è chiaro che a tavola, con le dovute microspie sotto la tovaglia, ci sarà sempre posto, anzi è già bello e apparecchiato per imminenti affaristi russi, faccendieri cinesi, svelti emissari del Jihad e santoni New Age.
Senza dimenticare – e francamente nel mondo di mezzo un po’ se ne avverte la mancanza – la presenza di meroloni e zoccole, oltre a un congruo numero di millantatori e impostori, quali colombe dal desìo chiamate verso un compiuto sistema di relazioni e frequentazioni entro il quale la dimensione della promiscuità ambientale – si perdoni il sociologese – è da mettersi in plausibile relazione con la specifica natura criminogena dell’Urbe.
Riguardo alla quale, per la verità, il solito Belli dice anche peggio designandola: «Stalla e chiavica der monno». Laddove la stalla, il rifugio animale, evoca una delinquenza non già «all’amatriciana» – come ingiustamente si continua a dire offendendo un’astuta e laboriosa comunità che dista 140 km dalla capitale – bensì «alla vaccinara», da «vaccina», cioè vacca, secondo l’antica vocazione pastorale del luogo. Mentre «chiavica» rinvia, come del resto rinviò a suo tempo Martin Lutero scagliandosi contro il potere temporale, alla cloaca primigenia e a quanto vischiosamente vi scorre e senza vergogna.
Con il che, da queste parti, fra «comunella» e complicità per i malintenzionati il passo è breve; e «accostasse», cioè avvicinarsi a chi ha i soldi e il potere è una faccenda antica e persino sentimentale; per cui «Te vojo bene, Daniè...» scappa detto a Carminati rivolto al costruttore Daniele Pulcini nel mentre si propone di bruciargli una certa pineta di sua proprietà.
Si può pensare che fosse così anche ai tempi del Satyricon, e d’altra parte è Tacito a notare come a Roma «da ogni parte confluisce e viene celebrato tutto ciò che vi è di turpe e inverecondo» (atrocia aut pudenda). Ma senza prenderla troppo alla lontana, pare di cogliere un po’ d’ipocrisia nella sorpresa generata dallo scoperchiamento del mondo di mezzo, o forse è disattenzione, o scarsa memoria rispetto a questa Roma «perversa/ in cui ogni immondizia somiglia/ a un’immondizia diversa» (Gaio Fratini).
E sarà pure scetticismo e anti-giornalismo, ma qui tutto è già abbastanza accaduto, tutto qui si accalca e si contamina mischiando dominio e sovranità, quattrini e buffi, peccati e reati. Basti ricordare l’epopea sbardelliana e quella del calcetto di Squillante e Previti, il boss della Magliana seppellito a Sant’Apollinare, la mappa delle terrazze del colonnello dei carabinieri Cataldi, i furbetti del quartierino, le scorribande di Marrazzo, le avventure della cricca, i massaggi del Salaria Sport Village, la coca del povero Colombo e della Dama Bianca. Roma si basta e si avanza, una marmellata a orologeria.