Marco Bellini, Una Città n. 37 / dicembre 1994, 11 dicembre 2014
LO DIMOSTRI
Salvatore Buzzi è direttore della cooperativa sociale 29 giugno, composta da detenuti e ex-detenuti di Rebibbia.
Com’è la giornata dentro?
Di solito si ozia, nel senso che non fai niente. L’ora d’aria, per la verità, sono quattro ore, non una: due alla mattina e due al pomeriggio. In mezzo a questi orari c’è la cosiddetta socialità, puoi andare nella cella di altre persone, negli stanzoni che sarebbero le sale comuni dove ci sta un biliardino. O se no potresti andare in biblioteca, se c’è, a prendere dei libri, a fare due chiacchiere, però ci si può andare uno alla volta, quindi fai due chiacchiere col bibliotecario. La mattina aspetti che ti aprano la cella alle 8.30 per l’ora d’aria, che la passi a passeggiare su spiazzi di cemento col muro di cinta intorno. Un percorso di 50 metri, 100 al massimo, avanti e indietro, avanti e indietro. In carcere si chiamano le vasche. “Quante vasche fai oggi?”. Questa è la passeggiata. La velocità in carcere è il passo d’uomo, e te ne accorgi quando esci dopo tanti anni, a me andare ai 40 mi fece una grande impressione, mi faceva paura.
Poi rientri alle 10.30, stai in cella e dopo un’ora c’è la socialità e puoi andare nelle altre celle, passa il carrello con il vitto e puoi pranzare insieme agli altri, in cella però, perché in Italia non c’è il refettorio come nelle carceri americane. Poi non vedi l’ora che arrivi l’una per tornare un’altra volta all’aria, dopodiché arrivano le tre e sono finiti i giochi, dopo non si può fare più niente. Guardi la televisione. E aspetti le 8.30 del giorno dopo.
Non si parla altro che di donne, di pallone e dei reati che hai fatto: questi sono i tre discorsi chiave, non ce ne sono altri. Allora uno ingrandisce sempre, racconti di 500 donne e alla fine ci credi anche tu, alle stupidaggini che dici. C’è gente che dice di essere innocente e magari è colpevolissima, ma continua a dirsi innocente al 1°, al 2°, al 3° grado e dopo 10 anni ci crede pure, alla fine interiorizza che è innocente. I discorsi sono sempre quelli: sulle cose che ti mancano, donne, macchine, vacanze, o sui reati che hai fatto. E poi, certo, il calcio.
Il livello culturale è molto basso in carcere. C’è analfabetismo di ritorno, uno ha la quinta elementare e ormai non sa più né leggere né scrivere. Dentro ci stanno corsi di formazione professionale, sono avviate anche scuole secondarie sia inferiori che superiori, ma il panorama resta desolante. E la sottocultura carceraria è propria anche delle guardie, il carcere è un universo.
Tu che esperienza hai avuto?
Io ho fatto 6 anni tutti uno dietro l’altro, poi sono uscito per decorrenza termini, poi ne ho fatti altri 2 in semilibertà e un anno e mezzo in libertà condizionata: in totale nove anni e mezzo. Sempre qui a Roma, ho fatto un Regina Coeli e poi un Rebibbia A e poi un Rebibbia penale. Tutte e tre le carceri.
Ovviamente quando stai in un penale i ritmi di vita si allargano, le ore d’aria da 4 diventano 6, le celle, a differenza dei giudiziari, sono aperte tutto il giorno, tu puoi uscire dalla cella e andare in quella di un amico, però sempre della stessa sezione. Una sezione di solito è composta da 40-50 persone. A Rebibbia, che è all’avanguardia, si aprono tutt’e tre le sezioni e sei libero dalle 7 di mattina alle 10.30 di sera. Lì sei libero praticamente tutto il giorno. Hai tre conte al giorno, sei tenuto quindi in certe ore a ritornare in cella per farti contare, per un controllo-evasione. Poi Rebibbia è all’avanguardia per le sperimentazioni ed è grazie a questo che abbiamo potuto realizzare la cooperativa, sarebbe stato impensabile in altre strutture carcerarie.
In realtà è nei giudiziari che si sta molto male, il detenuto in attesa di giudizio che teoricamente dovrebbe essere innocente sta peggio del detenuto colpevole. I grossi giudiziari stanno nelle grosse città, sono affollatissimi, si sta lì in attesa di condanna, la popolazione dei detenuti è molto variabile, ci stanno 20 ingressi al giorno e ovviamente 20 uscite al giorno, c’è gente che si fa 15 giorni, si fa un mese. Mentre nei penali c’è gente che si fa 10 anni, 20 anni, ha poco tempo per pensare a far casino, che non vuol dire far rivolte, ma ubriacarsi, dar fastidio agli altri, rompere le scatole alle guardie. Dovendo fare tanti anni, la gente sta dentro con un altro spirito di vita. Rassegnazione, certo.
Nei penali dopo che stai un po’ in lista d’attesa vai in cella singola. In cella singola sei al clou dell’universo carcerario perché ti vedi la televisione che pare a te, i programmi che vuoi te, dormi quando vuoi dormire. E’ una grossa conquista la cella singola. Nei giudiziari quando ti va bene stai in 4, quando ti va male in 10, a Napoli addirittura in 20. Te lo immagini stare in 20 a vedere una tv con chi vuol vedere il 1°, chi il 2°, chi il 3°? Ti mettono a vivere con persone che non hai mai visto, con cui non hai da dividere niente e a dir la verità mi stupisce la violenza che non c’è, non quella che c’è. Io sfido 20 persone normali, di fuori, a stare tutte insieme in un grosso salone, lì chiusi 18 ore al giorno e a veder cosa succede. Che succede solo per andare al bagno!
La violenza ora è diminuita grazie alla legge Gozzini, ma anche prima non è che fosse tanta rispetto alle condizioni in cui tu eri costretto a vivere. Ci sono pure quegli esperimenti fatti sui topi in condizioni di cattività: più gli spazi son compressi, più aumenta l’aggressività. E anche con la guardia, è come se tu stessi a contatto con un vigile urbano per 24 ore al giorno, beh, alla fine un po’ di aggressività ti verrebbe verso quel vigile. Ma se ti scappa di mandarlo a ‘fanculo ti becchi oltraggio. E non devi farlo perché ora la prospettiva è scandita dalla legge Gozzini: tot periodo per chiedere il primo permesso, tot periodo per chiedere la semilibertà e più fai il bravo e più hai possibilità di uscire. Non hai nessun interesse a far casino. E’ una vita ormai scandita dalla legge premiale.
Ci sono rapporti coi reparti femminili?
Purtroppo sono pochi i carceri in cui i reparti maschili e femminili sono avvicinati. In questi casi, urlando puoi parlarti, ma non si scopa in carcere. Nascono storie urlate, storie d’amore urlate. Insomma i rapporti sessuali li rimedi così, fantasticando, scrivendo “ti scoperei, ti farei ...”. E magari lei ti risponde. Questo dove c’è la possibilità che ti puoi parlare, altrimenti sai come funziona? Uno ha già una fidanzata dentro, la fidanzata ha un’amica, sempre dentro, che non ha il fidanzato fuori e le dice “perché non scrivi all’amico mio che sta a ...”. E così ci sono questi fidanzamenti letterari che vanno avanti e puoi chiedere anche il colloquio e si arriva alla famosa verifica: ti sei fatto l’immagine di una persona che non hai mai visto e finalmente la vedi e magari sei deluso. Poi ci sono le solite furberie: il detenuto bruttarello che casomai manda alla ragazza la fotografia di un amico e quindi, poi, al colloquio lei si troverà di fronte a un altro.
No, non si scopa in carcere: è vietato. Noi avevamo fatto un movimento democratico per l’emancipazione del detenuto, ma la cosa più eclatante che siamo riusciti a fare è stata di autodenunciarci tutti per atti osceni in luogo pubblico. C’era stato un ricorso in Cassazione di un detenuto che, sorpreso con un altro detenuto dentro la cella in rapporti omosessuali, era stato denunciato per atti osceni in luogo pubblico. Il difensore sosteneva che la cella è un luogo chiuso e quindi ci si può fare quel che si vuole. La Cassazione respinse e sentenziò che la cella era un luogo aperto al pubblico. Noi cogliemmo la palla al balzo e ci autodenunciammo in massa per atti osceni in luogo pubblico, nel senso che dicevamo: “benissimo, non ci fate scopare, coi detenuti, a meno di tendenze particolari, non andiamo, però le pippe ce le facciamo e quindi masturbarsi in cella è atti osceni in luogo pubblico”. Il pretore archiviò. Ma pensa che bel processo: 100 detenuti in pretura a Roma ad autodenunciarsi di farsi le pippe in pubblico. E se poi la Cassazione sentenziava il contrario, che le celle erano luogo chiuso al pubblico, le chiudevi da dentro e quando tentavano di perquisire non potevano più entrare. Sarebbe stata una rivoluzione.
Le perquisizioni sono un problema?
Le guardie perquisiscono regolarmente una volta al mese. Poi ci sono le perquisizioni straordinarie che avvengono tutte alle prime ore dell’alba, quando stai dormendo e allora dipende sempre dal viceré che c’è, se consente che la perquisizione si faccia in maniera civile o in maniera incivile. In maniera civile frugano, in maniera incivile buttano tutto per terra, che so, ti buttano l’olio, il sale sulle fotografie, sulle cose che hai scritto. Se il viceré è un democratico possono fare pure una perquisizione al giorno, nessuna rottura di scatole, ma se il viceré è un reazionario, una perquisizione ti rovina la cella e la cella è casa tua, perché ti metti gli stipetti come vuoi tu, le fotografie, i libri, gli effetti personali. Questi arrivano e ti buttano tutto per terra, sul vestiario, sulle fotografie ci buttano roba da mangiare, ci camminano sopra, insomma ti rovinano tutto. Quando rientri ti metti le mani nei capelli.
C’è molta discrezionalità?
Ogni carcere è un regno a sé e il direttore è un viceré. Cambia il direttore e cambiano abitudini consolidate, spazi che avevi si chiudono all’improvviso. Ci sono delle circolari del ministero che uniformano, in linea generale, però ogni direttore in pratica ha un’enorme discrezionalità.
Al penale da una serie di direttori progressisti siamo passati a un direttore che tentò di chiudere e non ci riuscì perché la cosa era molto consolidata. Però, per farti un esempio, prima di andarsene, riuscì a far mettere le doppie sbarre a tutte le celle, con una spesa enorme per l’amministrazione penitenziaria. Tu pensa che le celle sono aperte tutto il giorno dalle 7 della mattina alle 10.30 di sera, le doppie sbarre erano proprio una sua fissazione. Però lui era nell’ottica della chiusura e riuscì con enorme spesa a mettere 5-600 cancelli. La cosa poi ci ha favorito, perché le sere d’estate, alla chiusura, chiudevano solo il cancello, così ti entrava l’aria. Perché d’estate si schianta.
Poi, certo, sei anche soggetto alla discrezionalità della guardia. Un agente di custodia col detenuto si dovrebbe comportare in maniera corretta, educata, la normalità è questa, il regolamento non prevede la maleducazione. Invece puoi trovare uno che vuol fare il duro, il rambo della situazione, e ti si complica la vita. Perché se ti picchiano è calunnia, se li mandi a quel paese è oltraggio. E guarda che su una denuncia ti giochi una semilibertà, i permessi premio. Da questo punto di vista il meccanismo premiale della Gozzini è tremendo. Metti che io sono dentro da 10 anni e me ne posso andare in semilibertà fra un mese, ma oggi ho una discussione con l’agente di custodia e lo mando a quel paese, dopo 10 anni che sono stato tranquillo becco “oltraggio” e mi sono giocato la semi-libertà. Se ne riparlerà fra 2 anni.
E comunque, anche il comportamento delle guardie dipende sempre da come il viceré inquadra l’aspetto custodialistico attraverso il comandante delle guardie. Ora con l’avvento del sindacato fra gli agenti di custodia, la smilitarizzazione, le cose sono un po’ migliorate a livello di dirigenti del corpo. Ma è sempre importante l’input che dà il capo. Dove il comandante e il direttore consentono queste cose o addirittura le incentivano, ci sono squadrette punitive di agenti che picchiano chi si comporta male o fa casino. Viene preso e mandato in cella di punizione e mentre va in cella di punizione lo menano. Questa, poi, era una prassi consolidata fino a pochi anni fa. Se tu li denunci, a meno che non ti ammazzino di botte o tu abbia fratture, ti becchi calunnia. In primo grado ho preso 6 anni per calunnia per averli denunciati perché mi avevano picchiato. 6 anni! La seconda volta dici che sei cascato dalle scale, è certo! Se li denunci e il direttore li tollera, hai la tua parola contro la loro, sei sicuramente condannato, a meno che tu non abbia danni evidenti, ma loro stanno molto attenti a non lasciarne.
Come ti dicevo conta molto il viceré. Che, certo, viene influenzato anche dal direttore generale. Ai miei tempi c’era Nicolò Amato, una persona aperta e l’input che veniva dalla direzione generale calava seppur lentamente anche all’estrema periferia dell’impero. Ma con Di Maggio sono arrivati di nuovo input custodialistici e le cose sono peggiorate.
Quindi tu non hai una buona opinione della Gozzini?
Pessima per la tua interiorità. Con la legge premiale hai tutto l’interesse a fingere comportamenti, a essere un po’ delatore dentro il carcere. E comunque la tua personalità qual è?
Sarebbe ottima perché ha introdotto il periodo di non detenzione, ma l’ha legato al comportamento carcerario. Per beccare la semilibertà non basta aver trovato un ottimo lavoro di fuori, aver chiuso i rapporti con la criminalità, no, tu esci se pure dentro ti comporti bene. Loro dicono che devono “valutare la tua tendenza al reinserimento, alla rieducazione”. Ma rieducazione cos’è? Su cosa la basano questa cosa? Dato che gli educatori di solito sono 4 su 1.500 detenuti e il direttore al massimo è uno, il tuo rapporto è con l’agente di custodia. E’ quindi in base ai tuoi rapporti con gli agenti di custodia che si determina poi la semilibertà, la riduzione di pena anticipata. Non è che ci sia un’équipe, che so, di 25 operatori che studiano, vedono e coi quali puoi fingere fino a un certo punto perché sei sempre a contatto e dall’altra parte c’è un tecnico che capisce che persona sei. Dall’altra parte c’è uno che è come te, che ha la tua stessa cultura e alla fine l’unica maniera per salvarti è sempre stare buono, bravo, tranquillo.
Chi ha un ottimo comportamento in carcere? I mafiosi. Su di loro i rapporti sono sempre ottimi, perché non fanno casino, girano in giacca, in cravatta no perché è proibito. Ma il povero disgraziato, l’ultimo degli ultimi, il tossicodipendente, l’alcolista, il malato psichiatrico che non ha un buon rapporto, anzi, sono pieni di rapporti cattivi, quando va a discutere la semilibertà sta pur certo che non l’otterrà.
Da questo punto di vista la Gozzini è pessima perché non ci sono gli strumenti operativi per applicarla. Si riduce alla mera registrazione del tuo comportamento fatta dagli agenti di custodia che sono a stretto contatto con te. Diventa un terno al lotto. E’ un terno al lotto anche rivolgersi al tribunale di sorveglianza, perché, tranne quello di Firenze che è sempre lì, gli altri non ci sono mai o cambiano spesso. Siccome il magistrato di sorveglianza è considerato un magistrato di serie B, nessuno lo fa per 20 anni come si fa il pm o il giudice giudicante, uno lo fa perché a Roma si è liberato un posto e fa domanda per avvicinarsi alla famiglia. Quindi non abbiamo magistrati di sorveglianza motivati. Invece a Firenze, ed è la loro fortuna, hanno uno che l’ha scelto, che è motivato sulla riforma, un amico di Gozzini, che ha prodotto anche a livello teorico. Quindi è un tribunale efficiente, che funziona. Ma quando non c’è un presidente così che fai? Devi aspettare un paio d’anni per un’udienza e poi devi sperare che in quegli anni che intercorrono da quando te la fissano non trovi un testa di cazzo di agente di custodia che ti fa perdere la pazienza. Tu chiedi di uscire dalla cella e quello non arriva o arriva in maniera strafottente o passa avanti e poi torna indietro e allora bisogna vedere come anche tu ti trovi quella mattina. La vita normale è questa, terni al lotto, cose banalissime che non appaiono fuori.
Il delatore è sempre visto male?
In carcere chi ha fatto la spia è tenuto separato. Ora si chiamano pentiti, però sono sempre tenuti separati. Una volta, insieme ai violentatori e ai delatori, che lo sono ancora, erano separati anche gli sfruttatori della prostituzione, che ora sono accettati, e stavano tutti in un braccio apposta.
La separazione è dovuta proprio a motivi di incolumità, perché non sono accettati dagli altri. Mentre fuori si plaude alla legge sui pentiti, si pensa che “se si pentono è meglio”, dentro ovviamente è tutto il contrario. La delazione contraddice una regola ferrea che uniforma tutto l’universo carcerario: non collaborare con la giustizia. Se la violi sei al di fuori della comunità. Merita invece grande rispetto chi sta dentro senza mai aver fatto i nomi dei complici. Chi fa i nomi deve essere separato per problemi di incolumità personale, non è che lo ammazzano, ma sicuramente lo picchiano. Se poi incontri il tuo coimputato lì è normale che succeda un casino, ma anche con un altro, il minimo è che non ci parli insieme, non ci mangi insieme, non ci giochi insieme.
Questa mentalità non cambierà mai e per me, tutto sommato, non fare il delatore non è un valore negativo. Quando tu scegli di fare un reato insieme ad altre quattro persone e ti pigliano perché mai li devi aiutare a pigliare pure gli altri? Non riesco a capire il perché. Invece di 5 anni ne pigli 4, però è meglio farsi 5 anni bene che 4 male.
All’esterno, certo, c’è la questione della mafia, uno si pente e ne fa arrestare 100. Prima riguardava i terroristi ora i mafiosi, ma al di fuori di Buscetta, Contorno e dei terroristi, la delazione normale del detenuto comune è quella dei 4 complici ed è un fenomeno che non ci apparterrà mai come detenuti comuni.
Poi c’è pure la delazione in carcere, chi fa la spia al direttore su cose che succedono. Ce ne stanno, perché il mondo è pieno, ma non è che poi vivano bene. Nei penali questo succede di più, perché uno spera sempre nella relazione favorevole che serve per poter uscir fuori. Di fatto è incentivata anch’essa dalla legge Gozzini: esci se sei buono ed essere buono vuol dire non far casino ma magari qualcuno lo interpreta come essere collaborativo. Tra l’altro ora c’è un meccanismo per alcuni tipi di reato, quali i sequestri di persona, per cui se tu non sei collaborativo con l’autorità giudiziaria non esci, devi fornire per forza informazioni. E quando uscì il decreto legge dopo l’uccisione di Borsellino, si creò il paradosso che rinchiusero detenuti che uscivano in semilibertà da anni perché la legge imponeva la collaborazione. Ma all’improvviso volevano la collaborazione? Su che? Dopo 10 anni che stavano dentro? Siccome le norme processuali sono retroattive, non come le norme penali, anche quella norma era retroattiva, quindi colpiva anche coloro che stavano dentro da più di 10 anni. Poi la cosa è stata superata con l’interpretazione del magistrato di sorveglianza che ha visto come collaborativa anche la persona che non aveva niente da confessare.
I rapporti con gli avvocati o con i magistrati come sono visti?
Tra gli avvocati cerchi sempre un avvocato di movimento. Che vuol dire avvocato di movimento? Di solito anche il processo è un terno al lotto, nel senso che per lo stesso reato tu vai da un giudice e becchi un tipo di condanna, vai da un altro e ne becchi un’altra. E dentro si sa quali sono i giudici cattivi e quali i buoni, quali le sezioni buone e quali le cattive. Questo succede, ovviamente, nelle grandi città dove il Tribunale è composto addirittura da 9 sezioni penali, la Corte d’Assise ha 6 sezioni. Un avvocato è buono se sa pilotare la causa alla sezione giusta, altrimenti non serve a niente, perché se sei colpevole sei colpevole, se sei innocente stai dentro. Come diceva un famoso avvocato: “se ti accusano di aver rubato una madonnina e sei innocente scappa, non ti costituire”. In realtà un colpevole è più facilitato di un innocente perché se tu hai fatto un reato cinque giorni fa, tu sai che lo hai fatto cinque giorni fa ed è più facile costruire un alibi, ma se tu sei innocente è difficile ricordare cosa hai fatto cinque giorni fa e con l’alibi avrai problemi.
Quindi i rapporti con gli avvocati sono questi, e non c’è da fidarsi tanto. Un giudice amico mio mi diceva che, specialmente a Roma, non hanno recepito per niente lo spirito del nuovo codice che vuole che a giudizio arrivino pochi processi. Gli avvocati tendono a portare tutti a giudizio anche quando sei colpevole, quando le prove sono evidentissime, tendono a non fare i patteggiamenti perché i clienti sono per principio tutti innocenti. Ma se i carabinieri ti prendono con una bustina di eroina in mano cosa vai a dire? Che te l’hanno data i carabinieri? Andare in giudizio significa non solo non capire il meccanismo del patteggiamento, ma pigliare tre anni invece che uno.
Dei giudici te l’ho detto: vai in una Corte d’Assise becchi 10 anni, in un’altra ne becchi 20. Per lo stesso reato. Io stesso, per omicidio, ho avuto 30 anni in primo e 14 al secondo: mi è andata bene, in appello potevo prenderne anche 24. Il giudice da cui tutti volevano andare è Corrado Carnevale che quando presiedeva la Corte d’Assise e d’appello era ottimo con tutti. Ora se ne dicono di tutti i colori... Ho avuto un’esperienza diretta con Corrado Carnevale. Un mio ricorso alla Cassazione, motivato male dall’avvocato, capitò da lui. Ero a piede libero e stavo fuori ad aspettare, c’era una camera di consiglio lunghissima perché in una giornata la stessa corte disputa 4 o 5 processi. Finalmente alle 8 di sera viene fuori la sentenza che era negativa, respingeva il mio ricorso e sarei dovuto rientrare in carcere, non quella sera, certo. Aspettai sul retro Carnevale per chiedergli i motivi. Ora, credimi, i giudici sono molto arroganti e un primo presidente di sezione di Corte di Cassazione è un padreterno, eppure Carnevale, che non conoscevo, non avevo mai visto, a cui nessuno mi aveva raccomandato, mi ricevette in camera di consiglio, mi spiegò perché aveva respinto il mio ricorso e in maniera molto pacata mi convinse. Un pretore non l’avrebbe fatto, qualunque altro magistrato non l’avrebbe fatto, invece Carnevale, primo presidente, era l’89, lo fece. Adesso è molto chiacchierato per questi rapporti con la mafia, io non lo so, so soltanto che quando stavamo dentro si faceva a cazzotti per andare a essere giudicati da Carnevale in appello. E sai perché? Perché per omicidio ci sono condanne da 21 a 24 anni, se hai le aggravanti da 21 all’ergastolo. Gli altri giudici partono dall’ergastolo poi ti mettono le attenuanti, Carnevale partiva dai 21 e cercava sempre di dare una condanna più umana. Quando i detenuti tornavano da lui l’avevano vinto, un terno al lotto: si dimezzavano le condanne, se avevi 30 in primo grado, passavi a 18. E cos’era pagato? Da gente che non aveva i soldi nemmeno per prendersi un avvocato? E lui cassava non solo sentenze di gente di mafia, ma anche di gente normale. Ora dicono che si doveva fare la verginità per cassare i mafiosi, non lo so, ma perché doveva sentire proprio me alle otto e mezza di sera? Pure lui aveva avuto una giornata lunga, poteva chiamare i carabinieri e dire “allontanate ’sto scemo”. Credimi, un altro lo avrebbe fatto o avrebbe risposto male. I giudici, guarda, sono pessime persone, a livello personale pochi se ne salvano. E’ il potere, qualunque potere, che uccide l’uomo. Amici miei che erano semplici consiglieri sono diventati assessori e non ci si parla più. E il potere di un giudice è enorme e se tu non riesci a capire il potere che hai, a mediarlo, ti porta inevitabilmente all’arroganza. Se io fossi mafia e tu venissi a chiedermi un’intervista per Una città: "Una città? E chi è? Quante copie vende?".
Com’è nata l’idea della cooperativa?
Stavamo organizzando uno spettacolo teatrale che volevamo abbinare a un messaggio da dare alla società. Per cui ci dicemmo “tentiamo di fare un convegno all’interno del carcere”. E ai miei tempi non è che si facessero convegni, era un’idea rivoluzionaria. Siccome avevamo un viceré rivoluzionario, che se gli avessimo detto che volevamo andare sulla luna rispettando il regolamento carcerario ci avrebbe risposto: “va bene, andate”, ci consentì di avere una serie di incontri preparatorii con deputati, magistrati e alla fine il ministro Martinazzoli ci dette il permesso per il convegno. E noi scegliemmo un taglio basso, ancora non c’era la Gozzini: “la legge è questa, vediamo di fare un’integrazione con il mondo esterno partendo da un rapporto concreto col carcere” e la proposta era quella della cooperazione.
Allora uno poteva andare in semilibertà se aveva una richiesta di lavoro, ma una persona che era rimasta a lungo separata, condannata, che non aveva vincoli familiari, amicali o criminali, come poteva trovare lavoro? Pensammo che la cooperativa poteva dare una piccola risposta a questo problema. Tieni presente che era una cosa rivoluzionaria, perché le associazioni fra detenuti erano associazioni a delinquere, noi invece progettavamo un’associazione lavorativa fra detenuti.
Riuscimmo a costruirla nell’85, e grazie al vicepresidente della Provincia di Roma, che ci dette commesse di lavoro a Torrita Tiberina, sulle strade provinciali, senza gara, dato il grande valore sociale dell’iniziativa, riuscimmo a fare uscire 10 detenuti per lavoro esterno, ma con l’art. 21, che era anche questa una cosa rivoluzionaria. In semilibertà puoi andarci quando hai raggiunto metà della pena, e puoi andare a casa, frequentare amici, fidanzate, mogli, ma al lavoro esterno, con l’art. 21, puoi uscire anche prima della metà della pena, però solo per lavoro, esci la mattina e rientri la sera, c’è solo l’uscita, sarebbe il famigerato “lavoro coatto esterno”. Riuscimmo a far uscire questi 10 detenuti in art. 21, rivoluzionandolo, nel senso che prima i detenuti uscivano dal carcere per fare 100 metri, noi li mandammo fino a Civitavecchia. Gli spazi si allargavano.
Cercammo altri lavori e mano a mano siamo riusciti a coniugare l’aspetto solidaristico, quello cooperativistico e quello economico, perché 2 più 2 deve far 4 pure per noi. Ci ha dato una mano una grossa cooperativa La floristica del Lazio, il cui presidente ci ha firmato fidejussioni bancarie fino a 200 milioni e non so come ha fatto. Quel vicepresidente della provincia, diventato nel frattempo consigliere regionale, ha cominciato a far smuovere, sulle carceri, questo pachiderma della regione Lazio. E’ stata fatta una legge speciale, la formazione professionale è andata un po’ oltre il ripetitivo e ossessivo corso per elettricista, diventando più rispondente alle aspettative che hai fuori o dentro. Lui era del Pds, ma credo che fosse sensibile di suo, sul carcere vale molto la sensibilità individuale. Per esempio il capogruppo missino in provincia, Ercoli, poi ucciso per una questione di donne, era una bravissima persona con noi. La sensibilità sta più nei partiti di sinistra, ma in tutti i partiti c’è chi ce l’ha. Tant’è vero che siamo riusciti a lavorare con la provincia di Roma sia con una maggioranza di sinistra all’inizio, poi con una di pentapartito, poi con un’altra di sinistra e infine con l’attuale dei centro-destra.
Tu hai studiato in carcere, dicevi.
Dunque, stavo in attesa di processo qui a Roma, poi è successo che mi stavano trasferendo, sempre per la partecipazione alla vita democratica, mi trasferivano come un sovversivo: sovversivo per il direttore del carcere giudiziario!
Ma non mi potevano trasferire perché avevo un esame fissato 2 o 3 giorni dopo: era il primo esame che davo in carcere e così scoprii che un esame valeva come una causa. Quando hai una causa non ti possono trasferire, a meno di eccezionali motivi. Allora, per evitare di essere trasferito da Roma feci un piano d’esami: mi laureai in due anni e mezzo, un esame ogni 20 giorni. Stavo sempre a rompere il cazzo all’addetto del Ministero. E le guardie quando m’accompagnavano ai colloqui per fare gli esami “dai, facci fare una bella figura” e quando pigliavo trenta tutti contenti, questa è la sub-cultura carceraria.
Dopo fui condannato in primo grado, passai al penale, trovai un nuovo direttore progressista e smisi di studiare, perché invece di pigliare una seconda laurea, mi misi a fare queste cose, cooperazione, eccetera. Ma con l’altro direttore, quello reazionario, avrei preso la seconda laurea! Quando lo salutai per andarmene al penale, ormai ero stato condannato a 30 anni in primo grado, ormai ero diventato un caso famoso -penso di esser stato l’unico ad aver fatto tutta l’università in carcere- lui mi disse: “mi dispiace che vada via, perché se rimaneva qui, ne prendeva un’altra di laurea”. Io: “la ringrazio”. Ed ero sincero perché se non era per lui non mi sarei laureato. Lo sai qual è il dramma degli esami in carcere? E’ che i professori, anche non volendolo, ti massacrano. All’università bastano 10 minuti e via, o va bene o va male, ma qui la commissione viene in carcere solo per te e per andare a Rebibbia perde un’intera giornata. Allora l’esame dura un’ora, un’ora e mezzo. La mia tesi di laurea due ore e mezza è durata. Mi sono laureato in Lettere e la tesi l’ho fatta su “Vilfredo Pareto economista”.
E per dire, nell’88 esco dal carcere e vado a chiedere un certificato di carichi pendenti e mi ritrovo imputato per esami falsi all’università. Vado di corsa dal magistrato che si incazza. “Lei come sa di essere inquisito?”. E io: “a parte che sarebbe un mio diritto, ma di cosa sono inquisito?”. “Lei ha comprato l’esame di storia moderna”. “Ma guardi che l’ho dato mentre stavo a Rebibbia”. “Me lo provi!”. Insomma, fu molto facile provare che stavo a Rebibbia, ma ero incriminato perché la truffa partì da me, perché lo statone dell’esame aveva in cima il mio nome Buzzi Salvatore, poi sotto non c’era nessuno perché solo io facevo l’esame, e il bidello invece di sbarrare, aveva lasciato libero lo spazio, mentre il professore firmava in basso. Perciò il bidello aveva potuto infilare dentro altri nomi. Ovviamente il mio non era falsificato, infatti fui prosciolto in istruttoria con formula piena.
Pensa a quegli studenti che pur avendolo dato non hanno potuto provarlo! Quella è stata una cosa folle. “Me lo dimostri, che stava a Rebibbia!”.