Mattia Ferraresi, Tempi 11/12/2014, 11 dicembre 2014
BERSAGLIO SBAGLIATO
UNA COSA È CHIARA: non è per protestare contro l’impunita dei poliziotti che l’America si è riversata con più vigore e rabbia nelle strade alla decisione del gran giurì di non incriminare l’agente Daniel Pantaleo. La protesta è contro l’impunità del poliziotto bianco che uccide neri disarmati per disprezzo e noncuranza, per un coacervo di motivi che sì, sarà anche complesso e stratificato, c’entrerà con la povertà suburbana e la crisi, ma in fondo è riducibile all’odio per il colore della pelle altrui. A Ferguson, nel Missouri, si è riaperta l’antica ferita dello scontro razziale; a Staten Island l’indignazione popolare ha avuto la conferma che cercava: non esistono casi isolati, soltanto episodi di una stessa trama.
Le circostanze della morte di Michael Brown ed Eric Garner sono molto diverse. Il primo è stato ucciso dall’agente Darren Wilson in mezzo a una strada novanta secondi dopo l’approccio del poliziotto. Intorno a quello che è successo in quei novanta secondi ci sono testimonianze divergenti e prove che danno conferme parziali di una versione e altrettanto parziali smentite dell’altra. Per settimane alcuni interrogati hanno insistito che Wilson aveva sparato alla schiena del diciottenne, e che il ragazzo disarmato aveva le mani alzate in segno di resa. Le mani alzate e il grido disperato «don’t shoot!», non sparare, si sono trasformate nel gesto universale della protesta contro la violenza degli uomini in divisa. L’autopsia e le prove balistiche, però, smentiscono entrambe le circostanze, tanto che molti testimoni hanno modificato i propri racconti alla luce delle prove. Anche nella versione di Wilson ci sono molti punti oscuri, e il fulcro del suo apparato difensivo – le legittima difesa da un’aggressione a suon di pugni che avrebbe potuto metterlo al tappeto – non s’accorda granché con le fotografie che lo ritraggono, dopo l’accaduto, con qualche leggero livido sul volto e sul collo. Non sono le immagini di un uomo malconcio dopo una rissa selvaggia contro un avversario molto più forte. Insomma, i fatti di Ferguson sono avvolti da vari strati di nebbia, le cinquemila pagine del faldone dell’inchiesta sono fitte di contraddizioni e angoli oscuri, e alcuni punti cruciali della vicenda non possono essere provati attraverso testimonianze indipendenti. Osservando e ponderando tutti questi elementi, la giuria ha ritenuto che Wilson non abbia violato i termini di una legge che – notare bene – tende a dare ampia libertà d’azione ai poliziotti e a difenderli dove non ci sono prove schiaccianti. Nel merito della legge si può discutere, e probabilmente è di questo dibattito che l’America ha bisogno, ma non al gran giurì del Missouri né di New York né di nessun’altra contea americana spetta il compito di legiferare.
L’uccisione di Garner, fermato dalla polizia di New York perché vendeva sigarette “loose”, singole, lungo la strada, è completamente diverso. Innanzitutto perché una telecamera di sicurezza ha ripreso una scena che è tragica dal punto di vista umano ed enormemente problematica per quanto riguarda la condotta delle forze dell’ordine. L’agente Pantaleo prende il sospetto per il collo, eseguendo una manovra brutale che la polizia di New York ha messo fuori legge nel 1993. La vittima ha ripetuto per otto volte «I can’t breath», non riesco a respirare, ma questo non ha fermato gli agenti. Garner soffriva di asma e ha avuto un infarto durante il trasporto in ambulanza verso l’ospedale, ma il referto medico non lascia dubbi: è morto a causa della pressione sul collo esercitata dal “chokehold” dell’agente. Anche in questo caso il gran giurì ha scagionato il poliziotto.
L’incredulità di G. W. Bush
Un uomo di colore ucciso da un agente bianco, il quale non viene poi incriminato per decisione di una giuria: le similitudini fra Ferguson e Staten Island finiscono qui. Le reazioni della politica confermano le differenze: se il caso del Missouri ha frammentato le opinioni, quello di New York ha suscitato un consenso bipartisan. Anche l’ex presidente George W. Bush, che in questi anni ha ampiamente esercitato l’arte del silenzio sulle vicende politiche e di cronaca, dice che «il verdetto è molto difficile da capire e accettare», ammettendo di fatto l’impossibilità di credere a una sentenza che contraddice quanto il mondo vede con i propri occhi.
Certo, una cosa è provare che la presa al collo ha causato la morte di Garner, un’altra è affermare che gli agenti hanno agito con la chiara intenzione di uccidere, ma rifiutare in termini categorici l’incriminazione è cosa che ha lasciato perplessa e financo indignata anche la destra “law and order”. Ma la piazza tende a mischiare gli elementi fino a farne una purea indistinta. Nonostante la complessa specificità delle circostanze, le differenze nella dinamica, nei soggetti coinvolti, nel contesto sociale ed economico, l’opinione pubblica attribuisce la colpa di tutto quanto all’ombra oscura del razzismo, peccato originale dell’America della schiavitù, della segregazione, delle leggi di Jim Chow, dei linciaggi del sud, delle marce soffocate nel sangue e degli assassinii che nessuna legge sui diritti civili sembra in grado di redimere. Nemmeno eleggere un presidente afroamericano cambia la sostanza del problema, anzi forse lo aggrava, perché dà quell’impressione di uguaglianza razziale che è il paravento per chi il razzismo non lo teorizza ma lo pratica nei fatti. Ad esempio i poliziotti. E specialmente quei poliziotti bianchi che controllano i corpi di polizia nelle aree a vastissima maggioranza afroamericana come Ferguson: potere, discriminazione e violenza vanno a braccetto.
«Black lives matter», anche le vite dei neri valgono qualcosa, grida la folla in centinaia di città americane. Michael Brown era un ragazzo disarmato colpevole soltanto di «essere nero e di camminare», dicono. Il razzismo viene postulato come principio primo dei rapporti sociali, e ogni aspetto della giustizia criminale – i procuratori, i criteri per la selezione delle giurie, il sistema carcerario – viene ridotto a mera sovrastruttura. Anche il sistema economico viene presentato come uno strumento dell’oppressione bianca: impoverire gli afroamericani è il modo migliore per spingerli verso la criminalità. Ci penseranno i giudici a mettere la malizia e il pregiudizio necessari per garantire una pena severa per quelli che arrivano vivi al processo. Questi ragionamenti, infiammati da una generica mentalità a.c.a.b, alimentano la rabbia dei manifestanti.
Un paese in cui nel 2013 la polizia ha commesso 461 “omicidi giustificati” secondo i dati dell’Fbi e oltre mille secondo un gruppo di giornalisti e accademici che si occupa della raccolta dei dati sulla violenza delle forze dell’ordine, con ogni probabilità ha un problema con l’uso della forza da parte della polizia e con l’amministrazione della giustizia. Il confronto con le altre democrazie occidentali e non solo è impietoso: in Inghilterra nello stesso anno il numero di persone uccise dai poliziotti è pari a zero.
Un’inferenza indebita
Si possono e si devono discutere le cause di queste distorsioni, e si possono addurre ordini di motivazioni disparati, dalla diffusione delle armi da fuoco che trasforma ogni controllo in una potenziale sparatoria alla criminalità, fino alla sindrome di onnipotenza dei tutori della legge. Si possono e si devono studiare riforme adeguate alla natura complessa del problema, mettendole nel quadro di una riforma della giustizia urgente nel paese che ha un tasso di incarcerazione che fa sembrare la Russia e l’Iran le patrie del garantismo. Ma non è di questo che sta discutendo l’America. Si discute invece dell’odio razziale e delle sue ramificazioni, muovendo dall’assunto che a Ferguson e Staten Island il potere bianco in divisa e in toga ha mostrato ancora una volta il suo volto xenofobo.
Il bambino afroamericano di dodici anni ucciso a Cleveland perché brandiva una pistola giocattolo senza marchio di sicurezza o Rumain Brisbon, 34enne di Phoenix ucciso davanti alla fidanzata e al figlio di 15 mesi, sono diventati immediatamente parte del canovaccio che associa gli eccessi polizieschi al tema razziale, e immancabilmente il sistema protegge gli assassini. Già meno citato il caso del poliziotto bianco appena incriminato in South Carolina per avere ucciso un afroamericano disarmato.
Non significa che il razzismo in America sia scomparso. Si possono individuare diversi fattori che suggeriscono la presenza di un germe per cui l’organismo americano ancora non ha sviluppato gli anticorpi, ma le grida contro i poliziotti razzisti e i giurati corrivi è figlia di un salto logico, di un’inferenza indebita.
Quella voce fuori dal coro
La protesta scandisce un unico messaggio con martellante regolarità. Sul luogo del delitto impunito si presentano puntualmente quelli che la leggenda del basket Charles Barkley chiama «il solito cast di personaggi tristi», naturalmente capitanato dall’onnipresente reverendo Al Sharpton. L’attacco di Barkley ai difensori dei diritti civili che dal caso di Trayvon Martin in Florida sono risaliti sul carro della protesta ha diviso la comunità afroamericana. Anche perché l’ex campione dei Phoenix Suns si è spinto oltre, difendendo i poliziotti che hanno ucciso Garner, un corpulento criminale che ha opposto resistenza all’arresto. Barkley fa scandalo perché rifiuta l’applicazione del teorema razziale a prescindere dalle circostanze: «L’idea che i poliziotti bianchi vadano in giro per ammazzare i neri è ridicola, assolutamente ridicola», ha detto; la polizia, invece, è «l’unica cosa che permette ai ghetti afroamericani di non trasformarsi nel selvaggio west». Non nega che esista il razzismo, anzi, ma si rifiuta di buttare con automatica certezza qualunque caso di cronaca coinvolga un bianco e un nero nel calderone degli omicidi a sfondo razziale: «Non penso che ogni volta che succede qualcosa di brutto alla comunità nera dobbiamo tirare fuori la schiavitù», ha spiegato l’ex giocatore, facendo imbestialire la parte più vociante della comunità nera che sta cavalcando tragedie umane aggravate da un impianto della giustizia da rivedere. Con il suo solito fare poco diplomatico ha concluso: «Alcuni nella comunità finiranno per trovarsi d’accordo me, altri finiranno per baciarmi il culo».