Silvia Nucini, Vanity Fair 10/12/2014, 10 dicembre 2014
NON SFONDATE QUESTE PORTE
Quello del 1967 fu il Natale della bambola Michela: non c’era bambina italiana che non desiderasse premere la sua pancina e ascoltarla dire: «Auguri mamma!». Se il cartolaio Manfredi è ancora qui, a vendere quaderni e penne in via Paravia, a Milano, è anche merito di quella bambola parlante che gli rimpinguò le casse e lo convinse che comprare quel locale vicino alla scuola elementare Lombardo Radice era stata una buona idea.
In questi 47 anni dietro al bancone di legno il cartolaio Manfredi ha visto, guardando i bambini, cambiare tutto: il mondo grande e quello piccolo di San Siro, il suo quartiere. Un quartiere diviso in due non da una linea immaginaria ma da due concretissime rotaie del tram: da una parte le ville e i piccoli condomìni con giardino di chi voleva «vivere nel verde», e dall’altra le case popolari di ispirazione razionalista, edificate dagli anni Trenta fino al dopoguerra, destinate a dare un tetto agli operai e ai dipendenti dell’azienda elettrica, del gas e della Sip.
Nella cartoleria Manfredi entravano tutti, rotaie o non rotaie. «Mai un problema, mai una tensione. Erano anni in cui era bello lavorare: i bambini ti dicevano grazie e per favore. Anche i bambini stranieri, che sono arrivati vent’anni fa. Perché, lo voglio dire subito, questo non è un fatto di razzismo».
Che non sia un fatto di razzismo me lo ripeteranno tutte le persone con cui parlerò, ferme nel non voler fare da sponda agli slogan di Salvini o di CasaPound. Che non è un fatto di razzismo lo vedrò io stessa osservando i rapporti di vicinato tra italiani e stranieri: caso mai il problema è capirsi, ma per fortuna ci sono i bambini che sono bilingui e fanno da interpreti, quando serve.
Non è razzismo, ma un problema c’è, se da mesi questo quartiere e altri – il Giambellino, Calvairate, Baggio, per restare a Milano, ma succede la stessa cosa anche nelle zone popolari di Roma – sono saliti alla ribalta delle cronache per le occupazioni abusive degli alloggi popolari, gli sgomberi e un’ondata di tensione sociale che, come sempre, esiste da molto prima che i media se ne accorgessero. «Una guerra tra poveri» l’hanno chiamata contrapponendo gli abusivi ai regolari, quindi – per facilità – gli italiani agli stranieri. Ma la realtà è infinitamente più sfaccettata di così.
«Vede lì sopra? Quell’appartamento è occupato da 15 anni e non hanno mai provato a buttarlo fuori, quel signore». Leonard è romeno e fa il portinaio in via Ricciarelli. Spazza il cortile e butta i sacchi per tutti, regolari e no. Un po’ gli scoccia perché lui, anche se con fatica, un affitto lo paga, ma tant’è. In questi mesi nella via ne ha viste di tutti colori: la polizia, i centri sociali che urlano nei megafoni, gli zingari che prestano i bambini a chi non vuole lasciare l’alloggio (se ci sono minori le forze dell’ordine non possono procedere allo sgombero), i professionisti dello scasso che offrono un servizio con tariffario. «Per 150 euro aprono con il piede di porco la lastra che mette l’Aler sulla porta, per 200 ti installano i sanitari nuovi: ogni volta che una casa rimane vuota i water e bidet vengono spaccati dagli operai dell’ente per disincentivare l’occupazione. Per 500 ti mettono anche la porta blindata».
Le case, per essere assegnate, devono essere a posto, ma l’Aler (Azienda lombarda edilizia residenziale, ente della Regione) non ha soldi per ristrutturare e così ci sono alloggi sfitti e vuoti anche da più di 5 anni. Alcuni appartamenti avrebbero bisogno di grandi lavori, ma altri non possono essere assegnati perché hanno anche solo l’impianto elettrico fuori norma: con una spesa massima di 1.500 euro sarebbero in regola. Anni fa l’ente poteva affittare case anche non ristrutturate: le sistemava l’inquilino e la spesa gli veniva scontata dall’affitto. Ma adesso, per regolamento, non è più così. Inoltre una parte di quelle 9.754 case vuote sono «sotto soglia», misurano cioè meno di
28 mq. Metratura che, secondo un vecchio articolo di legge, non sarebbe «dignitosa per la famiglia», e che di fatto toglie quei monolocali dalla lista di case disponibili.
Vagli a spiegare all’articolo che la famiglia non esiste più, e che tantissime persone vivono sole.
Nel palazzo di Gloria, su 24 appartamenti, solo in 3 sono in regola. Negli ultimi 4 mesi hanno sfondato 7 volte. «Io sono uscita, da sola, di notte, a urlare. Ho anche tirato un vaso di fiori addosso a uno per il nervoso: sa che rumore fa, nel silenzio, una lastra di ferro che viene giù? E poi non c’è giorno che qualcuno non pisci e non caghi sulle scale. Non sto parlando di cani, eh signora? Parlo di cristiani. Ho chiamato la polizia per dire che nelle cantine cucinano, con le bombole del gas, e ci dormono anche, sui materassi. Ma non è successo niente, e io adesso che mi sono tanto esposta ho paura. Qualcuno in cortile mi ha anche fatto segno zac, sotto la gola, come dire: te la tagliamo. Ma non sono mica tutti così. L’altro giorno il mio vicino abusivo mi ha sorriso e mi ha chiesto: come va? Ho pensato: va che stronza che sono che non l’ho mai salutato».
Giulia Crippa, che ha ereditato da nonna Lucia Guerra – fondatrice del Comitato – la voglia di fare qualcosa per il suo quartiere, mi accompagna in via Maratta. Il cortile nel quale entriamo è bellissimo: le cementine per terra, gli alberi alti al centro, le panchine, la madonnina sottovetro illuminata da una luce blu. Qui ha uno sportello di ascolto Teresa, dipendente Aler che si è fatta promotrice di feste di quartiere e piccoli corsi sul vivere insieme. Sul muro c’è una poesia che le hanno regalato le persone della zona: «Parla di un angelo, dicono che sono io, mi han fatta piangere».
Qui su ognuna delle porte lastrate dall’Aler qualcuno è passato e ha messo un santino sperando forse che faccia da deterrente o che tenga almeno lontano la gente che fa paura.
Lucia, che abita in questa casa da sempre, ha 76 anni e non sta molto bene: «Devo prendere il Cumadin perché mi batte forte il cuore. Troppi spaventi, la notte. L’ultima volta che sono venuti a far gli sgomberi sul mio pianerottolo, mi hanno detto: dentro, vada a dormire. Ma io mi sono seduta sulle scale, in pigiama com’ero, e gli ho risposto: no, io sto qui fino a quando non li avete portati fuori, voglio vedere».
Antonia, 66 anni e un passato di impegno politico, ha un’altra idea: «Lucia, tu sei troppo sensibile. Il problema non è chi sfonda. Il problema è che sono anni che abbiamo il cancello rotto, che il nostro cortile è diventato un posto di spaccio e di consumo di droga, il problema è che le case libere dove sfondare gliele segnalano quei soliti quattro italiani sfigati che stanno qui. Per 20 euro a segnalazione, capisci? Io da qui vedo tutto. Vado a dormire alle 4, alle 5 del mattino, intanto sto al balcone a fumare. Se ho paura? Be’, cosa pensa, che io non dorma perché mi piace stare sveglia?».
«All’inizio le persone non capivano cosa fosse questo posto: entravano, raccontavano i loro problemi, scambiandoci per uno sportello di ascolto», dice Francesca Cognetti, responsabile del progetto. Il vantaggio di questo piccolo locale, al di là dell’attività di studio, è che porta qui persone – giovani, studenti – che da queste parti non sarebbero mai nemmeno passati, «rompendo così una specie di isolamento e solitudine». E che introduce, in una zona di degrado, un po’ di attenzione alla cura e al bello. «E insomma alla fine sta nascendo banalmente una relazione con queste persone. Ma qui una relazione non è mai banale».
Un angolo del locale si affaccia su quella che una volta era la discarica ufficiale della via: bidet, materassi, si gettava tutto lì. Hanno pulito e ci hanno messo delle fioriere con la terra. Vuote. Qualcuno ci ha piantato i fiori, qualcun altro li annaffia. Piccoli gesti che hanno a che fare con la cura e con la dignità. L’inquilino del pianterreno li ha ringraziati: ha riaperto una finestra che teneva chiusa da anni.