Enrica Broccardo, Vanity Fair 10/12/2014, 10 dicembre 2014
LA MIA PRIMA VOLTA DENTRO
Con la musica non si guadagna. Non si guadagna tanto, almeno, come ti dicono ormai tutti i musicisti, anche quelli di successo. Non si guadagna nien-te, se stai in carcere.
Siamo a San Vittore, che più dentro non si può, nella sala circolare da cui partono i sei bracci del carcere.
Una rete sta lì a mezz’aria, a trattenere i calcinacci che potrebbero cadere da una cupola così malconcia che sembra l’abbia colpita l’ira di Dio. In corrispondenza di ciascun braccio siedono i detenuti, quelli della sezione giovani adulti tutti da un lato, le donne da un altro.
Raphael Gualazzi suona la tastiera e canta, pezzi suoi e cover, l’acustica è così terribile che quasi non si capiscono le parole.
«È la mia prima volta in un carcere», mi dice alla fine del concerto. «Però ho suonato in una comunità per tossicodipendenti e, sempre a proposito di luoghi insoliti, l’anno scorso ho fatto un concerto a più di duemila metri di quota, in Valle d’Aosta (sul lago di Chamolé, a Pila, ndr). Il pianoforte lo hanno calato da un elicottero».
A San Vittore lo ha fatto venire Caterina Caselli della Sugar, che ha chiesto alla direttrice Gloria Manzelli di poter portare la musica dentro il carcere. Su questo palco, Gualazzi è stato preceduto da altri musicisti (qualcuno si ricorda di Claudio Baglioni parecchio tempo fa) e altri, come Frankie hi-nrg mc, hanno collaborato alla realizzazione di cd con canzoni scritte, suonate e incise dai detenuti nello studio di registrazione nel seminterrato.
Dal 2006 a oggi sono stati realizzati sei cd. Tutti scaricabili gratuitamente dal sito Vlp Sound (volendo, si può fare una donazione).
«È giusto che questa musica non sia venduta», dice il coordinatore Alejandro Jaraj, argentino, che lavora a San Vittore dal 1994. «Ma non mi va neppure il “sociale sfigato”: la gente applaude non perché apprezzi davvero quello che sente o vede, ma solo perché sa che arriva da un contesto di disagio. Noi non siamo una scuola di musica, ai dischi lavora solo chi era musicista già prima».
È il caso di Gerardo, 50 anni «compiuti qui dentro», e Jhosvanni Cuesta Madan, cubano di 39 anni che ha composto Santero. La canta, accompagnato da Raphael Gualazzi e da Gerardo alla chitarra.
Parliamo a fine del concerto. Entrambi sono in carcere con l’accusa di aver maltrattato le loro compagne. Mi raccontano brandelli di vita. Jhosvanni aveva cominciato a suonare il violino da piccolo. Gerardo era in una band, «facevamo jazz, blues. Ora in carcere lavoro come scrivano». In che senso? «Scrivo per i detenuti che non sono capaci di farlo: biglietti, lettere».
Alla fine del concerto, Caterina Caselli intona a cappella qualche strofa di Nessuno mi può giudicare. Che, all’improvviso, assume un altro significato.
Dev’essere così un po’ per tutto quando sei in carcere: saper tenere una penna in mano diventa un mestiere, mentre il senso delle cose cambia, a volte si inverte.
Per Raphael Gualazzi la musica è un modo per esprimersi come non riuscirebbe a fare con le parole. Per i detenuti, dice Alejandro Jaraj, «è un modo per imparare ad ascoltarsi nel profondo».
Me lo spiega con un aneddoto: «Tempo fa, c’era tra i detenuti un musicista blues. Era bravo a suonare, ma non ascoltava niente. Un giorno mi ha detto: “Se avessi dato ascolto a me stesso come ora dò ascolto alla musica, non sarei qui”».