Ferruccio Pinotti, L’Europeo 2006 n. 4, 10 dicembre 2014
LICIO GELLI OVVERO CANDIDE – [INTERVISTA ESCLUSIVA AL FONDATORE DELLA LOGGIA P2]
L’11 febbraio 2006, Lido Gelli, il capo della Loggia P2, ha donato all’Archivio di Stato di Pistola i propri archivi personali. Migliaia di documenti riservati e di fotografie compromettenti, che coprono un arco di storia impressionante: dai tempi del fascismo e della guerra civile spagnola – cui Gelli partecipò come legionario – sino alla fine del 2005. Negli archivi c’è anche la corrispondenza riservata che Gelli ha intrattenuto, dal dopoguerra sino a oggi, con tutti i potenti del nostro Paese: da Giulio Andreotti a Silvio Berlusconi.
Il nome di Gelli è stato chiamato in causa in tutte le più torbide vicende italiane: dalla strage di Bologna alla morte di Roberto Calvi, dai tentativi di golpe sino a Stay Behind (Gladio) e persino nella vicenda di Ustica; dalla conquista della Rizzali-Corriere della Sera all’ascesa dell’uomo di Arcore. Gelli è il “grande vecchio” per eccellenza, una figura che nonostante l’età – ha compiuto 87 anni in maggio – ha ancora molto potere.
Abbiamo intervistato a lungo Licio Gelli nella sua residenza storica, Villa Wanda, ad Arezzo. Scoprendo innanzitutto, con sorpresa, che il gran maestro della massoneria piduista non è affatto agli arresti domiciliari e che anzi gode di libertà assoluta. Anche la famosa villa (quella nella quale vennero ritrovati dei lingotti d’oro, sepolti in giardino) non gli è stata affatto sequestrata; e quando su di essa viene bandita un’asta, finisce regolarmente deserta. Abbiamo poi scoperto, parlando con Gelli, altri “particolari” molto curiosi: per esempio il fatto che non solo non ha versato una lira per il “crack” dell’Ambrosiano, ma che l’istituto gli ha versato dei soldi, dopo una transazione riservata in Svizzera. Ci ha parlato delle simpatie massoniche di molti personaggi oggi potenti in Italia.
Intervistare Licio Gelli – un uomo che donando i propri archivi ha lasciato intendere di non temere il giudizio della storia – è perciò un’opportunità preziosa. Ecco una sintesi di quella lunga conversazione.
Parliamo di Michele Sindona. Lei dove e come lo conobbe?
A Roma. Era il 1976. Me lo presentò il generale Vito Miceli, il capo del Sid: un ottimo professionista che due-tre volte la settimana passava da me all’hotel Excelsior. Miceli era molto acuto e professionale nello spionaggio, le iniziative per conoscere e sapere quali erano le regole della difesa militare passavano attraverso di lui. Sindona me lo presentò lui. La valutazione di Sindona è molto più complessa: c’è un Sindona A e un Sindona B. Il Sindona A, all’epoca in cui io l’ho conosciuto, lo chiamavano l’ingegnere dell’economia, perché era una persona di grande competenza. Sarebbe stato – Andreotti stesso lo definì l’uomo della provvidenza – un ottimo governatore della Banca d’Italia, o un valido ministro del Tesoro. Quando entrò in difficoltà per il crack della Franklin Bank io mi recai a New York per deporre in merito alla sua persona. A rendere un affidavit a favore di Sindona voleva venire anche il procuratore generale della Corte di cassazione Carmelo Spagnuolo. Io gli dissi: se fossi la Cassazione, non lo accetterei, ti punirei. Questo per dirle il potere e l’ascendente che aveva Sindona. Io posso capire che venisse la Bonomi Bolchini: o altre persone, come Francesco Corsentino, massone, allora segretario della Camera dei deputati, che poi si dimise per il famoso scandalo della Lockheed. Ma il presidente della Cassazione…
Lei però non ebbe problemi a testimoniare a favore di un bancarottiere come Sindona.
Dissi che io potevo andare perché non dovevo rendere conto a nessuno e perché non avevo fatto niente di male.
Volevano venire a testimoniare a favore di Sindona, in America, pure i cardinali Vagnozzi e Caprio, vicini all’Opus Dei. Solo un veto in extremis del Vaticano glielo impedì…
Sì. Io mi recai a rendere l’affidavit e feci pure una dichiarazione importante, che non venne ascoltata. Dissi: «Secondo quanto mi risulta, se lo trasportano in Italia lo suicidano».
Lei ha appena detto che c’era anche un Sindona B? E qual era ?
Sì, c’era un Sindona B: se è vero quello che gli hanno addebitato, la morte di Ambrosoli e poi l’autoferimento, allora lo declasso immediatamente, non lo riconosco più. Io sono andato spesso a trovarlo negli Stati Uniti. Perché lo incontravo? Andavo a trovarlo perché quando c’è una reciprocità ci si deve trovare, bisogna andare: mai abbandonare l’amico.
Che spessore tecnico aveva. Michele Sindona? Avrebbe davvero potuto fare il governatore della Banca d’Italia, o il ministro delle Finanze. Io lo chiamavo il “geniere” dell’economia. Lui sapeva tutto in materia finanziaria, sapeva trasformare i fatti negativi in positivi. Era abilissimo: ascoltandolo non ci si addormentava mai.
Da cosa derivava la paura di Sindona di essere ammazzato?
Che cosa vuole, lui apparteneva a un paesino del Sud, in Sicilia. Mi raccontava che era venuto su al Nord con Enrico Cuccia. Nel 1948-1949 si era trasferito a Milano. Lui e Cuccia avevano messo su un ufficio, riempivano i moduli della famosa legge Vanoni, la denuncia dei redditi inventata da Vanoni. Prendevano trecento-quattrocento lire per ogni modello che compilavano. Sindona e Cuccia sono tutti e due originari dello stesso paese, in Sicilia. Poi seppi che Sindona si era messo con Calvi, lo l’ho frequentato nel periodo in cui era in disgrazia.
Di Enrico Cuccia che idea si è fatto?
Vede, Cuccia io lo chiamavo l’ambasciatore del dolore, perché si presentava sempre vestito di nero e non aveva mai un sorriso. Lui una gioia non credo l’abbia mai avuta. Era sempre triste, era l’ambasciatore della tristezza. Però era intelligente. E non parlava.
Lei che idea si è fatto dei rapporti tra Sindona e la finanza vaticana? Era l’uomo del Vaticano? Calvi ereditò i segreti di Sindona?
Inizialmente erano molto, molto amici. E tra loro era nata quasi una linea Sindona-CaIvi contro Cuccia. Non vedevano bene Cuccia.
P2: l’idea del Piano Rinascita fu sua, oppure fu un concorso di menti e di idee?
No, fu mia. Prima feci il cosiddetto Schema R e lo consegnai al presidente della Repubblica Giovanni Leone. Un giorno eravamo stati ricevuti al Quirinale, io e il Gran Maestro Salvini. Erano presenti il presidente Leone e il segretario generale della Presidenza. Il presidente mi chiese i motivi del malessere che in quella fase storica c’era nel popolo italiano e le decisioni che avrei suggerito di prendere per eliminarlo. Io stilai questo piano, lo Schema R, che non stava certo per Rivoluzione, come è stato detto, ma per Rinnovamento. Lo consegnai a Nino Valentino che era il segretario personale di Leone. Poi mi incontrati di nuovo con Leone. Mi disse che la mia analisi aveva elementi di verità, ma che era un piano troppo profondo, troppo ardito, che non si poteva nemmeno parlarne.
Ma lei lo concepì proprio da solo?
Certo. Sì. Però non era l’altro. Il Piano di Rinascita è un conto, lo schema R un altro. Erano due progetti distinti. Lei li trova tutti e due, firmati foglio per foglio, all’archivio di Stato. Li ho consegnati in originale.
Nel piano Rinascita si cita l’importanza della massoneria internazionale. Questo significava l’appoggio degli americani o comunque di forze esterne?
Sì, era importante avere una collaborazione della massoneria internazionale. Quello che non si poteva ottenere con l’appoggio politico interno si poteva appianare attraverso rapporti massonici internazionali.
Molti pensano che fosse un piano concordato con gli Stati Uniti. Reagan, in particolare, era massone. Che può dire al riguardo?
I contatti ci potevano essere. Per carità, i rapporti c’erano, sono stato presente a tre cerimonie di insediamento di presidenti americani: Carter, Reagan e Bush padre. Bush padre poteva essere molto vicino ad ambienti massonici. Sì, era vicino a essi.
Nel 1978 Berlusconi entra nella P2. Lei come ricorda l’iniziazione?
I nuovi membri della loggia P2 venivano iniziati all’orecchio del Gran Maestro, sulla spada, come si suol dire. Il nome veniva sussurrato e l’iniziazione avveniva con una semplicissima cerimonia perché a volte ce n’erano tre-quattro al giorno da iniziare. Si dedicava un’ora e un quarto a ogni iniziazione. C’era quello che parlava della materia di cui si interessava, veniva fatta una prolusione, una cosa semplicissima. E poi seguiva una discussione, una specie di colloquio. Le ammissioni alla P2 venivano organizzate secondo le capacità dei candidati, le loro attitudini, in modo da trovare eventualmente la persona che potesse avere un colloquio e approfondirlo su varie questioni di carattere spirituale.
Lei come ricorda l’incontro con Berlusconi?
Si era alla presenza di altri due o tre fratelli massoni… senz’altro c’era Roberto Gervaso, c’era presente Fabrizio Trecca, il medico ora in tv. C’erano vari personaggi rappresentativi, nella P2. Erano tutte persone che rappresentavano un settore. L’idea era quella di riunire il meglio della società.
Lei ha l’impressione che Berlusconi abbia usato la P2?
Queste sono cose che possono succedere. Come lei può immaginare, fra le tante persone che facevano la domanda non tutte avevano un pedigree con dieci decimi. Coloro che si pensava non fossero degni non si accettavano. Quelli che venivano accettati si pensava che fossero tutti sulla stessa onda…
C’è chi ha detto che Berlusconi ha attinto a piene mani dal suo piano per il programma di governo. Lei concorda?
Può darsi che gli sia piaciuto, questo non lo so. Perché, guardi, il Piano Rinascita se lo esamina – dalla riforma della giustizia alla divisione delle carriere nella magistratura – è formato da ottimi principi: prevedeva una Repubblica presidenziale. È giusto che ci sia qualcuno che dice sì o no.
Noi non seguivamo i singoli massoni, dopo la loro ammissione: non potevamo occuparci da vicino di ciò che singolarmente ognuno faceva e controllarlo. Il colloquio di ammissione era molto approfondito e vedevamo se aveva quelle caratteristiche per poter partecipare all’associazione. Quando la ammettono deve rispondere a determinate domande e dopo lei viene giudicato secondo un giudizio espresso. Uno deve avere dei principi validi. Non è vero che la massoneria è nata per avvantaggiarsi, non è vero che è nata per poter correggere la società. Ma è sorta soltanto per poterla migliorare, per insegnarle qualcosa, certi principi che poi hanno tante altre associazioni: può essere il Rotary, il Lions. Quelle sono le anticamere della massoneria, che poggia su una triade di valori: fai ciò che desideri sia fatto a te; cerca di fare quello che desideri venga fatto a te; prevedi e provvedi alle necessità di tuo fratello senza che esso conosca da quale parte proviene. Prevedi e provvedi: questa è la base. È un po’ difficile, ma se uno fa una buona scelta... perché più che altro è il comportamento, non è la tessera che fa il massone. Uno deve nascere in un certo qual modo massone. Perché ci sono più cosiddetti “fratelli senza il grembiule” che nei templi.
Che effetto le fa quando, leggendo gli atti del processo Dell’Utri, si dice che Berlusconi ha avuto rapporti con la mafia?
Mah, io non lo so... come si fa a scoprire che quello appartiene alla mafia oppure a... come fa Lei a scoprire? Nei vari contatti? Può darsi che Berlusconi abbia avuto rapporti (con la mafia). Può darsi. Ma come faccio a sapere che lei ha una tendenza piuttosto che un’altra? Io d’altra parte capisco che, nel mondo, Berlusconi avrà avuto un’infinità di incontri, come ne avrà tuttora. E che ne avrà con delle brave persone come con persone che non sono degne. Ma come fa lei a stabilirlo?
Ma siete rimasti in contatto?
Mah, eventualmente se lo incontro qualche volta lo saluto. Ne ho incontrati tanti altri, li ho salutati e basta, finito. La loggia è stata sciolta e quindi...
C’è chi dice che sia proseguita.
No, secondo me è stata sciolta. È irripetibile.
Che cosa pensa della morte di Roberto Calvi?
Per me l’hanno fatto fuori. Quando me lo chiesero i magistrati io glielo dissi: «Per me è stato suicidato». Glielo dissi proprio convinto. L’hanno suicidato. Un uomo portato via quasi clandestinamente da tre persone che lui non so come le conoscesse, e che l’hanno portato a Londra, l’hanno messo in questo hotel che è di 12 piani... se lui aveva intenzione di suicidarsi apriva la finestra e si buttava di sotto. Poi lui è uscito una sera, inavvertitamente, perché era controllato, guardato (a vista) come ha detto la stampa. Da dove stava lui al famoso ponte sono sette chilometri. Uno che ha fatto davvero una passeggiata di sette chilometri dice: vabbè, pensiamoci, ci penserò domani. Ma perché uno si mette delle pietre in tasca? Lo fa se ha deciso di annegare, così il peso lo porta giù. Se deve salire su un’impalcatura, si deve alleggerire. E come fa a salire su un’impalcatura scivolosa con le scarpe? Nemmeno coi calzini è possibile. Ma bisogna essere giovani, leggeri e non appesantirsi. Se fossi stato un investigatore mi sarebbe apparso subito chiaro che è stato suicidato. E poi, la fuga di questo Carboni: se hai accompagnato una persona per lo meno resta lì, assisti. Invece Carboni piglia e se ne va. La fuga stessa genera subito sospetto.
Chi può essere stato a volere la morte di Calvi?
Vede, mi ha disturbato una cosa: il film I banchieri di Dio nel quale appare nove volte il Santo Padre. Mi hanno disturbato le parole di Marcinkus quando dice della parolacce e aggiunge: «Tanto quelle sono lettere di patronage che non valgono nulla». Questo mi ha disturbato. Allora era vero, allora i 250 milioni di dollari che ha versato il Santo Padre, vuol dire che sapeva che erano una vera riparazione e non erano per “assistenza” come è stato detto dopo. Senta, io sono arrivato a fare delle analisi dopo…
Quindi se il Vaticano ha sborsato quella cifra significa che era coinvolto?
Il Vaticano non regala nulla. Come si suol dire in ambienti vaticani: «La Chiesa non chiede e non rifiuta nulla».
La vicenda Rizzoli come andò? Il cosiddetto “pattone” prevedeva un riassetto a tre in cui una grande quota andava alla Istituzione, cioè la P2.
Quando siamo arrivati a quel fatto lì, il pattone, la Rizzoli andava molto molto male. Lei tiri fuori dagli archivi che ho donato una lettera olografa di Angelo Rizzoli jr che mi ringrazia disinteressatamente, a nome dell’azienda, della famiglia e del personale per il fatto che io avevo fatto tutto questo. Da ultimo Gianni Agnelli dispose il rientro: “Entro le ore 12” bisognava portare una certa somma di denaro. Io vidi questi impazzire. Io dissi perché non lo vendete? Vendete alla Confindustria. Poi subentrò il discorso della banca. Ora quando uno vende la Rizzoli non è che la vende Angelo o Andrea o Tassan Din, da soli non potevano vendere, serviva il consiglio, l’assemblea e quello che compra. Quindi comprava una banca, non comprava Calvi. Quando io lo proposi a Calvi, lo proposi così, come battuta: ma perché non rilevi il Corriere? È un bel giornale, una testata storica. Allora era condotto bene, andato via Ostellino alla direzione c’era Di Bella.
Ma questa quota che era in mano alla cosiddetta “istituzione” era davvero in mano alla P2? O in realtà era in mano allo lor?
Forse doveva andare in mano a qualche altro ma non glielo so dire. Perché dopo non si dilungarono... come dire: Calvi veniva a Roma e si andava a pranzo da Umberto (Ortolani) molte volte Calvi restava lì a dormire. Umberto era un banchiere, perché aveva delle banche. Ortolani aveva delle banche in Sudamerica, il Bafisud, poi aveva la Mundial a Buenos Aires.
La sentenza di Cassazione sul Banco Ambrosiano del 1998 dice che lei ricevette 182 miliardi di lire. Fu un compenso per l’operazione Rizzoli?
Il mio compenso fu un miliardo e mezzo di lire, io denunciai un miliardo e mezzo di intermediazione, depositati.
E i 182 miliardi allora?
L’avranno detto, ma non l’hanno mai provato. Magari l’avessero provato. Me lo dimostrino.
E come è andata a finire con la sentenza?
Io ho fatto la transazione col Banco Ambrosiano in Svizzera, c’erano tutte le autorizzazioni della procura di Milano. Io ho transato e loro (del Banco) mi liquidarono con 17 milioni di franchi svizzeri.
L’Ambrosiano a lei?
A me. Mi hanno dato 17 milioni di franchi svizzeri. All’archivio c’è tutto. La trattativa l’avevano affidata a una società inglese e le riunioni si facevano a Milano. Le ho fatte sempre all’hotel Jolly. Abbiamo portato avanti la trattativa e la abbiamo definita il 15 aprile 1993.
Spostandoci all’aspetto umano, lei che ricordo ha di Roberto Calvi?
Ottimo, bravo, magnifico. Mi ricordo che era affezionatissimo alla sua borsa tanto è vero che scherzando dicevo: «Ma te la porti anche a letto?» Quando si metteva a sedere, doveva sempre avere il piede attaccato alla borsa. Sempre scherzando io gli dicevo: «Ma cosa ti seccherebbe di più di tutto?» Che mi scrivessero una lettera anonima in cui si dice che io sono andato con un’altra donna, rispondeva. Era un cattolico fervente, lo era veramente. Le voci di una amante brasiliana? Tutto potrei credere ma se qualcuno mi avesse detto che Calvi aveva un’amante avrei detto: ma neanche per sogno. Lui un giorno mi parlava e disse: «Sarebbe un dispiacere per me». Era molto legato alla moglie. Tanto è vero che quando fu ritrovata (la borsa) io ebbi dei dubbi. Giorgio Pisano, mio amico di vecchia data in quanto anche lui pistoiese (il padre era stato viceprefetto a Pistola, eravamo assieme nelle squadre della Repubblica di Salò), io l’avrei preso e gli avrei detto ora mi confessi chi t’ha dato questa borsa perché da come la fecero vedere c’erano dei documenti, il passaporto del Nicaragua.
Carlo Calvi mi ha detto che tra le cose che aveva con sé c’era una cartelletta intitolata “Bologna” con chiaro riferimento alla strage di Bologna...
Neanche per sogno, non ci credo. Troppo fantasioso. Secondo me portava... guardi lui era un fervente cattolico, praticante. E quando qualche volta mi invitava su a casa sua sul Lago di Como lui si interessava – tutto il sabato e la domenica – a una lavorazione di carne. Aveva lì un allevamento di maiali. A volte diceva: ti porto le salsicce che ho fatto io. Era una brava persona. Può darsi fosse un po’ fragile. Quanto è stato bombardato negli ultimi tempi con il discorso del passaporto, con il carcere! Deve pensare cosa significava allora, il carcere; oggi parlare a una persona del carcere non fa più effetto, è diventata un’abitudine. Fiorani, e situazioni simili. Una volta no, non era così. Perché ha avuto tanto sviluppo Mani Pulite? Perché questa gente che finiva dentro aveva paura, timore. Se lei non mi dice questo la mettono in carcere. Tanta gente pur di non confessare si è suicidata, gente tipo Cagliari, Gardini. Perché faceva terrore, c’era il terrore di andare in carcere. Ora non è più così. Anche a Cesarino, un caro amico (Previti, ndr)... non fa più effetto.
Però secondo Lei l’Ambrosiano non era marcio, è così?
Ma per carità. Ma neanche per sogno! La dimostrazione è Credito Varesino, il Gottardo, la Toro Assicurazioni. Se loro vendevano una o due di queste banche il Banco Ambrosiano era a posto. Bastava venderne due. Calvi era entrato nella P2 nel ’76-’77.
E allora perché non l’hanno fatto?
L’hanno voluto far fallire. Quando ci fu il crack della Cassa di Risparmio di Prato con 2.500 miliardi di lire di buco contro i 2.100 (1.200...) dell’Ambrosiano; lì ci fu un pool di banche benefiche e l’hanno salvato come poteva essere salvato l’Ambrosiano. Hanno venduto al prezzo di rottami di ferro, invece erano rottami d’oro.
Ma lei crede all’ipotesi, oggi avvalorata dagli atti del processo, che in quella delicata fase tra l’81 e l’82, sia stato costretto a fare riciclaggio di denaro sporco?
Ma certo, probabilmente sì perché quando poi cominciano le cose a non correre, tutti approfittano della debolezza. D’altra parte se uno è già debole e riceve un’altra pressione, crolla. Credo che molto sia dovuto al cardinale Martini, che lo avversava parecchio.
Ne è sicuro?
Eh si. Strano, no? Subito dopo il crollo tutti gli amministratori della Curia di Milano si sono ritrovati nel comitato dei liquidatori: Spreafico, Martinelli, altri... e quelli erano tutti amministratori della Curia e poi sono entrati nel Comitato.
Loggia Ecclesia...?
Che io sappia no, nemmeno per sentito dire. L’ha detto Mino Pecorelli? Mah, d’altra parte Pecorelli aveva una penna piuttosto velenosa nel vero senso della parola. Un ottimo scrittore, si era iscritto alla Loggia.
Lui si era iscritto per rivelare i fatti della Ps?
No, perché non gli si faceva vedere nulla. Lui spesso parlava per induzione.
Ma che idea si è fatto sulla sua morte?
Sa, anche lì... io avrei preso tutti gli opuscoli e li avrei passati due o tre volte al setaccio per vedere la persona che era più coinvolta. Io sarei andato lì e avrei indagato. Avrei verificato colui che veniva giornalmente tartassato da Pecorelli. Come investigatore avrei fatto così. Li avrei selezionati con attenzione.
Lei non crede alla pista Andreotti?
Ma neanche per sogno. Andreotti soffre di un mal di testa continuo e Pecorelli idem. Perché molte volte lui s’alzava da tavola – si mangiava all’Elefante bianco, a Roma, in via Lombardia – s’alzava e chiedeva di andare a distendersi per il mal di testa che lo prendeva improvvisamente e che era terribile, lo stordiva. Diceva: io quando ho queste crisi prendo delle pillole, e faceva capire che venivano dal Vaticano.
Certo che ha fatto una brutta fine, no?
Eh certo. Ha fatto veramente una brutta fine. Ma credo che Andreotti non lo conoscesse nemmeno. Con me non c’erano conversazioni tali da poter pensare. Certo che farlo ammazzare così a sangue freddo... Doveva essere qualcuno che aveva un sangue freddo notevole. Diceva il capitano Labruna... Dicevano che lui usasse questo sistema: che prima si facesse dire qualcosa, poi lo pubblicava su OP; se nell’arco di 15-20 giorni non veniva querelato se ne impossessava in un certo qual modo l’Espresso.
Che può dire della sua evasione dal carcere di Champ-Dollon?
Diciamo che fu una notte fortunata, trovai tutte le porte aperte. L’elicottero venne a prendermi a due chilometri da lì. Mi rifugiai in Francia, nei paraggi di Nizza. Io me ne sono andato tranquillo, sereno, perché se avessi dovuto danneggiare qualcosa o anche dare uno schiaffo non lo avrei fatto. È stato un po’ avventuroso; ad aspettarmi c’era il furgone, fuori. Quei furgoni con lo sportello laterale. Sono entrato e mi sono messo sotto le coperte. Ma il fatto è che nel frattempo era stata scoperta la fuga: non al primo controllo – perché avevo messo un fantoccio di carta usa e getta, vestito col mio pigiama e con i testa i capelli che raccoglievo quando andavo a farmi i capelli – ma al secondo sì: hanno rigirato il fantoccio che era voltato verso il muro. Pungendomi il dito con uno spillo e impiastricciando la parete di sangue, ho finto una colluttazione; quindi prima dissero che ero stato rapito.
Ferruccio Pinotti – L’Europeo 2006 n. 4