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 2014  dicembre 10 Mercoledì calendario

GIORGIO AMBROSOLI


QUANDO: 11 luglio 1979.

DOVE: Milano, via Morozzo della Rocca, davanti alla sua abitazione.

VITTIMA: Giorgio Ambrosoli, milanese, 46 anni. Civilista, si occupa della liquidazione della Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Viene assassinato con tre colpi di pistola. Onesto, intransigente e incorruttibile, non si fa intimidire dalle minacce telefoniche che riceve dal clan del finanziere. E riesce a ottenere l’estradizione del bancarottiere dagli Usa, per farlo processare in Italia.

MOVENTE: Ambrosoli paga con la vita, per aver fatto chiarezza sulle operazioni illecite di Sindona. Il legale indaga anche sulla Franklin Bank di New York, l’istituto di credito controllato dal finanziere, che sta per essere dichiarato fallito, proprio nello stesso periodo in cui l’avvocato viene ucciso.

IL CASO È: chiuso. Ergastolo per William Joseph Aricò, il killer che spara per 125mila dollari, e per il mandante, Michele Sindona. Il sicario perde la vita il 19 febbraio 1984, durante un improbabile tentativo di evasione: precipita dal nono piano del Memorial Correctional Center di New York. Il finanziere siciliano beve invece un caffè avvelenato in carcere e muore a Voghera, il 20 marzo 1986. Per i giudici è suicidio.



MORTE DI UN AVVOCATO–

Tutto cominciò nel 1974, allorché Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, scelse lui, Giorgio Ambrosoli, come commissario liquidatore della Bpi, alias la Banca privata italiana capofila dell’impero di Michele Sindona. Accettò.
Ancora non sapeva, non a fondo perlomeno, che si sarebbe addentrato in un labirinto d’ignobili trame e raggiri. Che sarebbe incocciato in una giungla di società che ben camuffavano gli affari della mafia e dei suoi politici paladini. Lui giovane e ancor non notissimo avvocato. Lui milanese, come suo padre e sua madre. Lui della “bella gioventù”, in fondo. Il liceo classico. La facoltà di giurisprudenza alla Statale. La laurea con tesi in diritto finanziario. Eppoi il tirocinio. E il praticantato in uno studio di buon nome (finché non ne aprirà uno tutto suo, in corso Magenta, zona borghese e di storielle tradizioni). Lui dal carattere non facile, a dire il vero. Così introverso, taciturno, riservato. E pure impulsivo. E intriso da un gran senso del dovere. Fino al punto di rimettere in gioco se stesso, sempre: sin negli anfratti più duri del rischio. Lui così alto, e magro, folti baffi neri ma una calvizie già nascente. Lui che ha una moglie, Anna Lorenza Goria detta Annalori (così appassionata e appassionante, invece), nonché tre figli, una femmina e due maschi, rispettivamente di sei, cinque e tre anni. Lui che Corrado Stajano definirà “Un eroe borghese”, che poi è anche il titolo del libro edito da Einaudi nel 1991. “Borghese” perché era un liberal-moderato, e un monarchico: affascinato dallo slogan “Patria. Stato. Dovere”, tra l’altro.
Eroe lo diverrà. Shakespeariano, quasi, nell’incocciare non più nel “C’è del marcio in Danimarca” ma nel “C’è del marcio in Italia”. E comunque, no: ancora non sa, non a fondo, perlomeno, che razza di lotta impari l’aspetta. Scriverà Susanna Ripamonti su l’Unità: “Quando Ambrosoli entra per la prima volta nel ‘sindoniano’ studio privato, nel settembre del 1974, comincia a scoprire le sue reti di protezione, i suoi segreti. Una porticina conduce al sottotetto dove per anni è stata nascosta la documentazione più compromettente, che però già è stata distrutta... Ciò dimostra che le banche di Sindona sono prossime all’insolvenza”. E poi: “Ambrosoli capì che quello del finanziere siciliano non era un potentato personale... Che i suoi istituti di credito erano al centro di un intreccio di sistemi di corruzione... Sentiva, palpabile, il presentimento della fine. Ma la resistenza a tutte le minacce e le blandizie fu durissima, nella piena coscienza dei rischi che correva, in totale solitudine...”.
Le minacce e le blandizie... Una lotta impari, sì. Titanica. “Con la P2 che faceva da regista nell’offensiva micidiale contro di lui, di continuo esterrefatto – risulta anche dalle sue agende – di fronte alla rivelazione delle illegalità, le trame, le connivenze, i tradimenti di chi si allinea per vanificare la legge”.
Lui, Ambrosoli, alias “il liquidatore”. Lui che “i principi della legalità e del buon governo li aveva nel cuore”. Lui che detesta il primato della politica. Lui solo, al di là dei collaboratori fidati: esperti di borsa, colleghi, agenti della guardia di finanza, a cominciar da Silvio Novembre, che diverrà uno dei suoi amici più cari, fino a Pino Gusmaroli, in quella piccola task-force comunque strapreziosa. Lui solo e la gran rete dei poteri sommersi (la mafia, la P2 allora ai più assolutamente sconosciuta), la Banca Vaticana dello Ior, la Dc di Giulio Andreotti, gli ufficiali e i magistrati corrotti, legati insieme da un mix di “forze” diverse, in genere non necessariamente connesse, ma in questo caso certamente sì. Connesse e radicate anche nella finanza milanese, persino nel mondo bancario, e in quello politico, ovvio.
Lui che allorquando entrò nel “sindoniano” studio, la Bpi di via Verdi, cuore della finanza succitata, ci restò per due giorni di fila. Lui cosi solerte e sinanco esageratamente cavilioso, laddentro, nel tentar di districare quell’ammasso di melma. Con un obiettivo preciso: “Non far pagare alle casse dello Stato, e cioè ai cittadini, il crack di ‘don Mike’“ (Giampaolo Pansa).
Due giorni di fila, sì. E la sera a casa, in via Morozzo della Rocca, zona Magenta, di nuovo. A casa in quel salotto-pranzo così tradizionalmente “conformista”. Dove, alla buon’ora, può star coi figli, e la moglie. E dopocena, liberato il tavolo, lui nel silenzio, a tentar di districarsi nel groviglio dei suoi enigmi.
Lui, Giorgio Ambrosoli... Al solito “emarginato”: in primis dai poteri “forti”, che si sentono in pericolo, e centuplicano le pressioni e le minacce, acché “ritocchi”, e stoppi, la richiesta d’estradizione dagli Usa di “don Mike”, che “appartiene alla razza dei siciliani che hanno fatto fortuna nella Milano dei soldi e degli affari” (S. Ripamonti). E lui, Ambrosoli... Emarginato, sì: “contro un nemico potente: un intreccio formato da gente di governo e della finanza internazionale, dalla City di Londra e Wall Street, e la P2, appunto a far da costante regista tra la mafia e i domini criminali che offrono la manovalanza”. Parole di Stajano. Che poi: “Quel che lo turbava di più era rendersi conto a ogni momento di avere come nemici uomini di alto rango dello Stato: presidenti del Consiglio, generali, banchieri, protagonisti di illegalità...”. A cominciare da “don Mike”, ovvio: che già nel 1973 proprio Andreotti, al Saint Regis di New York l’aveva gratificato con l’inatteso titolo di “salvatore della lira”. E lui di rimando, più avanti... Una lettera. “Illustre presidente, nel momento più difficile della mia vita [è stato colpito da un mandato di cattura con richiesta d’estradizione dagli Usa, ndr] sento il bisogno di ringraziarla dei rinnovati sentimenti di stima che Ella ha recentemente manifestato...”.
E intanto Annalori Ambrosoli ha già scovato una sorta di testamento morale, sul tavolo di quel salotto buono. E l’ha letto. Ed è stato uno shock. E comunque l’ha risistemato dov’era. E non una parola, col marito. Per l’imbarazzo d’averlo fatto, forse. Anna carissima, qualunque cosa succeda, tu lo sai cosa devi fare e sono certo che lo saprai fare benissimo. Dovrai allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto... Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia e nel senso trascendente che ho verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché tu sei molto brava e perché i tre ragazzi sono uno meglio dell’altro. Sarà per te una vita dura ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai sempre il tuo dovere, costi quello che costi....
Lui, il marito... Senza guardare in faccia nessuno e senza dar retta alle pressioni, che si moltiplicano, da dovunque, già è pronto per la consegna dello stato fallimentare della Bpi alla Banca d’Italia. Ha esaminato ogni incartamento, ogni dettaglio, ogni situazione. Lui che in quella lettera: “II dover trattare con gente di tutti i colori e risme non mi tranquillizza affatto. È indubbio che, in ogni caso, pagherò molto a caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di far qualcosa per il Paese”.
Tuttavia il tempo scorre, quasi sereno, come capita allorché coscientemente rimuovi certi psicologici traumi. E poi... Il genero di “don Mike”, Sandro Mangoni... Un vero e proprio tentativo di corruzione: «Non sia così rigido, avvocato, noi sistemeremo tutto e lei sarà il presidente della nostra banca...». Rifiuta, ovvio. Anzi: procede con maggior vigore, semmai.
Il tempo continua a scivolar via. Ma a fine dicembre 1978 cominciano le telefonate con minacce di morte. Narra Giorgio Bocca: “Il 26 Ambrosoli annota sull’agenda: ‘Mi cerca quattro volte al telefono in studio prima e in banca poi, tale Cuccia. Lamenta che in Usa non avrei detto la verità, su Sindona’. «Devi tornare là con i documenti veri perché se Sindona viene estradato tu non campi»”. E il 15 gennaio dell’anno dopo: ‘Ritelefona due volte il soggetto che si è presentato a nome Cuccia. Stavolta a nome Sarcinelli [il capo del servizio della vigilanza alla Banca d’Italia, ndr]. Insiste sulla faccenda degli Usa e dell’estradizione da evitare’. E ancora: ‘Altra telefonata in cui il picciotto dice che Andreotti trama contro di me. Entra in funzione il controllo telefonico ma credo che ci sia poco da contarci”’.
L’ultima chiamata, lo riferisce Stajano, è del 17 gennaio 1979. E suona come un ultimatum: “Non la salvo perché lei è degno di morire ammazzato come un cornuto. Lei è un cornuto e un bastardo”. Il messaggio è chiaro: “Sindona ha deciso di far uccidere il liquidatore”. Che denuncia il tutto, ma rifiuta la scorta. Di nuovo solo, a lottare coi titani.
In marzo, presenta la prima relazione sui “sindoniani” illeciti. Un lavoro smisurato: 2.500 cartelle dattiloscritte. Poi toccherà alla seconda. E Stajano, a Piero Banas de Il Mondo: “Vista la delicatezza del documento, per individuare eventuali fughe di notizie, Ambrosoli inserisce in ogni copia un errore di battitura, di cui prende nota: se la copia uscirà, saprà chi è stato a violare il segreto conosciuto da pochi”. Qualche tempo dopo viene a sapere che Sindona ne aveva una. A New York la segretaria aveva ribattuto il documento. Ergo: niente fotocopie, nessuna traccia “per individuare chi aveva consegnato la relazione al bancarottiere”. Un altro inquietante episodio accade pochi giorni più tardi, allorché nel sotterraneo di via Verdi viene scovata una pistola segata a pezzi, sistemata su un bidone della spazzatura. Il messaggio è in puro gergo mafioso: “Ti ammazzeremo e ti sbatteremo lì dentro”.
E difatti arriva lui, il killer. Alias William Joseph Aricò, ex esperto “nello sterminio a domicilio di ratti, topi e scarafaggi”, che vanta un background di tutto rispetto, per uno par suo. Assalti a banche, supermercati, ipermercati... Su su fino all’omicidio, nel 1971, quand’ammazza un poliziotto, e gli danno vent’anni di galera (anche se ne sconterà solo cinque, grazie a un’evasione). Arriva in Italia l’8 luglio di questo 1979. A fare il suo sporco lavoretto. Lui scelto dalla mafia Usa, pare, da sempre vicina al super banchiere di Patti provincia di Messina. In tasca, un anticipo di 25mila dollari (gli altri 90mila li avrà in seguito, accreditati in un istituto di credito di Milano). Arrivò 1’8, sì. E l’11 la tragedia.
È un mercoledì. La serata è afosa, nonostante sia quasi mezzanotte. Davanti al portone di via Morozzo, tre uomini, in una 127 color violaceo. Il capo è William Joseph Aricò detto “The Big Bill”. Ed è lui a sparare. Con una 357 Magnum. Un colpo al braccio, uno alla testa e uno al cuore. La vittima s’accascia sul cemento. E i tre si volatilizzano, mentre qualcuno chiama l’ambulanza. Ma la corsa verso il Policlinico è inutile. Quand’arriva, Giorgio Ambrosoli, “l’eroe borghese”, è già morto. Non se l’aspettava. Non quella sera. Quella sera era sereno. La deposizione che avrebbe dovuto consegnare l’indomani al giudice era pronta. Un dossier enorme. I risultati dei suoi accertamenti. Nei quali “è dimostrato anche il connubio del bancarottiere con insospettabili apparati politici ed economici”. Parole di Stajano. Che aggiunge: “Se Ambrosoli avesse operato con minor fervore, tenacia, furia, certamente si sarebbe salvato”.
Ambrosoli che, allorquando gli chiedevano: «Perché si parla di lei come nemico di Sindona?», rispondeva: «È molto semplice, mi pare: sono diventato nemico di Sindona ma non amico dei potenti». Gli sarebbe bastato poco, sì, per salvarsi: ma, per lui “la moralità era una regola naturale” (Stajano, ancora).
E s’è all’ultimo addio, ovvero il funerale. Il 14 di luglio. Nella basilica di San Vittore. Non molta gente, a dir il vero. Il procuratore capo Mauro Gresti. Paolo Baffi, “sovrintendente” della Banca d’Italia. La bara di mogano è lì, portata a spalla. Sopra, un mazzo di garofani bianchi. Scarse le corone. Gli amici dei ragazzi son commossi e commoventi. Come gli scout del coro parrocchiale (cantano Alleluja, l’Ave Maria, e il Ti dò la pace). E come il prete, che ha il primo libro della Bibbia in mano. E sceglie un brano: “Caino e Abele”. E poi la bara caricata su un auto blu scuro che s’avvia verso il cimitero di Ronco, Lago Maggiore. Mentre Silvio Novembre, il più fidato, e amato, dell’ex task-force, giura che «non servirò più questo Stato che manda al macello i suoi figli migliori». E difatti si dimetterà, di lì a poco.
Horribilis annus, questo 1979. Che s’apre con gli omicidi dell’operaio Guido Rossa a opera delle Br e del pm Emilio Alessandrini per mano di Prima linea. E del colonnello dei carabinieri Antonio Varisco massacrato dai brigatisti, di nuovo. L’annus di Michele Riina, segretario provinciale della Dc di Palermo ucciso dalla mafia. Come più tardi il giudice Cesare Terranova e la sua guardia del corpo, Lenin Mancuso. Morrà anche Boris Giuliano, capo della Mobile di Palermo. Forse perché, guardacaso, ha scoperto che i miliardi ricavati dal traffico d’eroina vengono depositati sull’Amincor, la banca svizzera di Sindona, “già indicata come punto nevralgico del riciclaggio di soldi sporchi” (Marcella Andreoli). Il 1979... Anche l’annus della Lockheed. E di Saddam Hussein, presidente dell’Iraq. E del dittatore ugandese Amin Dada. E di Khomeini...
Ma pure dei giudici, che terranno vivo il ricordo dell’ex “liquidatore”. Approfondendo un ramo della sua inchiesta, indagano sulla mafia, sul finto rapimento di Sindona in Sicilia, nonché sul suo assassinio, naturalmente. E dalla torbida concimaia del bancarottiere, Gherardo Colombo (quello di Mani pulite, sì) e Giuliano Turone finalmente arriveranno a Licio Gelli e alla P2, di cui Sindona era membro sin dai primi anni Sessanta, numero di riconoscimento tra i massoni, il 1622. Michele Sindona detto “don Mike”... Nel luglio 1981, per esempio. Raggiunto da un giornalista del Corriere al Pierre di New York, dapprima rifiuta di parlare, ma poi, vergognosamente spudorato: «Ho appreso con orrore la notizia dell’assassinio dell’avvocato Ambrosoli!».
E allorché Annalori, tre anni più tardi, e anche a nome dei tre figli, si rivolgerà a Sandro Pertini, capo dello Stato, acché il bancarottiere venga finalmente estradato: “Di fronte alle delusioni e alle amarezze sino a oggi, non ci resta che sperare in quel Paese e quei valori nei quali Giorgio ci ha insegnato a credere”, gli scrive, in una lettera aperta. L’uomo di Patti, di nuovo senza vergogna, dirà: «È stata lei, signora, a scendere per prima nell’ arena...».

Lina Coletti – L’Europeo 2006 n. 4


L’EROISMO DEL DOVERE–

Umberto detto “Beto”, terzogenito di Giorgio Ambrosoli (prima sono nati Francesca e Filippo, che è un architetto). Trentasette anni. Avvocato. «Come il mio papà» (è così che lo chiama, a volte). Pensavo non fosse facile parlare di certe cose, e invece...
Subito una domanda che m’intriga: quanto ha pesato, quanto pesa la figura d’un padre come il suo?
Le dirò. I miei ricordi sono pochissimi. Per ovvie ragioni di età, soprattutto. E comunque... Le sembrerà strano, ma ho solo dei flash di grande serenità, più che d’ansie, di tensioni e d’inquietudini. Anzi, semmai sono memorie di un padre estremamente sereno. E presente... Sia io che i miei fratelli non notavamo alcuna differenza, paragonandolo a quelli dei nostri amici. Un padre che m’accompagnava all’asilo tutte le mattine. E faceva il possibile per venire a colazione tutti i giorni. Un padre-padre fino in fondo, in questo siamo stati fortunati. Nell’aver accanto un esempio tortissimo, intendo. Con le complicanze che ciò comportava, evidentemente.
Ovvero?
Be’, dal punto di vista emotivo, intanto. Quante volte, da piccolo, e non solo da piccolo, ho rimpianto di non averlo vicino sempre, in pratica. Come presenza che trasmetteva un insegnamento molto forte. Al punto che quando non c’era subentrava la nostalgia, il dolore... Sa, quand’e nato mio figlio Giorgio, noi in famiglia siamo fatti così, e anche mia sorella ha un figlio che si chiama Giorgio... Insomma: ne sentivamo la mancanza. Non come capita nei momenti di crisi. Non come padre-supporter. Ma per l’impossibilità di condividere con lui momenti di gioia più alti... Sia chiaro che il ricordo di mio padre è quello d’una persona seria, ma anche capace di grandissime ironie, sia pur filtrate, sempre, da un velo di grande austerità.
Lei ha detto: «Mio padre viene vissuto come una figura alla quale piacerebbe potersi rivolgere nel momento in cui si ha la tentazione di accettare il compromesso. O la percezione di aver rinunciato alla propria libertà». Una figura di riferimento, quindi: «Uno stimolo. E un “eroe”, in qualche modo...»
No, no. Lui era assolutamente lontano, dal concetto di eroe... È l’assurdo della nostra società: fai semplicemente il tuo dovere e allora come oggi ti trasforma in un “eroe”, appunto... Lui era quello che era. Quello che credeva giusto d’essere. Come uomo. Come genitore. Come parte dello Stato e quindi come cittadino... Lui ha dato il suo contributo, per cercar di fare dello Stato lo Stato che avrebbe voluto. Uno Stato di persone che sanno essere cittadini fino in fondo, appunto. Che sanno essere uomini, fino in fondo. Che sanno essere genitori, fino in fondo...
Lui ancora un’eccezione, dunque...
No: ce ne sono tanti, di uomini così. Davvero tanti. E mio padre questo ci ha lasciato in eredità. Una grandissima eredità. Un testamento importante. O meglio: un insegnamento da trasmettere non nel senso dei posteri, diciamo da trasferire, semmai.
Il testamento... Mi fa venir in mente la famosa lettera scritta a sua madre. E nel mio cinismo, se vuole... Insomma, certe reiterate parole come valori, doveri... Mi son parse un po’arcaiche, ecco...
No, no: in quella lettera non c’è retorica. C’è tutto il suo carattere, piuttosto. Quella lettera è il frutto della prima analisi della situazione, l’analisi documentale... Scritta quando ha capito cosa l’aspettava... Quella lettera è l’esito d’una prima consapevolezza degli interessi che erano sottesi alla vicenda che gli era stata affidata. Gli interessi, le persone, i poteri... E il suo gesto, le sue scelte hanno molteplici prospettive di valutazione. Una di queste è certamente l’affermazione della propria libertà. Un’altra è la prospettiva dell’etica e della legalità... E della libertà degli altri, naturalmente...
E di fatti seguiranno le telefonate anonime e minacciose.
Già. E mio padre se ne preoccupò. Ma non certo vivendole come un incubo. E nemmeno noi, a essere sinceri. Tranne mia madre, forse, le dirò di più: quando lui è mancato, io, per la prima volta, ho sentito la parola “assassinio”. Prima la ignoravo, quella parola. Non ne conoscevo il significato...
Lei, la sua famiglia... Dov’eravate quando suo padre è stato ucciso?
In Liguria, al mare. Una telefonata svegliò di notte mia mamma. E lei la mattina dopo svegliò noi. Non ci disse ciò che era successo. Ma a un certo punto ci fermammo in un autogrill, e lì trasmettevano il giornale radio. Non la collegai a nulla, sul momento, quella parola. Anche perché, semmai, mi rievocava l’assassinio di Umberto I di Savoia, che mio padre m’aveva raccontato, e io, nell’ingenuità dei bambini, subito avevo pensato: “l’avranno ucciso con le pietre: anzi, con i sanpietrini”, che era pur sempre l’immagine del gesto rivoluzionario.
Ma infine, avvocato, la morte di suo padre... Una sconfitta?
Definirei sconfitta un esito diverso da quello che è stato, orrendo e drammatico. Definirei sconfitta se mio padre si fosse piegato a interessi diversi da quelli cui istituzionalmente era stato preposto. Ovviamente non è stata una vittoria. E però il ricordarlo in continuazione... Fa riflettere, sì. Su ciò che ha tatto e ciò che ha rappresentato. Una figura importante. E anche una grande energia positiva, anche una grande forza propulsiva...
Il ricordarlo in continuazione... Le cerimonie commemorative. Le strade dedicate a lui. Le tesi di laurea, su di lui. Eppoi la medaglia al valor civile addirittura consegnata a sua madre da Carlo Azeglio Ciampi presidente. E la cittadinanza onoraria di Roma Capitale, sindaco Walter Veltroni. A parte i libri, il film di Michele Placido titolato proprio Un eroe borghese, dall’omonimo saggio di Corrado Stajano...
Il fatto è che tutti hanno capito, a cominciare dai giovani, che mio padre è stato un uomo libero. Libero di opporsi alle minacce. Libero di opporsi alle corruzioni. Libero di opporsi alla logica dello sponsor politico...
Mai pensato che se avesse voluto avrebbe potuto salvarsi?
Già. L’ha detto anche Gherardo Colombo: «Sarebbe bastato un niente, e nessuno si sarebbe accorto di niente». E l’ho dello anch’io, in realtà: «Gli sarebbe bastata una piccola concessione a chi lo blandiva. Qualche impercettibile sì a chi lo minacciava...».
Ma lui...
Lui era lui.
Esattamente.
Esattamente.

Lina Coletti – L’Europeo 2006 n. 4