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 2014  dicembre 09 Martedì calendario

EBOLA LA CURA


«Non avrei mai immaginato di crearlo io, il primo vaccino anti-Ebola» ammette Riccardo Cortese. Nel 2004, mentre lavorava ancora per la farmaceutica tedesca Merck a Pomezia, questo medico napoletano dai capelli rosso fuoco ormai incanutiti, con un piede a Basilea e uno a Londra, propose un nuovo approccio allo sviluppo dei vaccini.
«Nel mirino avevamo i grandi killer, come epatite C e malaria, ma l’azienda non era interessata. I risultati però erano buoni e così, a sessant’anni, decisi di diventare uno startupper». I fondi per lanciare l’azienda in Italia non si trovano, ma un gruppo di venture capitalist stranieri, a loro agio con il biotech, ci credono. Tutti insieme, gli svizzeri di Novartis Venture Funds e Biomed Invest, i tedeschi della Boehringer Ingelheim, gli olandesi di Life Sciences Partners e gli americani di Versant Ventures, investono 20 milioni di euro e a Basilea nasce Okairos, che in greco antico significa “opportunità” ma anche “fortuna”. Il percorso dell’azienda è fedele al nome: l’anno scorso Okairos è stata acquistata dalla britannica GlaxoSmithKline, la sesta multinazionale farmaceutica del pianeta, per 250 milioni di euro. Investitori e fondatori sono soddisfatti, ma il risultato imprenditoriale non è quello di cui Cortese, che a settant’anni si divide tra Pomezia, Basilea e Londra, va più fiero. Il suo fiore all’occhiello si chiama ChAd3-Ebov, il vaccino che ha sviluppato nei laboratori Okairos di Napoli insieme ad Alfredo Nicosia, Stefano Colloca, Antonella Folgori e a un team di altri 40 ricercatori in collaborazione con il Niad, l’istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive statunitense.
ChAd3, infatti, è oggi in testa alla nuova “corsa al vaccino anti-Ebola”. «Avevamo scelto Ebola», spiega Cortese, «perché è un virus aggressivo che uccide rapidamente e per il quale esiste un buon modello animale: le scimmie cynomolgus, che sono infettate e uccise dalla forma del virus che colpisce l’uomo. Una dimostrazione di efficacia in tale modello animale sarebbe stata molto incoraggiante. Ma non immaginavamo che il nostro lavoro sarebbe stato di tale rilevanza perché né noi né nessuno aveva previsto un’epidemia di Ebola su così larga scala». La prima fase della sperimentazione clinica nell’uomo è completata e ha permesso di testare diverse versioni al Jenner Institute di Oxford, in Inghilterra, presso i Nationai Institutes of Health statunitensi a Bethesda in Maryland e presso un centro di sviluppo vaccini in Mali.
ChAd3 è perciò dichiarato sicuro per l’uomo e un passo avanti rispetto agli altri quattro progetti di vaccino oggi in corsa. Lo scorso autunno, l’Agenzia nazionale per la salute canadese ha donato al governo di Ottawa 800 fiale di rVSV-EBOV, un prodotto sperimentale testato con successo sulle scimmie ma per i quali si attendono ancora risultati sull’uomo grazie ai testi clinici da avviare in Germania, Svizzera, Gabon e Kenya.
Qualche settimana fa la Johnson & Johnson (la prima azienda farmaceutica mondiale con 71 miliardi di dollari di fatturato nel 2013) ha annunciato un investimento di 200 milioni di dollari per lo sviluppo di un vaccino in collaborazione con la biotec tedesca Bavarian Nordic. Il prodotto, già testato sugli animali, dovrebbe cominciare a essere sperimentato sull’uomo a gennaio e la farmaceutica americana ha prospettato la disponibilità di 250mila dosi entro maggio.
Da parte sua l’Organizzazione mondiale della sanità sta sostenendo lo sviluppo di un vaccino basato sugli anticorpi estratti dal sangue dei sopravvissuti al contagio in Libertà, mentre in Cina l’Accademia militare delle scienze di Pechino ha donato diverse migliaia di dosi di un farmaco i sperimentale, il JK-05, per somministrazioni d’emergenza ai lavoratori cinesi impegnati in Africa.
Lo Zmapp infine, il farmaco salito agli onori delle cronache e prodotto dalla Reynolds American, non è un vaccino ma un siero basato su anticorpi monoclonali e già utilizzato con successo per trattare i due americani e l’infermiera britannica infettati dal virus in Liberia.
«Il punto di forza di ChAd3 è la sua innovatività, nata dalla nostra osservazione che la maggior parte dei vaccini tradizionali era solo capace di stimolare la produzione di anticorpi e non la risposta cosiddetta cellulare”», spiega Cortese, cioè la capacità di stimolare la produzione di linfociti T Killer, le cellule che fanno da guardiane al nostro sistema immunitario e per questo capaci di riconoscere cellule infettate e distruggerle».
Il team di Okairos ha perciò puntato allo sviluppo di un nuovo vettore, una “pallottola biologica” in grado di introdurre nelle cellule sane un piccolo pezzo del virus che provoca la malattia reso però innocuo, in modo da stimolare la cellula a creare le difese che le permetteranno di sconfiggere la vera infezione. Il meccanismo alla base dell’immunità è lo stesso intuito da Edward Jenner alla fine del 1700, ma lo studio dei vettori virali è la punta di diamante con la quale oggi la ricerca spera di attaccare non solo le malattie infettive, ma anche i tumori.
L’innovazione chiave del team italiano è stato scegliere come vettore un virus particolare. «Dieci anni fa, la maggior parte dei vettori erano derivati da virus umani come gli adenovirus e questo dava parecchi problemi», osserva Cortese, «perché l’organismo umano spesso li riconosceva e sviluppava armi contro il vettore invece che contro la malattia contro la quale lo si voleva immunizzare». L’innovazione di Okairos è stata scegliere come vettore non un virus umano, ma della specie a noi più vicina geneticamente, lo scimpanzè, con il quale condividiamo più del 99,4% del nostro genoma. «La scommessa ha funzionato», sorride Cortese, «e oggi abbiamo in mano non solo un vaccino sperimentale più avanzato contro l’Ebola, che stiamo portando a una scala di produzione industriale, ma anche una nuova tecnologia». Il team guidato da Cortese è oggi riunito in un’altra company, Keires (“mani” in greco), sempre a Basilea, che ha un contratto per portare la produzione del vaccino a centinaia di migliaia di dosi, sempre in uno stabilimento di Pomezia.
«Per la produzione su grandissima scala la sfida è abbassare i requisiti della “catena del freddo”», sottolinea Cortese che pensa a fine 2015 per il prodotto finito, «perché questo è il fattore più critico per la distribuzione nei paesi africani dove sono scoppiate le epidemie». Intanto a febbraio inizierà la terza fase di sperimentazione di ChAd3 sull’uomo, con somministrazioni soprattutto in Africa nelle popolazioni più esposte e ad alto rischio. «Oggi la cosa più urgente è arrivare a produrre abbastanza dosi del vaccino», osserva lo scienziato napoletano, «ma la vera risposta dipende da come si evolve l’epidemia». Il bilancio delle vittime di Ebola ha già superato le 9000 vittime ma nelle ultime settimane c’è stata una buona notizia: il Congo, il paese più colpito insieme a Liberia, Guinea e Sierra Leone, ha dichiarato la fine dell’epidemia, poiché non erano più stati segnalati nuovi casi nell’ultimo mese e mezzo. Un segno che il virus, forse, è meno pericoloso di come è stato raccontato dai media? «Là dove c’è il virus è pericolosissimo», avverte Cortese, «perché la mortalità è altissima, oltre il 30%, e questo lo mette nella stessa classe dei grandi virus come il vaiolo. Tra l’altro, per chi è infettato, il problema non è solo la perdita di funzionalità degli organi, ma la fortissima risposta immunitaria dell’organismo che diventa patologica». A chi gli chiede se ChAd3 sarà un blockbuster in grado di generare miliardi di profitti per i suoi produttori, il ricercatore risponde senza esitazione: «Bisogna chiederlo alla GlaxoSmithKline che lo distribuisce, ma i grandi profitti non arrivano da questo tipo di farmaci. I vaccini sono però una grande assicurazione per il futuro di un paese sia per limitare la diffusione sia per proteggere i bambini, che spesso sono i più esposti». I risultati più interessanti a lungo termine del team di Cortese promettono di essere non solo ChAd3, ma soprattutto la piattaforma tecnologica che ha portato al suo sviluppo.
«Stiamo applicando la nostra tecnologia allo sviluppo di molti vaccini contro killer ancora più pericolosi di Ebola come l’epatite C e l’Hiv, ma anche ad altri patogeni come il plasmodio della malaria o i batteri della tubercolosi». La stessa piattaforma potrebbe essere utile per lo sviluppo di nuovi farmaci contro i tumori, un settore nel quale l’Italia ha già una forte base clinica. Quello che sembra però mancare al sistema italiano è proprio la capacità di tradurre le intuizioni in innovazioni spendibili sul mercato. «All’Italia manca tanto», ammette Cortese, «la principale difficoltà è la mancanza di strutture per passare dall’idea scientifica all’ idea innovativa, dalla scienza accademica alla scienza di base. Inoltre, in Italia non ci sono abbastanza investitori privati disposti a rischiare i propri soldi in idee di frontiera».