Daniele Cassandro, Wired 9/12/2014, 9 dicembre 2014
TEATRO ALLA SCALA: ALL’ALBA TWITTERÒ
«Questo teatro, come ogni teatro, è una macchina. E ogni sua parte deve lavorare a pieno regime e con la massima efficienza», dice l’ingegner Franco Malgrande, direttore allestimento scenico del Teatro alla Scala di Milano. Camminiamo a trenta metri sopra il palcoscenico simbolo del melodramma italiano ma sembra di essere in una fabbrica in cui si costruiscono aerei: cavi di acciaio tesi a perdita d’occhio, carrucole, uomini in tuta ed elmetto. Sotto di noi, come dal fondo di un pozzo, brilla una grande parete dorata che ci ricorda dove siamo. È un pezzo del Palazzo Ducale di Genova del Simon Boccanegra di Verdi che aspetta di essere posizionato in scena. Tutto è gigantesco ma ogni ingranaggio si muove in modo silenzioso. Già, perché a trenta metri sotto di noi si canta e si suona, e dall’altra parte del sipario, tra gli stucchi della platea, il pubblico è assorto senza immaginare il mondo che c’è “oltre lo specchio”.
Malgrande è stato il responsabile dei lavori che, dal 2002 al 2004, hanno radicalmente trasformato il teatro nella macchina che vediamo oggi. Lo svizzero Mario Botta si è occupato dell’aspetto architettonico e lui del delicato congegno ingegneristico della Scala. «La parte monumentale, quella che il pubblico vede, è solo un terzo degli spazi su cui abbiamo lavorato: il cantiere è stato dunque diviso in due parti». Tutta la parte di servizi al di là del sipario è stata demolita e ricostruita: «Abbiamo cercato di ottimizzare tutti gli spazi che potevamo usare, con limiti ovvi: da una parte c’è via Verdi, dall’altra Mediobanca, più di tanto non ci si poteva allargare, quindi abbiamo sfruttato l’altezza». La prima esigenza è stata dare al teatro le sue sale prova e riorganizzare camerini e spogliatoi che prima erano frammentati e confinati sotto terra. «La macchina scenica poi è stata adeguata alle esigenze degli spettacoli di oggi», spiega Malgrande. «Fino agli anni ’30 all’opera c’erano soprattutto scene dipinte, facili da ripiegare e leggere da spostare: quando si sono cominciate a usare costruzioni sempre più complesse e massicce si è dovuta adeguare anche la tecnologia».
Malgrande ha un’idea precisa della tecnologia in teatro: «Serve a migliorare e salvaguardare la qualità del lavoro», dice. «Se prima servivano dieci persone per spostare una scena, ben vengano gli argani a motore, ma abbiamo cercato di non complicare le cose con sistemi esasperati, troppo computerizzati o centralizzati. Lo sforzo è stato quello di adeguare tecnologicamente la macchina scenica ma sempre nel rispetto delle competenze delle maestranze della Scala». Per il palcoscenico e i suoi piani mobili Malgrande ha perfezionato le idee che lui stesso definisce “geniali” di chi era intervenuto negli anni ’30. «Le novità tecnologiche hanno solo sveltito e snellito il lavoro: non ci sono ingegneri o scienziati qui dentro». Solo gente di teatro.
Quella che è cambiata è la produttività della Scala: «Se prima ogni spettacolo andava “smontato perché mancava lo spazio», spiega Malgrande, «oggi possiamo tenere montati due spettacoli senza sezionare pareti di 12 metri in tanti piccoli pezzi. E quindi è aumentato il lavoro: se prima si facevano 80 spettacoli a stagione, oggi se ne fanno 120: la tecnologia ha contribuito a dimezzare i tempi morti che erano tipici della vita dei vecchi teatri». Mettere in scena più produzioni (tra opera e balletto) significa vendere più biglietti e quindi adeguare la Scala al suo modello di business diviso in tre: sovvenzioni pubbliche, sponsor privati e botteghino.
«Uno spazio più grande non servirebbe a molto», dice l’ingegnere. «Si parla tanto di fare sempre più spettacoli: in realtà il segreto di un teatro in salute è la sostenibilità». Troppi spettacoli farebbero lievitare i costi in maniera eccessiva. «Il teatro te lo devi cucire addosso su misura: se faccio il rappresentante di commercio non posso girare con la Ferrari».
Nella grande ala servizi della Scala c’è ovviamente una regia luci. È tutta in remoto perché la forma monumentale del teatro, e in particolare la presenza del palco reale, non permetteva di realizzare una cabina davanti al palcoscenico. Due tecnici, in collegamento radio e video con la platea, cambiano e muovono le luci guidati dal light designer che segue lo spettacolo in sala. Tutti hanno aperto davanti al naso lo spartito dell’opera, pieno di notazioni di regia. Tutti qui leggono la musica, che da i tempi e il ritmo dei cambi di scena e di luci. C’è anche una regia video e audio per mandare proiezioni (molti registi si servono di video per arricchire le proprie scenografie) o effetti speciali, soprattutto sonori. Molti effetti dell’opera (tuoni, tempeste, vento) sono simulati dall’orchestra e spesso sono già scritti nello spartito, altri vanno mandati registrati al momento giusto. E il teatro non è certo cambiato: oggi come 300 anni fa, in scena esplodono montagne, si apre la terra, appaiono spettri e gli dei arrivano dal cielo.
Poco distante c’è l’ufficio sottotitoli. Alla Scala ogni poltrona è dotata di un minischermo su cui scorre il libretto dell’opera. Funziona un po’ come i film in aereo. Chi conosce bene l’opera lo tiene spento, ma chi vuole capire cosa diavolo si stiano dicendo da ore Tristano e Isotta, setta la traduzione nella propria lingua e segue, in diretta, le parole del libretto. È comunque sempre la musica a dare i tempi e mai la parola. E ogni sera la musica può essere eseguita in modo anche impercettibilmente diverso. Per questo, in una sala apposita, due addetti ai sottotitoli, spartito alla mano e occhi fissi su un video che trasmette ciò che succede in palcoscenico, mandano sui minischermi in sala le battute dei cantanti al momento giusto.
C’è anche una sala regia che si occupa di riprendere ogni performance della Scala. I video servono soprattutto per uso interno: quando uno spettacolo viene ripreso da un altro teatro o va in tournée, è importante avere una testimonianza precisa di come sia stato montato e come sia stato eseguito dagli artisti. Ballerini e cantanti possono rivedersi e correggere eventuali errori, vengono registrate anche le repliche con i secondi cast (le recite delle opere spesso vengono messe in scena alternando due cast vocali diversi). La sala video è insomma una specie di banca dati.
Il passo da qui a potersi occupare direttamente delle riprese video delle opere da mandare in televisione e o nei cinema o direttamente sul web in hd (come fa per esempio il Met di New York raggiungendo 3 milioni di persone) sarebbe brevissimo. Eppure fuori dalla Scala, ogni 7 dicembre, vediamo quei brutti (e costosi) camion della Rai per la diretta tv della prima. «La tecnologia televisiva invecchia molto rapidamente», spiega Malgrande. «Conviene ancora appoggiarsi a società esterne per le riprese video: è troppo costoso e complesso attrezzarsi con quel tipo di strumentazione». Andando a scavare, però, le resistenze alle riprese in hd sono anche di tipo artistico: «Il dettaglio che ti dà l’alta definizione ti costringerebbe a cambiare radicalmente il modo di concepire gli spettacoli. Il trucco teatrale diventerebbe cinematografico, i costumi e gli oggetti di scena andrebbero realizzati in modo completamente diverso e anche le scenografie andrebbero ripensate». Alla Scala c’è un forte orgoglio “artigiano”: non si tratta semplicemente di mettere in scena un bello spettacolo, si tratta di crearlo in ogni dettaglio, di costruire le scenografie, di immaginare i costumi secondo una tradizione vecchia duecento anni. La Scala tiene molto alla sua vocazione di officina, di bottega teatrale.
Proprio in questo senso gira un altro importante ingranaggio della macchina-Scala: l’Accademia. «Un teatro moderno deve produrre ottimi spettacoli, certo», spiega Paola Bisi, responsabile relazioni esterne dell’Accademia, «ma un altro modo con cui può creare cultura e ricchezza è quello di formare». In via Santa Marta, nel cuore della vecchia Milano, ci sono le aule e gli uffici. Nello stesso edificio, punto di incontro tra maker vecchi e nuovi, è anche ospitato un FabLab. «L’Accademia è nata all’inizio dell’Ottocento come scuola di ballo; negli anni ’50 Arturo Toscanini ha voluto allargare ai cantanti e negli anni ’70 sono stati creati corsi per scenografi realizzatori. Nel 2001 l’Accademia si è divisa in quattro dipartimenti: musica, danza, palcoscenico-laboratori e management». Bisi ci tiene a sottolineare che l’Accademia non è un diplomificio. «Noi formiamo persone che servono al teatro», spiega, «tanto che di anno in anno cambiarne i programmi e i corsi proprio in base alla richiesta che c’è nel mondo del lavoro». L’attenzione sulla continuità artigianale del lavoro teatrale è fortissima nel laboratorio di sartoria: gli allievi riproducono i costumi delle grandi produzioni scaligere di Luchino Visconti, su un manichino c’è una replica perfetta di uno dei costumi fin de siècle della Callas nella Traviata del 1955. Nel laboratorio di trucco due ragazze stanno lavorando su inquietanti trucchi da uomo-pesce, un po’ Tartarughe Ninja e un po’ Klingon di Star Trek: e le squame sono lenticchie incollate insieme a una a una. Poi ci sono i laboratori di ingegneria del suono, di fotografia e di ripresa video. «L’ultimo corso è stato incorporato quest’anno al vecchio corso di fotografia di scena. Oggi un fotografo deve saper fare anche buone riprese video», spiega Bisi.
Un teatro moderno quindi deve creare cultura e ricchezza. Ma per chi? Come si fa a raggiungere un pubblico che sta inesorabilmente invecchiando? Il teatro d’opera è percepito come elitario e polveroso. Come spiegare a un immenso pubblico potenziale che non è tagliato fuori? Silvia Farina, digital manager del Teatro alla Scala, non ha dubbi: «Dobbiamo attirare pubblico nuovo e pubblico giovane. E queste due categorie non coincidono necessariamente: l’obiettivo è quello di garantirci un ricambio generazionale». Farina si occupa della presenza, nel web e nei social network, del teatro. La Scala ha tre siti, uno istituzionale (Teatroallascala.org), uno rivolto agli spettatori più giovani (Lascalaunder30.com) e un archivio storico online, con materiale soprattutto iconografico (Archiviolascala.org). Girano tutti con lo stesso Cms e sono gestiti internamente. Solo la biglietteria online è appaltata a TicketOne. «Per il 2015 dovremmo fare un restyling completo dei siti: già ora il 50% del nostro traffico viene da dispositivi mobili», spiega. Il lavoro sui social è stato molto graduale: «Quando sono arrivata c’era una certa resistenza: Facebook era visto come invasivo e poco adatto al pubblico della Scala. La prima pagina FB del teatro è stata aperta solo per spingere il sito Under 30. Scelta miope: perché FB non era certo solo una piattaforma per giovani». Di fatto, col tempo, la pagina FB degli Under 30 è diventata la pagina ufficiale del teatro. «Come tutte le istituzioni, sui social cerchiamo il contatto con la nostra comunità. Raccogliamo complimenti per i begli spettacoli e rispondiamo a ogni tipo di reclamo».
La presenza su Twitter della Scala (oltre centomila follower) è più recente ed è sicuramente la più interessante: «Là fuori c’è un pubblico enorme che ha voglia di seguirci. Abbiamo iniziato con la prima del Don Giovanni nel 2011 e abbiamo inaugurato la nostra tradizione di fare live blogging delle prime in due lingue, italiano e inglese». Ma il pubblico interessato alle prime alla Scala non è già ampiamente coperto dalla Rai? In che modo Twitter può dargli qualcosa in più? «L’idea è mostrare qualcosa che solo noi interni possiamo vedere. Il nostro live blogging copre quello che succede in scena ma soprattutto quello che accade dietro: la preparazione degli artisti che stanno per entrare, il trucco, la vestizione, i piccoli rituali scaramantici». La Scala, per rilevanza sul web, è terza nel mondo dopo il Met di New York e la Royal Opera House di Londra. «E Londra la stiamo raggiungendo», chiosa Silvia Farina. Ma perché dunque non permettere a questo pubblico così ampio che si collega da ogni parte del mondo di fruire (magari con un paywall come fa il Met) dei contenuti audiovisivi della Scala? «Da noi è una questione di diritti molto complessa e frastagliata», spiega Farina, «ci vogliono la volontà e i mezzi economici per affrontarla».
La Scala è ancora il grande teatro che abbagliò il pubblico europeo il 3 agosto del 1778, quando inaugurò con l’opera L’Europa Riconosciuta di Antonio Salieri. Già allora il teatro era pensato per stupire: l’opera iniziava con un tuono, partiva l’ouverture e il sipario si apriva su un mare in tempesta che colpì moltissimo l’immaginazione dei contemporanei. A teatro non si era mai visto niente di simile. La Scala è ancora una grande macchina per atterrire ed emozionare. Il percorso difficile che sta intraprendendo oggi è quello di continuare a esserlo, rimanendo rilevante in uno scenario culturale e di consumi in rapidissima evoluzione.