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 2014  dicembre 10 Mercoledì calendario

NEL SEGNO DI ZORRO


Zvonimir Boban arriva in jeans e chiodo nero vissuto. Ha sulle spalle 630 chilometri di autostrada, ma la cera è buona. «Sono cinque ore di guida, non mi pesano», sorride. Di lì a poco andrà in onda per commentare il posticipo della Serie A su Sky Sport Uno. Solitamente riparte la mattina dopo, sempre in macchina «Non c’è un aereo comodo, devi andare a Malpensa, fare il check-in...». Stavolta, causa impegno di famiglia, partirà appena finito il post-partita con Ilaria D’Amico, Giorgio Porrà, Luca Marchegiani e Massimo Mauro. Altri 630 chilometri, di notte. Nella reception di Sky ogni due metri lo ferma qualche ragazzo per una foto con lo smartphone. Lui sorride e si presta. Ma per parlare ci rifugiamo nella sala-longue dove, in una domenica di partite a raffica, si vedono quelle del pomeriggio.
Zvone Boban è il più severo opinionista di calcio della televisione italiana. Il più imprevedibile, diverso da tutti. Non è severo per motivi di natura tecnica, per lo stop impreciso o la diagonale fatta male. Il suo è un rigore particolare. «Prima di tutto è una libertà che mi è permessa qui dentro», dice. «Poi deriva dal fatto che non c’è tempo da perdere anche nel dare opinioni. Infine è una questione di sincerità, l’ambizione di dire sempre quello che si pensa. Credo che questi dovrebbero essere i pilastri del giornalismo. Non voglio usare parole grosse, ma credo che su queste cose si dovrebbe basare non solo il giornalismo ma la nostra vita ed anche la nostra società. Il giornalismo forte schietto maturo ci può migliorare. È quello che ho imparato quando sono stato, per quattro anni, amministratore delegato di un quotidiano sportivo in Croazia». Si potrebbe tradurre sinteticamente come guerra alla banalità. Ai luoghi comuni. Qualcuno osserva che Boban è ipercritico e non gli va bene niente. Che: tolti Pelè Maradona e Ronaldo sono tutti brocchi. «Non è vero... Desidero solo elogiare il bel gioco. Ma si ricordano più facilmente le critiche. Nel giornalismo televisivo ci sono troppi superlativi. L’errore più frequente è dispensare patenti di fuoriclasse. Non è una critica dire che invece uno è un ottimo giocatore».
Piedi per terra, realismo, niente iperboli, Boban va dritto per dritto. Il calcio di oggi è preda di «un processo di hollywodizzazione. Basta vedere questi ragazzi, tatuaggi, tagli di capelli improbabili, quelle recite dopo un gol. Roba da popstar. Non è neanche colpa loro. Sono più vittime che protagonisti. Ma dovrebbero saperlo le persone che gli stanno attorno. Il calcio è un riflesso della società in cui viviamo, la cultura del seme. Lo sport non riesce a isolarsi. Le società hanno perso carisma e autorità. L’ingranaggio è spietato: allenamento, partita, interviste. Non è facile orientarsi, non si pensa troppo, non si riflette su se stessi. Anche ai miei tempi si viveva su un piedistallo, in una dimensione surreale. Poi, a carriera finita, ogni giorno è un piccolo dramma per rientrare e raggiungere gli altri nella realtà. Credo sia un buon lavoro far capire che lo sport ha dei contenuti. Che si può imparare il rispetto degli altri, la cultura della solidarietà e del sacrificio».
La vita di campo non gli manca. Ha fatto il corso da allenatore, ma non ci crede più di tanto. «Ho una famiglia numerosa, cinque figli, non posso isolarmi dalla vita che ho creato. Il calcio resta sempre il mio mondo. Rimarrò tutta la vita Boban il calciatore e ne vado orgoglioso. Magari in un ruolo manageriale potrei impegnarmi, chissà... Però mi piace quello che faccio, mi piace il giornalismo. Quando ci sono eventi importanti come i Mondiali scrivo su Sportske Novosti, la Gazzetta dello Sport croata. Anziché parlare con i giornalisti, scrivo direttamente io. E mi diverto tanto».
La verità è che Zvone Boban è troppo. Ha troppi interessi, troppe passioni per limitarsi al calcio. Era ancora trequartista del Milan quando s’iscrisse alla facoltà di Storia dell’università di Zagabria. Sosteneva gli esami senza frequentare. Appesi gli scarpini si è laureato e ha preso il dottorato. Da un po’ di tempo segue Letteratura comparata. «Amo i libri. Ogni libro migliora il mondo. Come si fa a stare senza libri? Leggo perché ‘so di non sapere’. Ho cominciato da ragazzino. Un mio zio mi regalò Il Gabbiano Jonhatan Livingstone. Poi Il piccolo principe, Siddharta», sorride. «Poi ho letto i russi, i francesi, gli italiani... E via così... Oggi sto leggendo un libro su Venezia di Predrag Matvejevic che ti porta in una dimensione diversa di questa magnifica città... Linguaggio semplice e caldo, pieno di una Venezia sorprendente».
Sulle televisioni scorrono le immagini dei match delle 18: «Bel gol», s’interrompe. «Guarda come ha colpito il pallone, ha ruotato il piede perché la palla non scappasse verso l’alto... un po’ come si fa nel tennis, quando si colpisce in top spin». A differenza di molti suoi ex colleghi, che terminata l’attività agonistica si sono dedicati al golf, Boban pratica il tennis. «Per il golf ci vuole troppo tempo, intere giornate. A me piace sudare, lottare. Il tennis è uno sport straordinario, l’esatto contrario del calcio. Devi farcela da solo, devi reggere la pressione psicologica. E poi c’è tutto: tecnica, tattica, atletica, concentrazione, autocontrollo.
Sì, in Croazia e in Serbia ci sono tanti campioni. Abbiamo la testa giusta e una certa capacità di soffrire. Tutto è cominciato da Ivanisevic. Cilic, Djokovic, la Ivanovic dimostrano lo straordinario talento dei popoli della ex Yugoslavia... Adesso sta esplodendo Coric. Ma non c’è una vera scuola tennistica slava. Sono tutti progetti familiari. Abbiamo fame, siamo disposti ad andar via di casa, ad allenarci tanto, a vivere in albergo. È una vita separata, quasi ascetica». Calcio, giornalismo, letteratura, tennis, la famiglia. Come fai a tenere insieme tutto? «Dormo poco, vado a letto alle tre di notte, anche dopo. Era così anche quando giocavo, più o meno...». Parliamo dei tuoi cinque figli, quattro adottati. «Io e mia moglie abbiamo cominciato presto. La più grande adesso ha diciannove anni. Poi abbiamo preso un maschietto e poi due gemelli, un maschio e una femmina. Infine è arrivata una figlia naturale. Ma nell’educazione la biologia non ha alcuna influenza». A proposito di educazione, che cosa vorresti prendessero da te? «La nostra formazione cristiana ci porta a dare molta importanza ai figli ed è giusto. Ma loro prima di essere figli sono esseri umani che diventeranno persone autonome. Perciò ci vuole equilibrio. Vorremmo che ci amassero di più. Ma non possiamo pretendere che ci amino come li amiamo noi. Noi genitori siamo solo delle piattaforme per la realizzazione dei loro bisogni. Che cosa vorrei trasmettere loro? Questa passione per la vita. La voglia di essere buoni, di avere rispetto, di non essere egoisti. Di lasciare una buona traccia in questo mondo. È questo che ci identifica. Quando la vita corre veloce non si ha mai tempo per gli altri. Ci riempiamo di tante cose e non lavoriamo su noi stessi, sulla nostra crescita interiore. Stiamo perdendo la cultura cristiana dalla quale veniamo. Spero che i miei figli prendano questa strada. Che non significa dematerializzarsi. Spero che sappiano costruirsi un futuro dignitoso». Tua moglie che cosa dice di tutto questo? Non protesta che vieni a Milano tutte le domeniche? «Mia moglie Leonarda si occupa dei ragazzi. Ha un locale con altre amiche. Ma sta molto a casa. No, non mi crea alcun problema per le mie attività. Ci siamo incontrati da ragazzi, in un’epoca in cui i ruoli erano un po’ più chiari... Mi piace giocare a una specie di tressette ed esco spesso. Per noi è normale. E poi, dopo il ‘carcere calcistico’, mi sembra giusto. Quando rimango a casa guardiamo qualche film con i bimbi». E poi? «Loro a letto e io a leggere...».