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 2014  dicembre 10 Mercoledì calendario

CI HO MESSO LA FACCIA (IN TELEVISIONE)


[Massimo Doris]

Adesso è tutto intorno a lui. Ed è un po’ più bianco. Nel senso che Massimo Doris, quarantasettenne figlio di Ennio, ha rinnovato il suo ufficio e ora pareti e pavimenti sono candidi, e anche i mobili non sono più English style. Però molto British rimane il maggiordomo, che ti accoglie all’ingresso degli uffici con vista sul cielo grigio e le foglie autunnali di Milano 3. È Massimo il volto della pubblicità della banca «costruita intorno a te» dal giugno scorso, quando suo padre gli ha passato il testimone. Anche se è amministratore delegato dell’azienda già dal 2008.
È figlio di uno degli uomini più ricchi d’Italia. Come è cresciuto?
«In realtà la mia famiglia è diventata ricca un po’ per volta. Quando ero bambino i miei vivevano ancora coi genitori, a Tombolo, erano altri tempi, il riscaldamento era solo in cucina».
Stavate al freddo?
«In inverno certe volte sul soffitto si formava il ghiaccio, per dormire mi infilavano un berrettino di lana. Insomma sono nato in una famiglia povera, poi le cose sono cambiate».
Siete diventati ricchi.
«Sì, diciamo che la situazione si è evoluta sempre in meglio. Già quando andavo alle medie mio papà guadagnava bene, poi nell’82 ha creato Programma Italia e ci siamo trasferiti a Milano. Da lì è stato un crescendo».
Che cosa ha studiato a Milano?
«Ragioneria al Gonzaga e Scienze politiche con indirizzo economico alla Statale».
Che genitori sono stati i suoi? Severi?
«Direi di no. Non li ricordo burberi, però ecco, le regole erano quelle, e mi hanno insegnato fin da piccolo che bisognava obbedire».
E come ha iniziato a lavorare in azienda?
«Prima ho fatto il venditore di piani di pensione: cercavo i clienti, vendevo i piani. Poi sono andato a Londra un anno e mezzo».
Che cosa faceva nella City?
«Ho lavorato per Ubs, Merrill Lynch, Credit Suisse. Poi sono tornato, ho fatto l’esame da promotore e ho cominciato a lavorare».
Girava con la valigetta?
«Certo. La nostra azienda è fondata sul lavoro dei promotori. Poi ho ricoperto vari ruoli, da impiegato nel marketing a assistente del direttore generale, fino a capo della rete di vendita e amministratore delegato in Spagna».
Quando è tornato in Italia?
«Nel settembre 2008, come amministratore delegato».
È stata lunga...
«Lunga, sì. E sono felicissimo del percorso che ho fatto: mi ha preparato un po’ per volta a guidare l’azienda e a conoscerla molto bene».
Ma lei se l’aspettava di seguire le orme di suo padre?
«Sì. Fin da ragazzino, nella mia testa ho sempre pensato che avrei fatto quello che faceva lui».
E com’è stato lavorare con suo padre?
«Per la verità lavoro a contatto diretto con lui solo dal 2008. Comunque siamo sempre andati d’accordo, la pensiamo allo stesso modo».
Neanche una discussione?
«Ci sono, certo, ma di solito troviamo un accordo».
Nelle successioni da padre a figlio succede di tutto...
«È vero, si vede e si sente di tutto. Siamo fortunati».
Le esperienze più importanti?
«Fare il promotore. E poi il periodo in Spagna. Per la prima volta ero da solo in molte decisioni: non avevo un capo a cui rivolgermi, il capo ero io. Una bella palestra».
C’è un’esperienza che farebbe fare anche ai suoi due figli?
«Andare all’estero. Lo consiglio a chiunque possa».
Quanto lavora un amministratore delegato?
«Dalle nove del mattino alle otto di sera. Almeno due volte a settimana mi alzo alle 6.40 e faccio palestra, in casa».
Strappi alla regola?
«Vado a pranzo a casa, qui a Milano 3. Un grande lusso. Chiacchiero con mia moglie Cinzia e stacco completamente».
Sua moglie non lavora?
«Per la verità lavorava più di me... Ci siamo conosciuti a Londra, lei era già a Merrill Lynch. Ci siamo fidanzati e le hanno offerto di amministrare il bilancio della filiale italiana».
E poi?
«Lavorava dalle nove alle nove, nei giorni normali; una settimana al mese fino a mezzanotte. Perciò quando è rimasta incinta del primo figlio si è licenziata. Poi ha insegnato in Bocconi, ma alla nascita di nostra figlia ha lasciato del tutto».
Oltre a lavorare che cosa fa?
«Amo lo sport, la bici soprattutto. E poi lo sci, appena posso vado a Courmayeur».
Uscite mondane?
«Poche. Alla sera arrivo a casa, finisco i compiti con mio figlio Alberto, poi ceniamo, metto a letto Anna, che ha dieci anni, e in un attimo sono le 11. Al venerdì o al sabato sera, a volte, guardo un bei film con mia moglie».
Ma in vacanza ci va?
«Sì sì. Tre settimane ad agosto, un paio a Natale e una settimana a febbraio, per sciare».
Senta, ma quando le danno del «figlio di» lei si arrabbia?
«No no. Mio padre è un personaggio famoso, importante, che si è costruito da sé: è naturale che dicano “è il figlio di Ennio Doris”. E io sono orgoglioso di quello che ha fatto».
E che cosa ha provato quando ha preso il suo posto nella pubblicità?
«Ero preoccupato che fosse bella e che funzionasse. Il grande pubblico non sa che è dal 2008 che sono l’a.d. della banca».
Ma si aspettava di fare il cerchio nel sale, prima o poi?
«Era un po’ che papà insisteva. Io per la verità sono un po’ riservato, ma so che è importante che faccia la pubblicità, perché la nostra banca si basa sulla fiducia. E poi andiamo verso un’innovazione sempre maggiore».
Per questo si è travestito anche da astronauta?
«Sì, ho fatto una copertina da astronauta... Noi guardiamo al futuro: a tre anni dal lancio, la app ormai è utilizzata per oltre il 30 per cento degli accessi alla banca. Si possono pagare i bollettini con una foto dal telefonino, c’è la carta di credito per pagare col cellulare. E a dicembre arriverà anche la app per smart tv».
Come funziona?
«Stai seduto sul divano di casa e puoi controllare il tuo conto sulla tv, col telecomando o con messaggi vocali e gesti».
Le persone normali hanno certi incubi. Che incubi ha un banchiere?
«I regolatori. Ogni mese esce una normativa nuova che scombussola il modello di business, l’adeguamento è molto costoso. Nel 2014, a questa voce abbiamo 20 milioni di euro di spesa».
E che cos’è la responsabilità?
«Ho la responsabilità di oltre un milione di clienti, circa 2.650 dipendenti, 5.200 family banker. Un bel po’ di gente dipende da quello che faccio, dalle mie scelte: quindi la responsabilità la sento molto».
La cosa più importante nel suo lavoro?
«Avere i collaboratori giusti».
E la più difficile?
«Fare in modo che tutti diano il meglio di sé».