Ferdinando Camon, TuttoLibri – La Stampa 6/12/2014, 6 dicembre 2014
DA UOMO A KILLER, IL MARINE VIVE SOLO PER UCCIDERE
Mi stupisce che questo libro circoli in Italia e l’America non lo blocchi. In passato mi occupai su questo giornale del libro di un ex-marine intitolato
Il racconto del disertore
(pubblicato da Neri Pozza), in cui l’autore confessava le esperienze sue e del suo reparto in guerra: come si sega la testa con una raffica alla bambina che viene a chiederti pane, come ci si allena alla boxe con i cadaveri dei morti, e così via. Ma l’autore non aveva retto quell’esperienza, aveva disertato e scappava in giro per il mondo. Mentre io recensivo il suo libro lui era in Canada, e l’America lo reclamava per processarlo. Adesso siamo da capo.
L’America può amare questo libro? Certo che no. E dov’è l’autore? In giro per il mondo, credo che in questo momento sia in Italia. Ha un altro nome, naturalmente. È un marine, anzi un super-marine, che ha scritto questo lungo diario dall’interno del corpo militare, mese dopo mese, da una base all’altra (tutte nominate, tranne una, coperta da omissis), per far capire quant’è feroce l’addestramento e come si costruiscono i «super-combattenti».
Lui è un Fast, l’ultimo grado, il più completo nella carriera di un marine, «la punta della lancia». Se «il marine è un’arma», come dice il titolo, il Fast è l’arma carica, con la sicura levata, pronta a sparare. A chi? Non importa, si deve uccidere e basta. Noi pensiamo i marines come super-soldati, masse di muscoli tendini e armi, costruiti sulla violenza e sulla mancanza di pietà. E invece scopriamo che questi soldati, quando dormono a centinaia sui letti a castello nelle grandi camerate, può capitare di sentirli singhiozzare. Non nel senso che si svegliano e piangono, ma nel senso che dormono e piangono. Il pianto non è nella loro veglia o nel loro sogno, ma nel loro inconscio. L’addestramento è la macchina che li trasforma da uomini in armi. Uomini vuol dire amici, compagni, figli. Questi devono essere distrutti. Al loro posto devono subentrare i killer. La trasformazione degli uomini in killer è un’opera complessa, che sloga e spezza le strutture della persona: i pianti dei dormienti sono il lamento per quelle distorsioni. C’è un momento in cui il marine, a metà del corso, torna a casa per una licenza. Vede padre madre fratelli amici. E pensa: «Non m’interessano più».
Il marine non ha amici. È solo. Il suo problema è la morte. Sa che può morire in qualunque momento e che della sua morte non gliene frega niente a nessuno. Perciò a lui non frega niente della morte di nessuno. Se un marine tenta il suicidio ma lo salvano, viene processato: uccidersi è un reato perché distruggi il tuo corpo, che non è tuo ma dello Stato. Niente è di un marine, tutto è di tutti. Se uno riceve la foto della fidanzata nuda, gliela rubano e la incollano sull’armadietto delle prostitute. Non esiste una messa, al campo dei marines, ma tante messe, una per ogni religione, e quando cominciano le messe i marines si disperdono in tante direzioni, ognuno cerca la propria chiesa, ma tutte saranno accomunate dalla stessa predica: uccidere è giusto, uccidere è santo. L’addestramento del marine è controintuitivo: un ufficiale ti parla e una nuvola d’insetti ti morde per tutta la schiena, ma non puoi grattarti. «Il marine è un’arma. Fucili, carri armati e persino le mani nude sono solo strumenti. I marines devono essere assolutamente certi di essere i migliori al mondo nella guerra e convincersi che al loro confronto ogni altra forza armata appaia al massimo amatoriale». Il marine è fatto per vincere la violenza del nemico con una violenza immensamente più grande, e «se non ci fosse bisogno di uomini con un’attitudine e un addestramento alla violenza non ci sarebbe bisogno del corpo dei marines».
Arriva la guerra dell’Iraq e il nostro Fast, sempre pronto a uccidere, va e uccide. Tutti hanno sparato e ucciso, e il ritorno in elicottero è una sequenza di rivelazioni: ognuno gode l’attimo in cui si sente vivo, ognuno toglie il caricatore e la palla in canna, qualcuno piange, tutti lo guardano, tutti gli dicono che è okay, vengono gli psicologi non per confortarlo ma per capire se è ancora utilizzabile come soldato. «Guardo quel ragazzo e guardo dentro di me, e quel che vedo non mi piace. Non rinnovo la ferma. Ho chiuso. Ho ventidue anni e mi sento vecchissimo. Gli occhi di quel ragazzo mi hanno ricordato ciò che ero una volta. Un essere umano».
fercamon@alice.it
Ferdinando Camon, TuttoLibri – La Stampa 6/12/2014