Silvia Ragusa, pagina99 6/12/2014, 6 dicembre 2014
IL PORTOGALLO VENDE I SUOI GIOIELLI ALLE SUE EX COLONIE
Spendono migliaia di euro nelle boutique dell’Avenida da Liberdade di Lisbona. E a Cascais, località balneare alla moda, comprano appartamenti di lusso. D’altronde loro, insieme ai cinesi, sono stati i primi beneficiari dei «visti d’oro» che il governo ha promesso a chi investe almeno 500 mila euro nel Paese. Nulla di nuovo per i portoghesi, se non fosse che, a furia di far girare l’economia, gli angolani pian piano hanno messo le mani sul loro antico colonizzatore: banche, energia, telecomunicazioni, media, edilizia e agroalimentare, tanto per citare alcuni settori.
Questo mese poi Portugal Telecom, un pilastro del Paese, è stata convertita in merce di scambio dalla brasiliana Oi – in procinto di passare alla francese Altice –, sempre che la «regina d’Africa» Isabel Dos Santos, figlia del presidente angolano José Eduardo, non riesca a mettere i bastoni tra le ruote con la sua opa da 1,2 miliardi di euro. Isabel possiede già il 29% di Zon Multimedia, il 20% del Banco Português de Investimento e il 10% del Bic Português. Gli angolani sono padroni anche del gruppo mediatico Controlinveste (Diario de Noticias, Jornal de Noticias, la radio Tsf e lo sportivo O jogo), hanno un 15% in Cofina (Negocios, Correio da Manhá, Sol) e un cospicuo interesse per la radio e la tv pubblica, qualora venisse privatizzata. Come a dire, in attesa della prossima svendita.
«È in gioco l’interesse nazionale», tuonano adesso da Lisbona. Sono economisti, accademici, ex ministri e politici, dalla destra (partito del Cds) alla sinistra (Blocco di sinistra), a voler segnare uno stop alla desertificazione economica. Quattordici personalità di spessore hanno scritto, nero su bianco, un appello al Parlamento e al presidente Passos Coelho per fermare l’aggressione: «Non si può disarmare il Portogallo. Gli organi sovrani dovrebbero farsi fedeli interpreti del perseguimento del bene comune che è proprietà della nazione».
Portugal Telecom è solo l’ultimo tassello di un tracollo economico senza fine, prodotto del programma di privatizzazioni che ha imposto la troika europea negli ultimi anni e, negli ultimi mesi, del crack del Banco Espírito Santo (Bes). Così oggi non si può più accusare della situazione il solo Fondo monetario internazionale, né la Banca centrale europea, né Bruxelles. Tanto più dopo gli ultimi arresti eccellenti: prima il potente Ricardo Salgado, amministratore delegato del Bes, poi il capo della polizia di Stato e infine l’ex premier del Paese José Sócrates. La verità è che il Portogallo è in vendita. «La gravità della situazione è incompatibile con silenzi e omissioni» dicono i firmatari dell’appello, che continuano: «Pertanto chiediamo alle autorità politiche e statali una condotta particolarmente energica».
Se 40 anni fa il Portogallo insorgeva contro la dittatura di Salazar le guerre coloniali, adesso il conflitto si è spostato su un altro fronte, tutto economico, dove l’Angola – l’ex colonia ricca di petrodollari con un tasso di crescita tra il 5 e il 15% – sembra aver preso il sopravvento.
In un’indagine dettagliata, O Poder angolano em Portugal (Il potere angolano in Portogallo), Ceslo Filipe, giornalista della rivista economica Jornal de Negócios, ha tracciato la portata delle attività angolane. Secondo i suoi calcoli Luanda ha investito tra i 10 e i 15 miliardi di euro nel Paese europeo. E i dos Santos e il suo entourage hanno svolto un ruolo di primo piano. Il figlio del presidente, José de Sousa Filomene dos Santos, ora a capo del Fundo Soberano de Angola, controlla beni per un valore di circa 15 miliardi.
In molti storcono il naso su questo iperattivismo, già dai tempi della stretta di mano tra i due capi di Stato, nel 2011. L’Angola è entrata a gamba tesa a Lisbona, nonostante sia uno dei Paesi più corrotti al mondo: l’ultimo report di Trasparency International, l’ong che si propone di combattere la corruzione, l’ha piazzata questa settimana al l6lesimo posto su 177 Stati. Ma si sa, il denaro è una manna dal cielo per la depressa Lisbona. Tanto più che attualmente circa 200 mila cittadini portoghesi vivono e lavorano proprio nell’ex colonia, dove molti giovani disoccupati hanno trovato sbocchi professionali.
Da questa parte dell’Atlantico anche Cina e Brasile vengono visti con sospetto, accusati di aver partecipato alla spoliazione statale degli ultimi anni. Oggi, ad esempio, l’acqua, la luce e gli ospedali del Portogallo appartengono a Pechino.
China Three Gorges ha sborsato più di 2,5 miliardi per il 22% della Edp, la società impegnata nei settori di produzione, distribuzione e commercio di energia elettrica e gas. Il gruppo cinese Fosun, poi, ha pagato un altro miliardo per l’assicurazione leader Fidelidade e meno di due mesi fa ha investito 408 milioni nell’Espirito Santo Saúde, che gestisce una ventina di centri ospedalieri in tutto il Paese. Un’altra società cinese, la State Grid, è entrata col 25% nella rete elettrica nazionale e la società dell’acqua di Pechino ha acquisito per 95 milioni la sua omonima portoghese. In tre anni la Cina ha speso più di 5 miliardi di euro per comprare aziende statali di Lisbona.
Anche il Brasile guarda con attenzione ai suoi vecchi colonizzatori. Il colosso dell’edilizia di Rio Camargo Correa ha acquistato la Cimpor per più di 5 miliardi, due anni prima che la società di telecomunicazioni Oi trattasse come merce di scambio Portugal Telecom con l’intento di fare cassa per comprare la filiale brasiliana di Telecom Italia.
Insomma: Lisbona non ha soldi, le imprese non hanno soldi, la gente non ha soldi (l’alto tasso di risparmio, pari al 14%, è sintomo di paura, anche se la disoccupazione è scesa al 13%). Chi ha fatto bancarotta è la banca che li proteggeva tutti, il Bes. Piaccia o non piaccia, il destino del Paese si decide oramai anche a Luanda.