Cristina Giudici, pagina99 6/12/2014, 6 dicembre 2014
ESTASI E PRAGMATISMO TRA LE NUOVE TRIBÙ PADANE
SPIRANO (BERGAMO). L’ultimo numero della Padania, titolato con un semplice «Grazie» a lettere cubitali, è appena andato in tipografia; a Spirano, comune leghista nella bassa bergamasca, tre generazioni di militanti si incontrano sotto un tendone per un raduno di tre giorni, dedicato alla festa orobica.
L’estasi per l’inaspettata ascesa del Carroccio si mescola con la malinconia per il passato, per la tribù padana guidata dal Capo, Umberto Bossi, che fino a pochi anni fa strepitava sul prato di Pontida dei «milioni di fucili» pronti a difendere la secessione. Il «goleador» (copyright Silvio Berlusconi) Matteo Salvini è andato a Lione, a incassare le lodi di Marine Le Pen al congresso del Front National, e qui sul palco a scaldare i cuori c’è Umberto Bossi.
Accolto da un tiepido ma affettuoso applauso, il Capo non nasconde l’amarezza per il suo partito autonomista, che gli è stato sottratto dall’esercito dei barbari sognanti del governatore lombardo, Roberto Maroni. «Non dovevo dimettermi», dice con voce rauca, rievocando lo psicodramma della notte delle scope, – il 12 aprile del 2012 –, prima di scendere dal palco e sedersi a un tavolo di legno a fumare sigari e bere Coca-Cola.
I giovani padani fanno ragionamenti pacati, analizzano le nuove strategie del Carroccio, dissertano di Stato centralista, di occupazione, di immigrazione, dell’Europa dei popoli. Con piglio quasi accademico. Messi in soffitta slogan e manifesti sul genere «Roma ladrona» e «Padroni a casa nostra», sotto il palco campeggia lo striscione «Orgogliosi di essere leghisti». Un centinaio di militanti beve birra e ascolta il Capo con la deferenza dovuta; ma ormai nella Lega 3.0 guidata da Salvini, ribattezzato «il Capitano», sono tutti con lui, mentre dirige i suoi marinai verso Sud, nella speranza di costruire un partito nazionale. Virando a destra, ma attento anche a raccogliere il consenso dei disoccupati, rimasti senza partito né santo a cui votarsi.
«Siamo sempre autonomisti», spiega un giovane fresco di laurea, «ma il nostro sogno è stato messo da parte per fare i conti con la realtà: la crisi economica ha modificato le nostre priorità». Qualcuno osserva, beffardo, che «i militanti giurano ancora sull’articolo 1 dello statuto della Lega Nord, sull’indipendenza della Padania». Qualcun altro sottolinea invece che «il progetto di creare una Lega al Sud e l’alleanza con la destra lepenista fanno parte di una strategia per guadagnare il consenso necessario a decidere le sorti del centrodestra e realizzare l’autonomismo».
Daniele Belotti, stessa generazione di Salvini, segretario provinciale della Lega Nord di Bergamo –106 sezioni, 1.500 militanti con la tessera in tasca –, ammette che «l’alleanza con la destra radicale ha creato all’inizio qualche mal di pancia, ma poi è stata spiegata bene e quindi compresa». La pancia del Carroccio stasera è quieta, solo parzialmente disorientata, mentre la testa si adegua al nuovo corso. I più anziani, stessa generazione di Bossi, parlano in dialetto e continuano a ribadire più o meno gli stessi concetti: «L’indipendenza è nel nostro cuore, il Capo è la nostra storia, ma se chiudono centinaia di imprese ogni giorno dobbiamo farcene una ragione. Costruire la Padania non può essere la nostra priorità. Magari in futuro... ».
Bossi, il Capo, con la cupezza crepuscolare dovuta all’età, alla malattia, ai cambiamenti genetici del suo movimento, attacca: «Le casse della Lega sono vuote, ma quando sono andato via io c’erano 140 milioni di euro». Alimentando qualche sospetto con la sua nota inclinazione alla dietrologia, alla cultura del sospetto e del complotto, forse motivato dagli eventi passati, dal metodo brutale con cui è stato emarginato. «Volevano mandarmi in galera, ma sono ancora qui», borbotta.
La generazione di mezzo, quella che ha vissuto il trauma della diatriba fra bossiani e maroniani, trova così la sintesi: «Eravamo a un passo dalla fossa, ora grazie a Salvini siamo rinati. È lui l’erede di Bossi, ha doti carismatiche e sa fiutare l’aria, è una macchina da guerra. Ci porterà lontano, a governare di nuovo. Magari senza la presenza ingombrante di Berlusconi», sospira Giuseppe, 50 anni, artigiano. «Il Cavaliere è stata la nostra rovina, ma da soli non ce la potevamo fare».
Per i leghisti 3.0 il nodo da sciogliere resta lo stesso della Lega 2.0 di Roberto Maroni e 1.0 di Umberto Bossi: l’alleanza indigesta con Berlusconi. Intorno ai tavoli di legno si discute animatamente. «Ora siamo noi a dettare l’agenda, non si va più ad Arcore a prendere ordini», esulta Doris, 30 anni. Ma è proprio il sindaco di Spirano a ricordare che la Lega non è cambiata. Giovanni Malanchini, occhiali verdi (quelli rossi, brand dei barbari sognanti di Maroni, sono scomparsi) e consensi record (75% per il secondo mandato), racconta: «Siamo ancora dei pazzi irrazionali. L’orizzonte della Lega è stato un miraggio, una lucida follia. L’indipendenza era il nostro sogno e continua ad esserlo. Lo abbiamo sostituito con un progetto di autonomismo più pragmatico, ma le ricordo che qui a Spirano io ho chiuso il Comune il giorno della commemorazione dell’Unità d’Italia. Qui abbiamo fatto presidi e roghi contro la presenza dei profughi, per un mese, sotto il diluvio. Quando c’è da lottare siamo in trincea, come sempre».
Il Capo si aggira fra i tavoli. Tirando il pugno destro sulle mani aperte dei militanti, che lo salutano. «Siamo tutti malinconici nei confronti del passato», ammette il sindaco, «ma Matteo ci ha restituito fiducia nel futuro. E con lui andremo di nuovo lontano». Non ci sono i soliti leghisti folcloristici, con elmetto e corna per evocare i popoli pagani, ma qualche militante anziano esprime un lieve imbarazzo per l’approdo imminente della nave di Capitano Salvini al Sud. «Non dobbiamo sposare l’assistenzialismo, ma promuovere l’autonomismo anche a Roma, in Sicilia. E poi non ce l’abbiamo con loro, ma con i loro politici che hanno rubato i soldi al Nord». Loro sarebbero quelli che la Lega 1.0 chiamava «terroni, ladroni».
Persino Umberto Bossi, interpellato da pagina99, se la cava dicendo: «Il Sud è cambiato, un po’...» lasciando la frase in sospeso. Morale: il vento ha fatto il suo giro e a Spirano – dove avvenne nel novembre del 2013 il mutamento genetico della tribù padana, che ha sempre eletto i suoi leader per acclamazione non si urla più. Tutti uniti, anche i giovani tatuati che hanno votato per Bossi al congresso nel dicembre scorso, dietro Matteo Salvini. Capace di suscitare simpatie e consensi all’esterno del movimento padano. Secondo gli ultimi sondaggi Ipsos, il suo indice di gradimento è cresciuto ulteriormente: 33%. L’altro Matteo piace a un italiano su tre. E ai militanti dello zoccolo duro della Lega Nord: per amore e per necessità; per istinto di sopravvivenza e per gratitudine. Anche a chi è rimasto fedele a Bossi. «Matteo sta alla politica come le Hogan alle scarpe. È il migliore brand che potevamo avere», spiega baldanzoso il senatore Nunziante Consiglio.
Nel frattempo però i forzieri della Lega sono vuoti, i 71 dipendenti del quartier generale milanese di via Bellerio sono in cassa integrazione, le sezioni diminuiscono e il Capitano ha creato un movimento light. Il popolare radicamento territoriale rimane, – i militanti accorrono quando si deve andare in piazza o a presidiare i gazebo –, ma il segretario del Carroccio ha accentrato il potere. Scegliendo uno stile comunicativo simile a quello di Renzi: social network e battute veloci, frasi a affetto. Nella Lega 3.0 non ci sono colonnelli, quadri intermedi: solo marinai di un equipaggio veloce e una struttura agile. Salvini non si circonda di un cerchio magico, il cordone sanitario che ha soffocato Umberto Bossi dopo la malattia. Decisionista, si muove da solo, affidandosi al suo fiuto, con l’aiuto della sua ciurma composta da poche persone.
Persino le sagre padane sono cambiate. Ora più simili alle feste democratiche, sotto il tendone, niente comizi: spazio ai dibattiti su immigrazione, economia, politiche locali. Con esponenti di diversi partiti, con i delegati della Fiom. Si dialoga con tutti, si pesca consenso dove cresce il disagio: in periferia, nei ghetti multietnici, nelle fabbriche, per prepararsi a un balzo, con il vento in poppa dei sondaggi che rilevano una crescita dello 0,48% a settimana. Nella speranza di trasformare Salvini nel joker del centro-destra. Senza dimenticare la vocazione autonomista, che sotto il tendone di un sabato sera, nella bassa bergamasca, scalda ancora il cuore di tutti. Al ritorno da Lione Matteo Salvini chiamerà i militanti riuniti a Spirano e incasserà un coro da stadio «Matteo, Matteo». Stasera Bossi, non rassegnato, risale sul palco, lentamente, per scandire a voce bassa lo slogan: «Libertà, Padania libera», raccogliendo qualche applauso. Ma un’epoca è finita. Con molta malinconia e amaro pragmatismo.