Filippo Fiorini, La Stampa 8/12/2014, 8 dicembre 2014
ECUADOR, IL VILLAGGIO DEI BAMBINI. SOLITUDINE E SUICIDI NELLE ANDE
Nei negozi di Chunchi, sulle Ande dell’Ecuador, è difficile trovare del veleno per topi. Ne hanno ristretto la vendita da quando si è scoperto che era diventato il prodotto più usato dai bambini per togliersi la vita. Per questo Maria, nove anni, ci ha provato con la polvere da sparo, e José, che si è fermato a sei, ci è riuscito con l’acqua ragia. Alla gente del posto non piace sentir dire che questo è il paese dei bambini suicidi, perché scaccia i turisti in visita al vulcano Chimborazo. L’emigrazione, però, ha creato qui un ceto di minorenni abbandonati, che vivono da soli, si mantengono coi soldi inviati dai genitori, e spesso decidono di farla finita prima di aver compiuto diciott’anni.
In città i posti più frequentati dai giovani sono la piazza e i bar. Poi, viene la sala computer con la banda larga e Skype. Cristian Calle, che la gestisce come parte del Centro d’Assistenza al Migrante, spiega che i circa 300 ragazzi che segue, vengono per videochiamare i genitori e sentirsi dire: «Ti voglio bene», «fai il bravo» e «l’anno prossimo potrai venire qui anche tu». Tuttavia, quel 10% dei 13 mila abitanti di Chunchi che è partito per l’America, l’Europa o altri paesi emergenti, lavora oggi senza permesso di soggiorno, non pianifica alcun rientro in patria, e nemmeno può permettersi di far viaggiare i figli.
Così, questo caseggiato nascosto tra nebbie e montagne vede il 51% dei suoi bambini crescere come orfani di fatto, se va bene nei campi coi nonni, altrimenti, da soli. Tra loro, 60 bambini si sono tolti la vita dal 2012 ad oggi, moltiplicando per sei la media nazionale. Questo ritmo, che stabilisce uno dei primati (tristi) mondiali, è calato solo a partire dal 2014, quando le autorità hanno attivato un sistema di contenimento.
Nell’antologia di casi tragici che proliferano in zona, la storia di Lourdes Vizñay è una delle più note, perché quando l’hanno trovata con una corda al collo, il suo compagno di classe Fernando Flores l’ha raccontata in un libro. «Tempi Disperati» narra che il giorno del suo 17° compleanno, Lourdes ha tentato di farsi un regalo, perché si era resa conto che nemmeno quella volta sua madre sarebbe tornata per farle gli auguri di persona, come invece aveva promesso. Così, quando il bottegaio l’ha beccata a rubare il vestito dalla vetrina e l’ha chiamata «scarto», come si dice in paese ai figli lasciati lì dagli emigrati, si è vergognata tanto che è andata a casa e si è uccisa.
Scavando nelle abitudini dei pochi residenti che accettano di parlare dell’ondata di giovani suicidi, si scopre che tutto sommato qui vive gente normale. Si vive, si lavora e si cerca di accettare la morte. Quasi tutti hanno un congiunto che ha tentato il suicidio e, addirittura, c’è chi fu abbandonato a suo tempo e ora sta risparmiando per emigrare e lasciare a sua volta i figli a casa. «In fondo, mio padre qualche soldo me l’ha sempre mandato», spiegano, come fosse il denaro ciò che manca ai bambini quando si ammazzano.