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 2014  dicembre 09 Martedì calendario

FABRIZIO RONCONE, IL GUASTATORE

Era la sera del 12 gennaio del 1980 quando gli abitanti di via Vejo, quartiere romano Appio-Latino, posarono le forchette sulla tavola o distolsero lo sguardo dal televisore per correre alla finestra. A farli sobbalzare furono una decina di colpi di arma da fuoco e poi un prolungato stridore di gomme. Qualcuno fece in tempo a scorgere un’auto che si allontanava a gran velocità, altri scesero in strada. Il primo fu un ragazzo di 16 anni, Fabrizio, che era sceso di tre piani saltando i gradini quattro o cinque per volta. Credeva di correre per soddisfare una curiosità e invece stava correndo incontro alla svolta della sua vita.
In pochi minuti, con lampeggianti e sirene, giunsero sul posto una quindicina di auto della polizia: alcune si infilarono nel garage del condominio, altre ne bloccarono l’accesso. Era stato lì, nell’autoparcheggio sotterraneo con i muri scrostati e imbrattati di scritte, che un commando – forse delle Br – aveva rapito Carlo Teichner, facoltoso commerciante di stoffe, titolare di un grande negozio di abbigliamento accanto alle mura di San Giovanni. Un’ora dopo Fabrizio vide formarsi davanti al garage una strana compagnia di uomini con l’impermeabile e il bavero alzato come Jean Gabin o Alain Delon, la sigaretta fumante fra le labbra, la battutaccia pronta. Giornalisti: proprio come nei film noir. Il ragazzo ne fu divertito e affascinato. Li seguì, ma fu bloccato da un poliziotto quando cercò di scendere la rampa. Uno dei giornalisti, Andrea Garibaldi di Paese Sera, si girò e disse: “Lui sta con noi”. “Sto con loro”, annuì fiero Fabrizio. Garibaldi gli strizzò l’occhio, lui rispose piegando il capo in segno di ringraziamento. E mentre i tecnici della scientifica eseguivano i rilievi, il giovane non ebbe più dubbi: sarebbe diventato un giornalista.
Oggi Fabrizio non è più solo un nome ma un cognome conosciuto, Roncone, inviato del principale quotidiano italiano. Appare spesso dei talk televisivi (celebre una lite a Omnibus con Peter Gomez del Fatto: “Voi difendete i 5 Stelle solo per vendere qualche copia in più”), graffia quasi ogni giorno su Twitter (“Qualcuno avverta Equitalia che a Roma c’è uno che non ha pagato otto multe. Citofonare Campidoglio”; “Carletto Mazzone lasciato fuori dal totoquirinale: è una vergogna!”) e ogni settimana nella sua rubrica su Io Donna. Si è costruito una peculiarità denunciando soprusi e malaffare con nomi e cognomi, facendo incursioni da guastatore nei palazzi della politica, personalizzando le interviste con il pregio della brevità e di domande dirette e scomode, sempre in equilibrio sul filo dell’ironia. Ha 51 anni, probabilmente è ancora troppo presto per parlare di ‘ronconismo’ come stile giornalistico, ma potremmo essere sulla strada.
Pezzi brevi, nessun filtro nel raccontare e nel fare domande. Come Fabrizio sia giunto a plasmare il suo stile molto personale lo scopriremo strada facendo, cominciando con il tratteggiarne le origini esistenziali e professionali.
Romano, si è già capito, ragazzino di un quartiere della media borghesia. Il padre, Pietro, funzionario di un’azienda di trasporto pubblico; la madre, Mirella, insegnante. Figlio unico, amato ma non soffocato “e neanche viziato”, tiene a precisare. Per tutta la giornata al lavoro, i genitori non ne avrebbero avuto, oltre che l’intenzione, neanche il tempo. Le uniche concessioni, se così possiamo chiamarle, riguardavano il pallone, perché la mamma era una romanista vera, con tanto di sciarpa giallorossa, e il papà tifoso del Napoli. Con la benedizione dei genitori, Fabrizio giocava con gli amici sui campi in terra battuta e preferendo il ruolo di portiere era ricercatissimo. Alternando il calcio con la pallanuoto aveva messo su un fisico ragguardevole.
Mamma Mirella era una donna equilibrata, serena, coraggiosa. Una persona “fica”, la definisce Fabrizio oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa. “Mamma mi ha inculcato il senso del dovere, papà la correttezza. Da nessuno dei due ho mai sentito una parola sgradevole verso alcuno. Per questo detesto gli invidiosi e i taccagni. Avere avuto due genitori come loro è stato il mio primo colpo di fortuna”. E poi i tre nonni che a lungo hanno cullato i sogni del nipote: Arnaldo e Agnese, quelli materni, e nonna Rosina, morta a 99 anni. E zio Gino, una delle persone alle quali Fabrizio ha voluto più bene, e zio Cesare, la testa calda della famiglia, “che mi ha insegnato a osare”.
In un ventre familiare così ampio e caldo, il giovane Roncone non si è crogiolato, caso mai ne ha tratto la spinta per affrontare la vita con la giusta chiarezza e determinazione e per non smarrire mai la strada maestra.
Erano tempi, quelli del liceale Roncone, in cui perdersi, a Roma, sarebbe stato facile. Sabato 18 marzo del 1978, due giorni dopo il sanguinoso raid delle Br in via Fani, Fabrizio partecipò all’occupazione e a un’assemblea del suo liceo Isacco Newton, dove per alzata di mano fu approvato il rapimento di Aldo Moro.
Fabrizio ricorda il clima di quegli anni come un film in bianco e nero: una stagione cupa paragonabile a nessun’altra di quelle vissute. La famiglia e don Luigi lo aiutarono a tener dritta la barra del timone. Don Luigi era il curato di San Martino, la parrocchia che si trovava proprio davanti al garage del rapimento Teichner, e animatore di un gruppo di ragazzi che portava il suo nome. Oggi parroco di San Luigi dei Fiorentini, dove Giulio Andreotti andava a pregare tutti i giorni, e tuttora amico e guida spirituale di Roncone.
Un passo indietro. Genitori, parenti e don Luigi avevano modellato un ragazzo con le carte in regola e dai buoni sentimenti, ma anche con un piglio deciso e una bella faccia tosta. Che dopo avere deciso quale professione avrebbe abbracciato, immediatamente s’industriò su come compiere il primo passo. Lo spunto glielo offrì un amico, Luca D’Agostino, il quale correva sui go-kart alla Pista d’Oro. Fabrizio telefonò ad Autosprint, una rivista che allora godeva di una larga popolarità. “Sono un giornalista romano disoccupato”, disse al caporedattore, “potrei fare dei servizi sulle competizioni motoristiche minori”. Oggi una telefonata del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo, ma stiamo parlando di altri tempi, quando i giornali avevano le porte aperte. La risposta fu: “Ok, cominci domani”. E così a 17 anni, mentre i suoi amici andavano al cinema o a ballare, Fabrizio consumava le sue domeniche sulle piste dei go-kart o della Formula 3. E un anno più tardi aveva già in tasca la tessera di giornalista pubblicista.
Come un bulimico della scrittura, acchiappava tutto ciò che gli capitava: l’ufficio stampa della Lazio Rugby, la conduzione di un programma di Radio Dimensione Suono sull’automobilismo, ritratti di calciatori per la rivista Giallorossi alla quale si poteva accedere solo dopo avere provato la propria fede romanista. Scavalcati da poco i 20 anni, gli giunse alle orecchie la notizia che Paese Sera cercava reclute. Si presenta, viene ingaggiato, compenso a collaborazione. Il capocronista Sandro Mazzerioli lo assegna alla cronaca nera. Fabrizio molla tutto per dedicarsi anima e corpo al quotidiano romano. Viene subito scaraventato in prima linea: le Br, i delitti Tarantelli e Giorgieri.
Il giovane Roncone fornì ottime prove, il direttore Claudio Fracassi e il caporedattore centrale Edocle Parpaglioni gli regalarono il contratto da praticante. Subito dopo lo spostarono nella squadra sportiva di Stefano Barigelli con mansioni di sempre maggior rilievo. Seguire le partite della ‘sua’ Roma, la Nazionale e le squadre italiane in Coppa dei campioni: una pacchia.
Il 24 maggio del 1989, finale Milan-Steaua Bucarest, Fabrizio s’infiltrò nell’euforica cena con cui i milanisti festeggiarono la conquista del titolo europeo, rubando le esternazioni a ruota libera di Berlusconi che il giorno dopo comparvero in esclusiva sul suo giornale. Meritò un encomio e una settimana di vacanza che il gasatissimo Roncone trascorre in un albergo della Costa Brava a picco sul mare in compagnia di una fidanzatina. Una settimana che divenne cortissima. Dopo solo due giorni il centralino gli passò una telefonata dall’Italia: “Fabrizio, Paese Sera sta per chiudere”. Mollò pinne e occhiali, prese bagagli e fidanzata, corse all’aeroporto di Barcellona per salire sul primo aereo diretto a Roma. Era un Boeing proveniente da Fiumicino, Roncone chiese una copia di Paese Sera. “Eccola, è l’ultima”, gli disse la hostess. “È così richiesto?”, domandò Roncone. “No, è proprio l’ultima. Legga in prima pagina, c’è la notizia che il giornale chiude”.
Nel novembre del 1989, dopo 26 anni senza disillusioni, Fabrizio assaporò il gusto amaro della disoccupazione. Poco male, molto presto la sua buona stella avrebbe ripreso a brillare. Neanche un mese e il telefono squillò: driiin! È Marco Mazzanti, caporedattore dell’Unità: “Vuoi venire da noi?”. Che domande. Fabrizio vola in Via dei Taurini, saluta e ringrazia Marco. Prima di salire dal direttore, Massimo D’Alema, viene indottrinato: cerca di rimanere muto e se proprio dovrai parlare dagli del tu. Lo scorta un membro del Cdr. Bussa, risponde una voce stanca: “Aaavanti”. La stanza è buia, il volto di D’Alema appena illuminato dal chiarore di un computer che risuona del ‘ding-dong-ding-dong’ della pallina che rimbalza da una parete all’altra del videogioco. D’Alema muove i tasti senza alzare lo sguardo. E sempre fissando lo schermo scandisce: “Ho saputo che verrai a lavorare con noi, cerca di non farmene pentire”. Silenzio. ‘Ding-dong-ding-dong’. Tirato per la manica dal suo accompagnatore, Fabrizio gira i tacchi ed esce a riveder la luce.
Non furono facili, per lui, gli anni dell’Unità. Era l’unico redattore non iscritto al Pci, viaggiava con una Bmw station wagon, veniva da Paese Sera. In redazione dicevano che quelli di Paese Sera sono dei fighetti che guadagnano troppo oppure vanno a Repubblica. In effetti c’era stato un esodo massiccio dal saltuario quotidiano del pomeriggio verso l’ambitissima nave pirata di Scalfari. L’approdo dei sogni per Roncone, che studiava le firme più brillanti del giornale, ritagliava i loro articoli, ne sottolineava gli incipit, il periodare, certi capoversi. Avrebbe messo su un archivio fornitissimo, facendone tesoro per la sua scrittura.
Il ruolo di inviato dello sport lo mise al riparo da sarcasmi politico culturali e dalla muffa redazionale. Da gennaio in poi venne spedito sulle piste del Napoli di Maradona che stava compiendo il miracolo di resuscitare l’orgoglio e l’entusiasmo di una città perennemente ferita. Alla festa dello scudetto, in uno stanzino dello spogliatoio c’erano soltanto Roncone, Gianni Minà e Ciccio Esposito a raccogliere le confidenze del fuoriclasse argentino.
Fabrizio firmò anche i più importanti eventi internazionali: la finale della Coppa campioni fra Milan e Benfica a Vienna, i Mondiali in Italia, Aston Villa-Inter a Birmingham per la Coppa Uefa. E proprio quest’ultima occasione lo avrebbe indotto a una profonda riflessione su qualcosa che da tempo gli stava ronzando intorno come un petulante moscone. Durante un trasferimento in pullman dall’albergo allo stadio, capitò accanto a Massimo Gramellini, “Questa è la mia ultima trasferta”, gli confidò l’inviato della Stampa, “lascio lo sport”.
Per Roncone fu come se un velo di nebbia di colpo svanisse. Sì, lo sport è divertente, ti fa girare il mondo, ma è un grande gioco. E un bel gioco dura poco. Per lui era durato fin troppo e il latente desiderio di occuparsi d’altro era esploso. Anche per questo, poche settimane prima, a Domenico Morace, direttore del Corriere dello Sport, che gli aveva proposto un ricco contratto, aveva chiesto tempo prima di rispondere.
Tornato a Roma si fiondò nella stanza del condirettore Piero Sansonetti: “Ho un’offerta dal Corriere dello Sport, mi danno tanti soldi. Ma io voglio cambiare settore”. Sansonetti non fece una piega, rispose “d’accordo, ti sposto alla cronaca”. Quanto ai soldi, parlasse con l’ad Amato Mattia. Secondo successo: un ritocco alla busta paga e via per nuovi sentieri. I sequestri Soffiantini e Silvia Melis, il disastro del traghetto Moby Prince, il terremoto dell’Umbria, lo sbarco degli albanesi in Puglia: nella grande stagione dell’Unità di Walter Veltroni (1992-1996), sui fatti da prima pagina c’era sempre la firma di Fabrizio Roncone.
La redazione del quotidiano del Pci si trasferì nel frattempo in via Due Macelli, a un centinaio di metri dalla sede del Messaggero, via del Tritone. La vicinanza spinse Fabrizio a fare ciò che tante volte aveva pensato fosse giusto ma aveva sempre rimandato. Compone il numero del Messaggero e chiede di Andrea Garibaldi: “Ciao, sono Roncone, un tuo collega dell’Unità. Vorrei vederti, devo raccontarti una storia”. Già, la storia del sequestro Teichner, del garage, di quel cronista che disse ai poliziotti “il ragazzo sta con noi”. La storia per cui adesso facevano lo stesso mestiere. S’incontrarono, i due giornalisti, si persero di nuovo, si ritrovano su alcuni servizi. L’ultimo nel giugno 1998, nell’aula del processo per l’omicidio di Marta Russo. Qualche giorno dopo, Roncone trovò un messaggio nella segreteria telefonica: “Fabri, sono Andrea, chiamami appena puoi, è importante”.
Diventato responsabile della cronaca romana del Corriere della Sera, Garibaldi gli propose di raggiungerlo come suo vice. Fabrizio posò il telefono e svuotò i cassetti della propria scrivania. Salutò dopo nove anni il giornale – passato ora nelle mani di Mino Fuccillo – con un po’ di nostalgia e tanta gratitudine “per avermi dato una formazione politica e professionale di prim’ordine”.
A giugno due colazioni con Massimo Gaggi, capo della redazione romana, gli servirono per capire in quale mare dovesse nuotare. A settembre il colloquio di due ore con Ferruccio de Bortoli gli servì per scacciare ogni ombra residua. “Ok, sei del Corriere”, concluse de Bortoli tendendogli la mano.
Sì, ma... Passò un mese senza ricevere notizie. Finché un giorno una voce femminile lo chiamò al telefono: “Le passo il direttore de Bortoli”. “Fabrizio, allora? Perché non vieni mai al giornale, non firmi, non ti vedo alle riunioni?”. “Ma direttore, non ho più sentito nessuno”. “Che mi dici! Ti faccio contattare subito”.
Ecco come cominciò l’avventura del Corriere della Sera’. con un po’ di batticuore. È l’autunno del 1998, Roncone ha da poco compiuto 35 anni e non è proprio fatto per stare dietro una scrivania.
Franco Recanatesi – Vice del capocronista significa culo di pietra. È come se dicessero a Brunetta di giocare a basket.
Fabrizio Roncone – Hai ragione, non riesco a organizzare la mia vita, figuriamoci il lavoro degli altri. Mi piacerebbe, ma non so farlo. Per fortuna dopo pochi mesi anche gli altri si sono accorti che sono tagliato più per la scrittura. A febbraio del ’99 sono stato spedito a Cassino per il caso di un bambino di 11 anni, Mauro lavarono, misteriosamente assassinato. Doveva essere la cronaca di un giorno, sono rimasto tre settimane e poco dopo mi hanno mandato in Kosovo.
F. Recanatesi – In pochi mesi da deskista a inviato di guerra. Senza nessuna paura?
F. Roncone – Prima hai ricordato zio Cesare: mi ha insegnato che per ottenere qualcosa devi osare. Poi, certo, una volta sul posto un po’ di paura l’ho avuta. A Prizren ero barricato nella camera d’albergo, con il mio amico Enrico Fierro dell’Unità, tutti e due sotto il letto mentre fuori c’era l’inferno. Ho raggiunto carponi il telefono satellitare per tranquillizzare i miei genitori. Ha risposto mia madre: “Tutto bene, tutto tranquillo”, le ho detto. E lei: “Ma tuo padre dice che lì infuria una battaglia”. “Tranquilla ma’, lo sai come siamo noi giornalisti, vediamo un sassolino e descriviamo una montagna”. Il problema, quando vai in certi posti, sono le persone in ansia per te.
F. Recanatesi – Ti piace raccontare le guerre? O è meglio una finale di Champions? O intervistare un personaggio politico?
F. Roncone – Mi piace essere dove avvengono fatti importanti. Mi piace variare. Nel 2006 chiesi a Paolo Mieli di mandarmi ai Mondiali di calcio e poi al Festival di Sanremo. Mi rispose gelido: “Ci sono cose più divertenti a Roma”. Poco dopo il suo arrivo, nel dicembre del 2004, Mieli mi aveva spinto dentro Montecitorio. Mi diceva che anche lungo quegli austeri saloni potevo raccogliere materiale per un pezzo brillante, basta cogliere i particolari e vedere ciò che gli altri non vedono.
F. Recanatesi – Una delle regole scalfariane. E prima ancora di Lamberto Sechi e di Antonio Ghirelli. Per avere buona stoffa ci vogliono buoni maestri.
F. Roncone – Con de Bortoli e Mieli, la sorte è stata con me generosissima.
F. Recanatesi – Come viene accolto un giornalista incursore e irriverente nei palazzi della politica?
F. Roncone – Non sono un assiduo del Palazzo, ci vado quando devo svolgere un servizio. Penso che un giornalista debba avere rapporti con i politici ma anche fissare dei confini. I legami troppo stretti diventano spesso inestricabili.
F. Recanatesi – Tu non hai stretto amicizia con nessun personaggio della politica?
F. Roncone – Sì, con due.
F. Recanatesi Chi sono?
F. Roncone – Non voglio dirlo.
F. Recanatesi – Dimmi almeno a quale partito appartengono.
F. Roncone – Al Pd.
F. Recanatesi – Allora parliamo di Renzi.
F. Roncone – Sulla scena politica sono rimaste due persone, Matteo Renzi e un condannato in via definitiva. La scelta è obbligata. Se Renzi ha un problema sono gli annunci: realizza una cosa buona e subito ne annuncia un’altra. Senza neanche il tempo di valorizzare quella appena compiuta.
F. Recanatesi – Hai cancellato Beppe Grillo dal palcoscenico politico.
F. Roncone – Il Movimento 5 Stelle ha dato il colpo di grazia al Parlamento. È vero, la politica ha bisogno di novità e di pulizia, ma anche di spessore e di competenze che non possono certo appartenere a gente presa a caso da un condominio.
F. Recanatesi – Dimmi delle tue interviste al peperoncino. Chissà quante proteste.
F. Roncone – Mi presento sempre con nome, cognome e testata. Da quel momento l’interlocutore sa che tutto ciò che dice può essere scritto. Tant’è che nel 95% dei casi nessuno si lamenta.
F. Recanatesi – Mi interessa quel 5% rimanente.
F. Roncone – Per esempio la Polverini che telefonò al giornale furibonda dopo un ritratto urticante. O Barbareschi che scrisse a de Bortoli una lettera di fuoco. La Santanchè volle chiamarmi personalmente: “Roncone sei bravo, ma devo dirti con tutto il cuore che sei anche uno stronzo”.
F. Recanatesi – Vita sentimentale?
F. Roncone – Ho una compagna, Federica Serra. A lungo ci siamo sbaciucchiati incontrandoci alle feste, tre anni fa abbiamo deciso di vivere insieme, lei, io e il cane bassotto Ciro.
F. Recanatesi – Federica Serra vice capo ufficio stampa del Pd al Senato e portavoce di Luigi Zanda?
F. Roncone – Sì, lei.
F. Recanatesi Lo chiedo a tutti nel finale della conversazione: per chi voti?
F. Roncone – Non lo dico ma sei libero di immaginarlo.
F. Recanatesi – Non ci vuole una grande fantasia.
F. Roncone – Ehi, ma non abbiamo parlato della Roma: l’unica cosa di cui m’intendo veramente.
F. Recanatesi – Non c’è più tempo. E poi io tifo per la Lazio.

Intervista di Franco Recanatesi